Il termine supercycle (superciclo) è in queste settimane centrale nella discussione tra investitori e tecnologi della Silicon Valley, ma non si sente menzionare in Italia.
Riteniamo sia interessante esplorare di cosa si tratta, come possa essere rilevante per le aziende dei nostri territori e in che modo la nuova politica industriale governativa possa tenerne conto.
Il concetto di superciclo: definizione e occorrenze storiche
Nel mondo dell’economia e della finanza, il termine “superciclo” si riferisce a un periodo prolungato di forte crescita economica, tipicamente guidato da un’innovazione tecnologica sostenuta dall’adozione diffusa nelle imprese e dall’aumento dei prezzi degli asset, azioni ma anche commodity. A differenza dei cicli economici regolari, che durano in media 5-6 anni, i supercicli possono estendersi per diversi anni o addirittura decenni, portando a una notevole espansione economica.
L’economia globale è intrinsecamente ciclica, con periodi di espansione, picco, contrazione e depressione. Tuttavia, durante un superciclo, la fase di espansione è notevolmente prolungata, guidata da tendenze persistenti e positive che supportano l’adozione e l’innovazione tecnologica. Questa domanda spesso supera l’offerta, portando a prezzi più alti e incentivando le aziende ad aumentare la produzione e gli investimenti in nuove tecnologie.
Dall’analisi dei rendimenti dell’indice S&P 500 in figura si possono ricavare ulteriori approfondimenti sull’occorrenza e l’impatto dei supercicli. Storicamente, i periodi di superciclo hanno infatti coinciso con tendenze significative nei rendimenti azionari, derivate dalla crescita di attività economica e dall’aspettativa che la progressione tecnologica portasse alle imprese una maggiore redditività.
Il concetto di onde di Kondratieff, o cicli economici lunghi, arricchisce ulteriormente la nostra comprensione dei supercicli. Nominati in onore dell’economista russo Nikolai Kondratieff, queste onde sono cicli economici a lungo termine di “boom e bust” (bolla e scoppio), che durano tipicamente dai 40 ai 60 anni. Kondratieff ha identificato diverse onde nel corso della storia, ciascuna guidata da innovazioni tecnologiche e significativi cambiamenti economici:
- Prima Onda (1780-1830): Guidata dalla Rivoluzione Industriale e dall’avvento della macchina a vapore, questa onda ha visto una significativa crescita economica e industrializzazione.
- Seconda Onda (1830-1880): Alimentata dall’espansione dell’industria siderurgica e dalla diffusione delle ferrovie, questo periodo ha segnato un’altra fase di rapido sviluppo economico.
- Terza Onda (1880-1930): Caratterizzata dall’elettrificazione e dalle industrie chimiche, questa onda ha portato a notevoli progressi tecnologici e crescita economica.
- Quarta Onda (1930-1970): L’ascesa dell’industria automobilistica e petrolchimica ha definito questa onda, portando a una significativa espansione economica.
- Quinta Onda (1970-2010?): Incentrata sulla tecnologia dell’informazione, questa onda ha visto una crescita senza precedenti nelle tecnologie digitali e nella connettività globale.
Per gli amanti della tassonomia italiana ed europea sulle rivoluzioni industriali possiamo notare che le onde di Kondratieff si concentrano più sugli effetti economici che si sviluppano in tempi diversi, ma entrambi i metodi individuano sostanzialmente le stesse tecnologie e coincidono nell’individuare nell’ICT l’ultimo periodo notevole: Industria 4.0 e quinta onda di Kondratieff.
Ed è proprio sulla fine di questo ultimo superciclo e su quello che verrà dopo che vale la pena di ragionare: una transizione in cui siamo immersi.
Il Superciclo visto dalla Silicon Valley: le ondate tecnologiche passate e quella corrente
Se è vero che gli effetti finanziari dell’ultimo superciclo si sono evidentemente esauriti con la crisi del 2008-2010, i VC (venture capitalist) americani si domandano cosa attiverà il prossimo ciclo di cui già si vedono le avvisaglie – basti notare che dal 2010 i ritorni finanziari sono una sostanziale galoppata nella doppia cifra, con l’ovvia eccezione del 2020. Una domanda interessata, visto che il loro mestiere è quello di “scommettere” sulle nuove imprese tecnologiche in grado di generare valore e ritorni finanziari adeguati.
