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Pierluigi Paracchi - Genenta Science

L’innovazione tecnologica per la sicurezza nazionale e il valore della ricerca come motore di competitività. L’ecosistema delle scienze della vita e il futuro della terapia cellulare. Intervista al CEO di Genenta Science.

Quando si parla di Genenta Science, il primo aspetto che emerge è il suo primato: è l’unica società italiana quotata al Nasdaq, il più prestigioso listino tecnologico al mondo, raggiungendo questo traguardo nel dicembre 2021.

Fondata nel 2014 a Milano come spin-off dell’Ospedale San Raffaele, Genenta Science sviluppa terapie cellulari innovative per il trattamento dei tumori, sfruttando i geni e le cellule come veri e propri “farmaci”.

Pierluigi Paracchi, CEO e Co-founder Genenta Science

Pierluigi Paracchi, CEO e Co-founder Genenta Science

Ne parliamo con Pierluigi Paracchi, Co-founder e CEO, che si rivela da subito un interlocutore brillante: sorridente, diretto e incisivo. Con lucidità inquadra gli scenari globali, quelli di settore e il suo stesso percorso professionale, senza tralasciare una sottile autoironia: “Perché ho sempre innovato? Per combattere un mio difetto genetico, la capacità di percepire la noia. Se soffri di pigrizia – come un po’ ci soffro io – hai bisogno di alzare sempre l’asticella come antidoto.”

Lo incontriamo a Milano, davanti a un caffè di fine pranzo, prima di una giornata densa di impegni. Con me Emanuela Presciani, Strategic Alliance Manager di Storyfactory. Con lui Tiziana Pollio, Strategy & Innovation Advisor, che condivide la stessa incisività, rendendo il confronto ancora più stimolante.

Per parlare di innovazione e tecnologia, è essenziale capire il contesto storico in cui ci troviamo. L’epoca attuale favorisce l’innovazione? In che modo questo influisce sul valore e sulla specificità delle nuove tecnologie?

È una domanda interessante, perché oggi stiamo entrando in una diversa dimensione. Innovazione e tecnologia non solo sono strettamente collegate fra di loro, ma sono ormai intrecciate alla sicurezza nazionale, diventando così una priorità assoluta per i Paesi Leader a livello globale. Questo scenario abbraccia diverse tecnologie, dall’intelligenza artificiale fino al biotech. Non è un fenomeno nuovo, ma sta emergendo con forza anche in Paesi meno rilevanti nella geopolitica mondiale, ed è destinato a perdurare per almeno i prossimi vent’anni.

E nel vostro settore? Questo scenario rappresenta un’opportunità o un ostacolo?

Il post-Covid ha evidenziato che il biotech e le scienze della vita non sono solo cruciali, ma ora elevate a rango strategico. Negli Stati Uniti, ad esempio, dopo la pandemia è stata istituita la National Security Commission on Emerging Biotechnology, che opera sotto il Dipartimento della Difesa, non della Salute. Questo riflette un cambio di mentalità: il biotech è ora un settore strategico, anche in Europa. In Italia, ad esempio, è entrato nella normativa Golden Power, il che significa che qualsiasi acquisizione di aziende biotech deve essere approvata dal Governo. È una svolta importante: la tecnologia viene sempre più vista come un asset da proteggere, non da cedere.

Come avete vissuto questo cambiamento?

Noi eravamo già allineati a questa visione: siamo l’unica azienda italiana quotata al Nasdaq. Abbiamo scelto di raccogliere capitali negli Stati Uniti per poi investirli in Italia, portando avanti sperimentazioni cliniche avanzate. Questo ci posiziona come un asset strategico nazionale. Per essere diretti, un esempio concreto: nel nostro settore, se una terapia nasce a Boston, i primi 100 pazienti saranno americani, e se il trattamento funziona, ne salva 80. Se quello stesso farmaco arriva in Italia due anni dopo, nel frattempo molti pazienti non avranno avuto accesso alla cura. La sicurezza nazionale non è solo uno slogan: significa che chi possiede la tecnologia decide chi ne beneficia per primo.

Quindi, in Europa si sta sviluppando una maggiore consapevolezza su questo tema?

