
Leadership diffusa e innovazione culturale; AI come abilitatore strategico; alleanze con stakeholder e università; modelli di hiring alternativi; focus su patologie ad alto unmet need. Intervista al nuovo General Manager di Incyte Germania (già General Manager di Incyte Italia).
Quando abbiamo ideato questa rubrica dedicata ai CEO, ci siamo dati un obiettivo chiaro: far emergere quelle che Francesco Mutti – per citare un altro CEO che ho avuto la fortuna di intervistare in questi anni – chiama “dosi aggiuntive di intelligenza”. Intelligenza umana, s’intende, anche quando si parla, come in questa intervista, di intelligenza artificiale.
Da questo punto di vista, l’intervista a Onofrio Mastandrea risponde pienamente all’obiettivo. Ci parla di mindset e di come questo sia la base su cui fare innovazione. Ma non solo: per lui, ogni adozione tecnologica può avvenire solo in un contesto dove si è prima coltivata una leadership diffusa.
Onofrio – ci diamo del tu dai primi minuti – è un General Manager con note decisamente originali: “Sono un manager che da piccolo sognava di diventare un archeologo. Ho studiato Chimica e Tecnologia Farmaceutica, ma la continua relazione con i classici greci e latini mi ha insegnato l’umanizzazione della leadership e lo sviluppo delle potenzialità umane”.
Lo incontriamo negli uffici di Milano, in un momento significativo della sua carriera: è in partenza per Incyte Germania, dove ricoprirà lo stesso ruolo di General Manager che ha avuto qui in Italia. Insieme a noi, in questo dialogo, anche Giorgia Robaudo, Director Communication and Patient Advocacy.
A lui, i nostri più sentiti auguri per la nuova avventura.
Partiamo dal contesto: quali fattori influenzano oggi l’innovazione e cosa rende lo scenario favorevole o sfavorevole al cambiamento?
Dal mio punto di vista, la differenza tra vivere la rivoluzione tecnologica come qualcosa di positivo o negativo dipende dall’approccio mentale con cui affrontiamo questo cambiamento globale. Di fronte a ogni rivoluzione – e questa lo è a tutti gli effetti – la reazione più diffusa è la diffidenza, lo scetticismo. Ma oggi parliamo davvero di una rivoluzione copernicana, nel senso letterale: un cambiamento di prospettiva. Significa guardare le cose da un altro punto di vista.
Ed è proprio questo cambio di prospettiva che ci permette di cogliere l’opportunità del momento. Un’opportunità che va oltre la tecnologia: impatterà il nostro modo di vivere, ancor prima che quello di fare impresa o business.
Non a caso, questa rivoluzione ha anche un forte contenuto sociale. È un cambiamento nei comportamenti, nei modelli di pensiero. Basti pensare al recente summit sull’Intelligenza Artificiale tenutosi a Parigi, con la partecipazione di 29 Paesi: un segnale chiaro che non si tratta solo di evoluzione tecnologica, ma di una trasformazione ben più profonda. L’intelligenza artificiale oggi è anche un agente politico: può abilitare nuovi paradigmi sociali, trasformare il modo in cui facciamo business, osserviamo la realtà e sviluppiamo la leadership.
Se questo è vero a livello globale, vale ancora di più per le aziende. Non possiamo più pensare che l’adozione dell’AI sia solo compito di un team di innovazione: deve partire dai vertici, dai CEO. In particolare per noi, che operiamo nel change management, questa è una responsabilità concreta. Rendere praticabile l’intelligenza artificiale significa introdurre un nuovo modo di lavorare e sviluppare un nuovo mindset all’interno delle organizzazioni.
Ecco perché questa rivoluzione non riguarda solo la tecnologia, ma investe molto di più. Da parte nostra, in Incyte, la stiamo già affrontando con grande serietà: ci siamo dotati di un Istituto di Intelligenza Artificiale – l’AI Innovations Institute, con sede a Wilmington, presso i nostri headquarter globali – che ha il compito di abilitare tutta l’organizzazione a questo nuovo approccio. Pur avendo base negli Stati Uniti, l’Istituto è al lavoro per portare l’innovazione generata dall’AI in tutti i paesi in cui Incyte è presente, compresa l’Italia. Un nuovo mindset per un vero cambio di passo nel modo di fare le cose.

I laboratori di ricerca Incyte, a Willmington, nel Delaware (USA). INCYTE/MIT TR IT
Ci puoi dire di più sull’AI Innovations Institute: come lo avete avviato e come funziona oggi?