Dal punto di vista dei VC le onde di Kondratieff sono un fenomeno troppo a lungo termine, e quindi sono arrivati ad utilizzare il termine superciclo per descrivere un fenomeno di più breve durata all’interno del quale si possono discriminare più chiaramente i determinanti tecnologici, i trend dunque su cui investire oggi e che nella loro diffusione tra imprese e utenti finali determineranno crescita di produttività tale da offrire cospicui ritorni economici.
Come mostra l’analisi proposta in Figura 2, questi cicli negli ultimi 50 anni sono identificabili piuttosto chiaramente:
- Negli anni ’80 la rivoluzione dei personal computer (PC) che ha sradicato l’infrastruttura dei mainframe in favore di quella distribuita server-client e che ha portato l’avvento della produttività personale basata su desktop computing;
- A metà degli anni ’90 l’arrivo di internet basata sulla rete “globale”, il browser come finestra sul mondo e la banda larga come abilitante (Nota: per chi non ricordasse la dot-com e pensasse di utilizzare queste informazioni come guida finanziaria: caveat emptor!);
- Nella prima decade del nuovo secolo e sostanzialmente fino ad oggi, la diffusione degli smartphone (mobile) come computer onnipresente, il cloud che remotizza l’infrastruttura e abilita nuovi modelli di business, e l’emergere di grandi quantità di dati come elemento qualitativamente diverso (si pensi ai social).
Ciascuna ondata tecnologica ha portato una crescita di connessioni e ricavi di quasi 10 volte rispetto all’ondata precedente. La scala di diffusione e ritorni è logaritmica e non lineare, e questo è quello che si definisce “scalabilità” delle tecnologie e delle startup.
Analizzando il presente e il futuro prossimo, sembra esserci un ampio consenso su ciò che sta guidando il prossimo superciclo tecnologico: l’AI generativa. È ormai evidente che l’introduzione dei LLM non stia generando valore solo per le grandi aziende che sviluppano i modelli fondamentali (come Meta, Google e anche OpenAI, una startup valutata 150 miliardi di dollari pari al valore di Enel), ma anche per molte nuove imprese che creano propri modelli o applicazioni di produttività, apportando valore ai clienti grazie all’uso intelligente di dati in continua crescita.
Dal nostro punto di osservazione sull’economia industriale italiana, dobbiamo chiederci se e come il grande valore economico previsto dai venture capitalist americani possa tradursi in competitività e redditività per le nostre imprese e benessere per le nostre comunità.
Imprese italiane alla sfida delle nuove tecnologie
Rispetto ai cicli tecnologici precedentemente analizzati, è importante notare due caratteristiche che incidono sulla capacità delle imprese italiane, meno orientate alla tecnologia rispetto a quelle della Silicon Valley, di generare valore attraverso l’applicazione delle nuove tecnologie ai propri prodotti e processi, che sono c.d. “mid tech”.
La prima caratteristica è il passaggio dalla predominanza dell’hardware a quella dei servizi. Mentre le prime ondate tecnologiche legate a PC e Internet erano infatti basate su server, switch e altre tecnologie tangibili, che non sono mai diventati “prodotti tipici” delle nostre imprese, le successive innovazioni legate al mobile e al cloud hanno dematerializzato l’infrastruttura, gestita da utenti finali o enti terzi. Con l’avvento dell’AI generativa si arriva alla servitizzazione non solo dell’infrastruttura ma anche del primo strato di software, quello relativo ai modelli fondativi, ora disponibili commercialmente o open source. Le imprese possono iniziare sviluppando applicativi che si basano su queste infrastrutture e modelli senza dover stanziare subito pesanti investimenti iniziali in conto capitale. Sapendo quanto le imprese italiane siano sottocapitalizzate, possiamo convenire che questo passaggio dall’hardware ai servizi renda le nuove tecnologie più facilmente utilizzabili e integrabili dal nostro tessuto produttivo.