Sì, anche se con ritardo rispetto agli Stati Uniti e alla Cina. Loro sanno che aziende come Meta, OpenAI o Google sono strategiche e non si possono comprare. In Italia, invece, spesso lasciamo che le nostre migliori tecnologie vengano acquisite da altri Paesi. Dobbiamo smettere di regalare innovazione. Abbiamo competenze di livello mondiale nelle scienze della vita, centri di ricerca d’eccellenza, e dobbiamo investire per trattenerli e svilupparli.

Qual è l’innovazione tecnologica di Genenta che meglio vi rappresenta e si inserisce in questo scenario?

Abbiamo una tecnologia proprietaria nata dalla ricerca italiana. In sintesi, il nostro punto di forza è la capacità di regolare l’espressione genica. La rivoluzione genomica ci sta permettendo di comprendere sempre meglio il funzionamento dei geni e, di conseguenza, come controllarli.

Abbiamo sviluppato una tecnologia in grado di attivare o disattivare l’espressione di specifici geni, nel nostro caso quelli che producono proteine antitumorali. Il problema di queste proteine è la loro tossicità quando agiscono in modo sistemico: la nostra tecnologia permette di attivarle in modo mirato nel microambiente tumorale, evitando effetti collaterali.

Oggi utilizziamo questo approccio con la proteina dell’interferone, ma la tecnologia non è legata a un singolo agente terapeutico. In futuro potremo applicarla a diversi payload, regolando l’espressione genica per trattare altri tumori. Questa capacità di controllo del geni è un’innovazione di grande impatto.

Temferon delivers IFN-α within the Tumor Microenvironment. Genenta Science

Temferon delivers IFN-α within the Tumor Microenvironment. Genenta Science

E tu, personalmente, come sei arrivato a sviluppare un’innovazione di questo tipo? Qual è il tuo approccio alla tecnologia e all’innovazione?

A 29 anni ho fondato un venture capital che investiva in deep tech, anche se allora non la chiamavamo così, diventando probabilmente il più giovane amministratore delegato di una Società di Gestione del Risparmio in Italia (nel 2002, nel nostro Paese, era già complicato spiegare cosa fosse il venture capital, figuriamoci il deep tech). Ma la mia visione è sempre stata quella di fondere imprenditorialità, scienza e finanza.

È una questione di mindset: con Genenta, abbiamo quotato l’unica società italiana al Nasdaq. Poi, certo, il vero successo sarà avere un impatto definitivo sui pazienti.

Fare innovazione in Italia è più facile o più difficile?

Dipende. In Italia ci sono meno concorrenti diretti rispetto ai grandi hub globali. Se guardiamo a Stati Uniti, Israele o Cina, la competizione è feroce. In Italia puoi sviluppare tecnologie di altissimo livello ma mancano alcuni elementi chiave per giocare in Serie A: imprenditori tech e capitale di rischio.

Basta scendere all’aeroporto di JFK o San Francisco per capire che lì si gioca un altro campionato dove competi con i migliori. Tuttavia, in Italia questa minor concorrenza può rappresentare un’opportunità grazie ai costi più contenuti, dalla ricerca scientifica allo sviluppo tecnologico.

Come trasmetti questa visione e questo coinvolgimento emotivo alle persone che lavorano in Genenta?

Abbiamo la fortuna di lavorare su qualcosa che ha un impatto concreto e tangibile. Non dobbiamo sforzarci di motivare il team, perché la nostra missione è chiara e condivisa: sviluppare una terapia che può salvare vite.

Quando raccontiamo la nostra storia, è difficile trovare qualcuno che rimanga indifferente. Purtroppo, il cancro è una realtà che tocca quasi tutte le famiglie in qualche modo. Questo fa sì che chi lavora in Genenta non debba cercare una motivazione esterna, perché è insita nella natura stessa del nostro lavoro.

Pensiamo, ad esempio, alla prima volta che la nostra terapia è stata testata su un paziente dopo gli studi sui modelli animali. Fino a quel momento era tutto “teoria”. Poi, un malato con un tumore cerebrale ha ricevuto la nostra terapia. Questo ha creato una tensione emotiva fortissima nel team, dagli scienziati al management. Ma è anche il momento in cui ti rendi conto che quello che hai sviluppato può davvero cambiare delle vite.