Abbiamo iniziato a lavorarci due anni fa, partendo con l’inserimento di tre talenti provenienti da esperienze e settori diversi. Oggi l’istituto conta oltre 20 persone con background accademici e professionali molto eterogenei – non necessariamente legati al farmaceutico. Questa diversità è una scelta precisa: vogliamo che il mondo del pharma possa beneficiare di modelli e best practice provenienti anche da altri settori, perché l’innovazione non ha confini.
L’istituto si occupa di integrare i tool di intelligenza artificiale in tutte le attività dell’azienda: dalla ricerca e sviluppo, alle operazioni tecniche e alla commercializzazione. Senza dimenticare l’impegno nel promuovere una cultura dell’innovazione a tutti i livelli dell’organizzazione, aspetto fondamentale. In particolar modo, l’impatto dell’AI nel migliorare la sostenibilità della ricerca scientifica ha un potenziale altissimo, a partire dal drug design: migliorare i processi di selezione dei target molecolari consentirà di tagliare i tempi della ricerca, aumentare il tasso di successo e massimizzare il profilo di sicurezza dei nuovi farmaci.
Negli ultimi vent’anni, la ricerca clinica ha cambiato pochissimo. Gli investimenti necessari per sviluppare una nuova molecola restano altissimi – circa 2 miliardi di euro – e il percorso continua a essere lungo e complesso: mediamente, solo 1 molecola su 5/10mila riesce a superare con successo le fasi di sviluppo pre-clinico e clinico, arrivando infine al paziente. Il tasso di fallimento si mantiene sopra il 90% e i tempi medi si attestano tra i 10 e i 15 anni. In questo scenario, il tema centrale diventa la capacità di garantire la sostenibilità della ricerca nel lungo periodo.

I laboratori di ricerca Incyte, a Willmington, nel Delaware (USA). INCYTE/MIT TR IT
Ecco perché l’AI può fare la differenza: aumentare l’efficienza, ridurre i fallimenti, velocizzare i trial e liberare risorse per altri progetti. Per Incyte, che ha la ricerca come uno dei suoi asset centrali, questo è strategico. Su oltre 2000 dipendenti a livello globale, più di 1000 lavorano in R&D. Investiamo il 47% delle revenue mondiali in ricerca e sviluppo – in Italia superiamo l’80%. L’ottimizzazione della ricerca è quindi fondamentale per restare coerenti con la nostra mission.
La missione di Incyte si riassume nella locuzione “Solve On”, che per noi significa trovare soluzioni concrete e tempestive per patologie ad alto unmet need [bisogno medico ancora senza risposta terapeutica efficace – ndr]. Integrare l’AI nella ricerca ci permette di accelerare questo processo e di arrivare prima al letto del paziente con nuove terapie.
Ma non solo. L’AI ci consente anche di lavorare con maggiore efficienza e agilità nei rapporti con tutti i nostri stakeholder: non solo la comunità scientifica, ma anche le istituzioni, l’opinione pubblica e i pazienti. È un asset strategico che sta ridefinendo il nostro modo di pensare, lavorare e comunicare.
Come CEO, ho la responsabilità di guidare questo cambiamento, incoraggiando tutta l’organizzazione ad adottare questi modelli e a rispondere in modo rapido e concreto alle sfide che abbiamo davanti.
L’Istituto per l’AI si ispira a modelli esistenti o è una vostra creazione originale?
Lo abbiamo creato noi, lo abbiamo fortemente voluto. È frutto della nostra attenzione costante all’innovazione. Da tempo in Incyte abbiamo un modello chiamato I² – una call to action aperta a tutti i dipendenti per proporre progetti innovativi. L’idea è che l’innovazione non sia responsabilità esclusiva di pochi esperti, ma di tutta l’organizzazione. Tutti sono coinvolti: ogni dipendente può proporre un’idea, un progetto, che poi viene valutato e, se ritenuto valido, sviluppato con l’obiettivo di generare impatti realmente disruptive.
Per comprendere appieno l’identità di Incyte penso sia opportuno riportare il focus sulle patologie ad alto unmet need. Parliamo di malattie che non hanno ancora una risposta terapeutica, o per cui le terapie esistenti sono poco efficaci. È proprio in queste aree difficili, dove altri spesso non si avventurano, che scegliamo di intervenire. Ed è qui che nasce la nostra mentalità laterale, che ci spinge a pensare in modo non convenzionale. Un esempio è il farmaco per la vitiligine: una molecola nata in oncologia, che siamo riusciti a trasformare in una crema efficace per una patologia completamente diversa.
Tutti questi elementi – pensiero laterale, innovazione radicale, attenzione all’AI e alla cultura interna – contribuiscono a definire l’identità di Incyte e il nostro modo di affrontare le sfide.
Mi sembra che in Incyte stiate lavorando molto sul mindset, anche nell’adozione dell’AI. C’è stata un’evoluzione culturale interna oppure eravate già preparati ad affrontare questo cambiamento?