L’altro aspetto rilevante riguarda le competenze richieste. Mentre le passate ondate tecnologiche richiedevano forti competenze ICT (information and communication technologies) per la gestione e programmazione dell’hardware, oggi le competenze necessarie sono più operative e focalizzate sui processi e prodotti specifici in cui le nuove tecnologie vengono integrate. Le competenze ICT sono ora esse stesse servitizzate, concentrate nei player di mercato che offrono cloud e modelli fondativi. Questo è ovviamente vantaggioso per le imprese manifatturiere italiane, tradizionalmente più esperte di prodotto e processi, permettendo loro di valorizzare il capitale umano disponibile anche nell’implementazione delle nuove tecnologie.
Senza nasconderci il fatto che in uno scenario in cui hardware e software sono servitizzati le imprese utilizzatrici di queste soluzioni devono cedere una parte rilevante del valore aggiunto a chi offre i servizi abilitanti (da cui le valutazioni di OpenAI), si deve riconoscere la grande opportunità che le aziende italiane hanno oggi davanti nell’essere perfettamente posizionate per ottenere i benefici delle nuove tecnologie grazie alle competenze “tradizionali” di prodotto e processo, senza dover fare fronte a importanti investimenti infrastrutturali. Come ogni opportunità, però, anche quella tecnologica è diversa a seconda dell’osservatore.
Se da una parte infatti abbiamo sicuramente nel nostro tessuto imprenditoriale e industriale aziende all’avanguardia che da anni stanno integrando l’AI nei propri processi e prodotti, e quindi sono al passo con gli ultimissimi trend tecnologici, dall’altro c’è una maggioranza di aziende meno strutturate che ancora devono integrare efficacemente le tecnologie relative ai cicli di innovazione precedenti.
Non dobbiamo infatti illuderci che il mero esaurirsi degli effetti sul mercato finanziario o dell’interesse dei VC costituiscano prova dall’esaurirsi della spinta di generazione di valore delle tecnologie che ormai siamo abituati a considerare quotidianamente disponibili. Viceversa, una loro migliore integrazione nelle tante piccole aziende italiane può portare a maggiore competitività sui mercati internazionali e migliore redditività, oltre a rafforzare la propulsione delle imprese più avanzate di cui queste aziende costituiscono filiera, contribuendo in maniera decisiva al benessere sociale che è tanto più sentito quanto più è esteso come solo l’imprenditorialità diffusa riesce a fare.
Ad oggi l’integrazione di tecnologie avanzate nel tessuto produttivo ha ampi margini di miglioramento se, come ci mostrano i dati in Figura 3, anche nel settore manifatturiero, che è sicuramente il più avanzato, il tasso di adozione di tecnologie digitali per il miglioramento delle attività produttive risulta sensibilmente inferiore non solo a quello tedesco ma anche a quello francese e spagnolo.
La sfida per chi sta disegnando la politica industriale del paese è dunque quella di riuscire a facilitare la corsa delle imprese più avanzate senza dimenticare quelle più tradizionali ed anzi orientarle a percorsi di innovazione adeguati alla loro dimensione e base di competenze.
Strumenti di politica industriale che funzionano: il caso Centri di Competenza
Partiamo dal considerare quelle che sono i primi elementi che emergono della nascente politica industriale governativa attraverso la lettura del testo “Made in Italy 2030 – Libro verde per una nuova strategia di politica industriale per l’Italia”, apprezzabile sforzo pubblicato qualche giorno fa dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) come primo passo nel percorso di definizione di questa politica.
Il Libro verde cita tra le tre principali missioni-obiettivo della nuova politica industriale:
introdurre nei sistemi industriali le nuove tecnologie critiche in grado di far compiere alle imprese salti di produttività impensabili.
E ancora tra i 15 obiettivi strategici ben due sono collegati al tema di cui trattiamo:
IV. preservare il modello produttivo tradizionale del Made in Italy, le sue specificità e il suo carattere di patrimonio storico industriale italiano, modernizzandolo con l’introduzione di nuove tecnologie e processi innovativi anche per il rafforzamento del sistema delle piccole e medie imprese. Favorire un modello italiano di sviluppo dei campioni nazionali;
IX. raggiungere gli obiettivi delle transizioni green e tech, garantendo la costante innovazione tecnologica dei processi produttivi delle industrie italiane e la loro sostenibilità ambientale, anche attraverso lo sviluppo e l’applicazione delle nuove tecnologie di frontiera;
Il Ministero sembra quindi condividere il bisogno di fondo di facilitare l’adozione tecnologica delle imprese, che si sostanzia da una parte nel supportare le aziende più tradizionali (Made in Italy) nel loro percorso di adozione delle tecnologie esistenti, dall’altra nel far leva sulle tecnologie di frontiera per consentire alle imprese più strutturate di mantenere la propria sostenibilità nel tempo.