Team Genenta

Team Genenta

E per quanto riguarda gli investitori? Vedi differenze nel loro approccio alla vostra innovazione?

Abbiamo investitori di varia natura, dagli istituzionali alle grandi famiglie. Naturalmente, chi investe lo fa con l’aspettativa di una crescita del valore, ma nel nostro caso si può vedere anche una componente etica.

Non enfatizziamo mai questo aspetto in modo strumentale, perché chi sceglie di investire in Genenta lo fa per il potenziale ritorno economico. Tuttavia, è verosimile che molti possano sentire un coinvolgimento personale o familiare con la malattia e vedano in questa opportunità anche un significato più profondo.

Alla fine, ottenere un ritorno investendo in un’azienda che può fare la differenza nella vita delle persone ha un valore aggiunto. Non si tratta di sminuire altri modelli di business, ma di riconoscere che qui l’innovazione ha un impatto diretto sulla salute e sul futuro.

Osservando il percorso di Genenta, verrebbe quasi da pensare che tutto funzioni in modo lineare, senza particolari ostacoli. Ma sappiamo che l’innovazione porta sempre con sé nuove sfide. Qual è la prossima per te?

Il nostro percorso è tutt’altro che concluso. Abbiamo raccolto dati promettenti che dimostrano che la nostra terapia possa funzionare e possa cambiare la vita delle persone, ma ora dobbiamo consolidarla.

E per fare quel salto cosa serve?

Abbiamo bisogno di ancora uno o due anni e di un’alleanza con una grande azienda farmaceutica. La nostra terapia deve diventare un prodotto distribuito su larga scala: oggi siamo arrivati a 24 pazienti, contiamo di trattarne altrettanti nei prossimi 12-18 mesi, ma il vero impatto lo avremo quando il trattamento sarà disponibile ovunque, da Tokyo a Honolulu.

Quindi la sfida attuale è proprio il coinvolgimento della Big Pharma come partner strategico?

Esatto. Oggi questo passaggio ancora manca, ma è il nostro prossimo obiettivo.

E per tornare al bilanciamento tra ritorno economico ed etica, come vedi il settore farmaceutico?

Creare valore è un dovere nei confronti degli investitori, ma la ricerca scientifica ha anche un impatto concreto sulla vita delle persone. Il settore farmaceutico, pur spesso criticato, ha dimostrato la sua efficienza, come si è visto durante la pandemia: senza un’industria solida e organizzata, oggi probabilmente saremmo ancora ad attendere un vaccino. Il capitale finanzia la ricerca, e la ricerca porta innovazioni che salvano vite.

E l’idea che le cure vengano trattenute per interesse economico, quanto c’è di vero?

È una narrazione non corretta. La competizione in questo settore è altissima e anche solo un piccolo miglioramento nella sopravvivenza di un paziente in una determinata patologia orfana di cure può fare la differenza tra il successo e il fallimento di un’azienda. Se una terapia più efficace esiste, verrà sviluppata il prima possibile: chi arriva per primo non solo cambia la storia della medicina, ma genera valore.

Spesso, però, il merito delle cure viene attribuito più ai medici che alle aziende farmaceutiche…

È naturale seppur non sempre corretto, perché il medico è la figura con cui il paziente interagisce direttamente, è lui a prescrivere e gestire la terapia. Ma senza il farmaco, il medico non avrebbe lo strumento per salvare quella vita. Se un paziente guarisce, è probabile che ringrazi il suo medico, non l’azienda che ha reso possibile la terapia. Il settore farmaceutico rimane spesso sotto critica, nonostante il suo ruolo determinante.

Per concludere, una domanda che stiamo facendo a tutti gli intervistati di questa rubrica. Richard Feynman, fisico teorico e premio Nobel, disse nel 1963: “La scienza può aiutarmi a fare previsioni, ma non a prendere decisioni”. Sei d’accordo?

Questa frase descrive perfettamente il rapporto tra scienza e impresa. Lo scienziato scopre, ma l’imprenditore prende le decisioni su come sviluppare e applicare quella scoperta.
Nel nostro settore, ad esempio, chi ha inventato le terapie non è nel consiglio di amministrazione e non prende le decisioni di sviluppo. Lo scienziato fa ricerca, l’imprenditore assume il rischio industriale e porta l’innovazione sul mercato.