Secondo me, la vera differenza oggi non la fa tanto l’adozione dell’AI in sé, ma come le persone vengono accompagnate ad accoglierla. E questo vale per ogni trasformazione, non solo tecnologica. Una delle sfide più grandi, e che personalmente mi appassiona, è quella di promuovere un modello di leadership diffusa. Non esiste più l’idea del leader solo al comando. Oggi ogni persona deve poter esercitare un atto di leadership nel proprio ruolo, con responsabilità e consapevolezza del proprio valore.
Questa cultura non può essere solo dichiarata: va praticata ogni giorno. Le organizzazioni che riescono a farlo davvero sono quelle che fanno il salto di qualità. È una questione di coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. E in Incyte, su questo punto, siamo molto rigorosi: la coerenza è uno dei pilastri della nostra leadership.

Il Forum Incyte sulla Ricerca, promosso ogni anno da Incyte Italia per incentivare il dialogo sul tema della ricerca scientifica nel nostro Paese. INCYTE/MIT TR IT
Mi ha colpito molto quello che hai detto sulla leadership diffusa. Spesso si spinge solo sull’adozione tecnica dell’AI, ma voi lavorate anche sulla parte emotiva e culturale, quella che davvero rende possibile il cambiamento.
Esatto. La parte più difficile nell’introdurre nuovi modelli è proprio il mindset. Se come manager prepariamo l’organizzazione ad accogliere il cambiamento, allora possiamo davvero fare la differenza. Non è la competenza tecnica a contare all’inizio, ma la disponibilità ad abbracciare nuovi modi di lavorare – quella che chiamiamo willingness to embrace new ways of working.
La formazione tecnica, l’upskilling o il reskilling, vengono dopo. Ma non possiamo pensare di sostituire continuamente le persone con chi ha già competenze nuove. Il vero obiettivo è abilitare chi è già in azienda ad affrontare l’innovazione. E questo è il lavoro che sto portando avanti, insieme al mio team di leadership.
Per diffondere innovazione serve prima una leadership diffusa. Questo, di fatto, è un cambio di paradigma.
Abbiamo parlato di mindset interno. E sul fronte esterno? Sono cambiate le aspettative nei vostri confronti come azienda innovativa? E come riuscite a portare con voi gli stakeholder esterni?
In Incyte abbiamo sviluppato un modello di coinvolgimento continuo con gli stakeholder esterni. Cerchiamo di raccogliere stimoli dalla comunità e trasformarli in azioni concrete, mettendoci a disposizione per trovare soluzioni condivise.
Un esempio è l’ambito della formazione. Oggi le istituzioni si interrogano su due questioni fondamentali: come integrare i giovani nel mondo del lavoro e come colmare il mismatch tra ciò che le università insegnano e ciò che le aziende cercano. Abbiamo cercato di dare una risposta concreta, tracciando un modello di best practice che sia di ispirazione.
Quando abbiamo lanciato una nuova terapia per la vitiligine, abbiamo voluto innovare anche nel modo di fare hiring. Abbiamo coinvolto le principali università italiane con una call for talent, chiedendo loro una rosa di candidati. Così abbiamo formato un primo gruppo di giovani per creare una nuova business unit dedicata alle patologie Infiammatorie e autoimmuni.
Per prepararli al meglio, abbiamo creato un’academy interna della durata di un anno. Lì abbiamo trasmesso non solo competenze tecniche, ma soprattutto il nostro approccio culturale e il mindset di Incyte. Abbiamo lavorato in sinergia con istituzioni, università e associazioni di categoria. Il nostro obiettivo era proporre un nuovo modello di selezione e inserimento, coerente con le sfide del mercato.
Nella stessa direzione va il nostro impegno per promuovere il dialogo su un tema cruciale nel mondo delle Clinical operations: si tratta del riconoscimento del Clinical Trial Coordinator, figura chiave in quanto responsabile della gestione operativa, del monitoraggio e del rispetto normativo durante lo svolgimento di studi clinici. Ci siamo messi a disposizione per stimolare il confronto su questo tema e siamo stati ascoltati dal mondo istituzionale.
In sintesi, pensiamo che il ruolo di un’azienda vada al di là del business e comporti la responsabilità sociale di generare valore per l’ecosistema di cui fa parte. Per questo lavoriamo al fianco di tutti gli interlocutori del sistema salute: aziende, comunità scientifica e di pazienti, istituzioni, accademia.
Se l’accountability diffusa è il fattore abilitante dell’innovazione all’interno, allora l’alleanza lo è all’esterno.