Ma quali sono gli strumenti che la politica industriale può mettere in campo credibilmente per raggiungere gli obiettivi dichiarati? Quali hanno dimostrato di poter raggiungere lo scopo?
Dal nostro punto di vista è abbastanza chiaro che i Centri di Competenza ad alta specializzazione, costituiti nell’ambito della politica Industria 4.0 e arrivati a maturazione in tempo per essere credibili soggetti attuatori del PNRR, sono uno di questi strumenti.
Dai dati in nostro possesso i Centri di Competenza hanno infatti in meno di un anno di effettiva operatività della misura PNRR (M4.C2 inv 2.3) dimostrato di poter raggiungere entrambe le categorie di imprese – avanzate e tradizionali – con una offerta differenziata ma organica.
Da un lato hanno finanziato progetti collaborativi di ricerca, sviluppo e innovazione di centinaia di aziende avanzate, grandi e piccole, integrando competenze della ricerca e delle imprese in applicazioni che vanno dall’AI generativa ai big data al quantum computing (le probabili successive ondate tecnologiche); dall’altro hanno reso servizi di upskilling e di innovazione a circa 1.500 PMI con servizi di valore medio modesto (20.000€) che consentono però a queste imprese tipicamente più tradizionali di avviare percorsi di innovazione adeguati alle specifiche esigenze e di dotarsi delle competenze interne ed esterne per garantirne il successo. Il tutto spendendo ad oggi circa la metà del budget biennale di 100 milioni di euro.
Siamo di parte, ma crediamo si tratti di uno straordinario successo su cui si debba costruire, per una volta non accantonando esperienze di successo in favore di “nuovi giocattoli” di efficacia non provata.
Se da un lato è però evidente che le iniziative attualmente in atto da parte dei Centri di Competenza trovano il favore delle imprese italiane e le aiutano nelle transizioni, dall’altro bisogna chiedersi se e come questa operatività possa scalare così da diventare un fattore significativo nell’aggiornamento tecnologico di un milione di imprese italiane, di cui oltre 750.000 PMI.
Certamente il modello funziona in modo largamente indipendente da altre iniziative in avvio e pertanto va tenuto, ma si deve definire come attuare una crescita operativa di due ordini di grandezza per dare una risposta efficace al bisogno, emergente con sempre maggiore forza, di nuove tecnologie nei nostri sistemi produttivi.
Non abbiamo una soluzione predefinita, ma riteniamo questa possa emergere mettendo il tema all’ordine del giorno della Conferenza delle Imprese e delle Filiere prospettata nel Libro Verde governativo, probabilmente vincolando una parte del supporto governativo alle imprese che concretizzerà la nuova politica industriale ad azioni co-progettate dagli stakeholder di filiera e dai Centri di Competenza, che potranno mettere a disposizione la propria esperienza e offrire sorveglianza operativa sulle iniziative implementate da parti terze. Un tale schema consentirebbe di fare leva su quanto già ottimizzato dai Centri per scalarlo attraverso strutture operative e distributive in grado di raggiungere un crescente numero di imprese.
Matteo Faggin è direttore generale SMACT Competence Center. Ingegnere meccanico laureato all’Università di Padova con un MBA dall’Università del Maryland, ha lavorato in multinazionali industriali e dei servizi in Europa e negli Stati Uniti. Ha gestito impianti produttivi e grandi progetti in Italia, Spagna, Stati Uniti e Belgio. In Italia, ha collaborato con fondi di Venture Capital, fondando il primo acceleratore di startup deep-tech italiano e raccogliendo 40 milioni di euro. Nel 2013 ha co-fondato una startup tecnologica specializzata nella localizzazione indoor. Dal 2019 è direttore generale di SMACT, un Centro di Competenza Nazionale per la trasformazione digitale delle PMI supportato da università e aziende private.