Stiamo andando oltre il semplice stakeholder engagement, verso un modello di community business: l’azienda è attore dentro un ecosistema, connesso a una rete di soggetti interrelati. La chiave è muoversi insieme, verso obiettivi comuni, generando valore non solo per l’impresa, ma anche per la società.
Il modello di hiring che hai descritto è davvero concreto: propone un percorso chiaro e porta a una sinergia reale tra mondo del lavoro e università…
Esatto. Non abbiamo la pretesa di cambiare il sistema da soli, ma vogliamo proporre un modello. Con questo progetto abbiamo assunto molte delle persone coinvolte – la quasi totalità lavora oggi in Incyte – ma ciò che conta è che questa collaborazione con le università possa diventare un punto di riferimento anche per altri. È uno spunto, un’ispirazione che offriamo alla comunità di cui facciamo parte.
A questo proposito, abbiamo anche firmato un protocollo d’intesa con il Campus Biomedico, con un impegno reciproco: accogliere e integrare studenti in base alle nostre esigenze di sviluppo organizzativo. È un modo concreto per costruire ponti tra mondo accademico e aziendale.
Per avviarci alla conclusione, una domanda classica della rubrica. Richard Feynman, in una conferenza del 1963, disse: “La scienza può aiutarmi a fare previsioni, ma non a prendere decisioni.” Secondo te, è ancora valida questa affermazione?
Mi piace rispondere con un’altra citazione, del matematico Clive Humby: “I dati sono il nuovo petrolio.” La frase di Feynman è di 60 anni fa e da allora molto è cambiato. È vero, le decisioni rimangono responsabilità degli esseri umani. Ma oggi possiamo – e dobbiamo – prendere decisioni migliori grazie ai dati.
Siamo passati da una logica basata su intuizioni e riferimenti consolidati a una logica data-driven. L’accesso e l’analisi dei dati sono diventati un vantaggio competitivo. Non è un caso che oggi si parli di “guerra dei dati”.
Il punto centrale però resta l’uso etico del dato. Le autorità stanno giustamente lavorando per regolamentarlo, ma serve equilibrio: un’iper-regolamentazione rischia di renderne difficile l’utilizzo immediato, e un dato non aggiornato è già un dato vecchio.
Per questo serve un approccio responsabile ma anche accessibile e tempestivo. Solo così i dati possono davvero aiutarci a prendere decisioni migliori – restando però sempre consapevoli che, alla fine, a decidere siamo noi: esseri umani, con la nostra sensibilità, i nostri modelli di leadership, le nostre emozioni.
Un’ultimissima battuta. Il tuo approccio all’innovazione è davvero particolare. Deriva da qualche esperienza personale o momento biografico specifico?
Sì, è il frutto di un percorso sia biografico che culturale. Ho studiato i classici greci e latini e quel tipo di formazione mi ha insegnato moltissimo, ben prima che diventasse un trend parlare di umanizzazione della leadership o dell’organizzazione.
I classici mettono sempre al centro la persona. Ti insegnano che l’individuo può essere potente, ma non in senso muscolare: potente a livello intellettivo. È questa forma di potenza che, secondo me, rende davvero forte un’organizzazione.
Questo approccio mi ha portato a concentrarmi sul singolo dipendente, abilitandolo e rendendolo capace di esprimere il proprio potenziale. Credo molto nel miglioramento continuo, nella possibilità di guardare le cose da una prospettiva positiva, nella convinzione che ognuno possa avere un impatto anche su ciò che all’apparenza sembra impossibile. Penso anche sia fondamentale costruire alleanze interne, non affrontare le sfide da soli, e garantire a tutti l’accesso alle informazioni rilevanti. Solo così ogni persona può sentirsi libera di contribuire a modo proprio.
Ecco, credo che tutto questo rappresenti il cuore della cultura che abbiamo costruito in Incyte.
Siamo solo un centinaio di persone, ma ognuno è un moltiplicatore di intelligenza e innovazione. Ed è questo che ci rende pronti ad affrontare le prossime sfide.
Questa distinzione è bellissima per chiudere: non la potenza come potere (forza muscolare), ma come potenzialità (apertura a nuove possibilità)…
Io sono un manager che da piccolo sognava di diventare un archeologo. Volevo iscrivermi a Lettere classiche, indirizzo archeologico. Poi ho scelto Chimica e Tecnologia Farmaceutica, e mi sono formato successivamente nelle business school. Ma quella radice classica, in fondo, non l’ho mai abbandonata.
Credo davvero che le persone siano la risorsa più importante su cui concentrarsi. Più investiamo nella crescita del singolo, più l’organizzazione è capace di affrontare le sfide.
Anche quando non abbiamo tutte le competenze subito pronte, se abbiamo il giusto approccio, accettiamo la sfida, ci prepariamo, impariamo… e alla fine otteniamo risultati straordinari.