Qual è il futuro dei trasporti, e delle città?

Greg Lindsay, responsabile della Connected Mobility Initiative per la New Cities Foundation, parla del libro “Aerotropolis: The Way We’ll Live Next?”

di MIT Technology Review Italia

La forma delle città è stata sempre definita dai trasporti. Che si trattasse delle banchine di Londra, dei cantieri ferroviari di Chicago, o delle autostrade di Los Angeles, ciascuna di queste città ha preso forma dallo stato dell’arte dei trasporti dell’epoca. Penso che la lezione, per la maggior parte delle città, sia che debbano essere localmente vicine e globalmente connesse – per creare luoghi dalla dimensione umana e dalla qualità di vita che sappiano attirare i talenti, e per consentire a questi talenti di applicarsi ovunque nel mondo. Non è un caso che le principali esportazioni degli Stati Uniti siano correlate ai servizi.

Sorge spontanea una domanda: quali sono le soluzioni del futuro ai rapidi processi di urbanizzazione che stanno travolgendo le città?
Una volta l’autore di fantascienza Bruce Sterling aveva descritto il futuro come “un insieme di persone anziane che risiedono in grandi città ed hanno paura del cielo”. Si riferiva alle società in rapido invecchiamento, alla mega-urbanizzazione, e al cambiamento climatico.
Nessuno, finora, ha saputo affrontare particolarmente bene le sfide presentate da questi tre elementi, tanto meno i tremendi problemi che ne emergono in seguito – come la crisi dei rifugiati in Siria e il crollo politico, o la migrazione urbana accelerata dal cambiamento climatico. Nello scenario migliore, assisteremmo alla collaborazione fra settore pubblico e privato per reinvestire pesantemente nelle infrastrutture, impiegando tasse sul carbonio per coprire le spese legate a nuovi sistemi di trasporto pubblico, micro-reti solari o tutte quelle tecnologie che non sono ancora state inventate.

Un appello al settore privato perché applichi innovativi schemi di finanziamento coi quali pagare le tanto agognate innovazioni, però, non verrà ascoltato facilmente. Le mega-città del Sud globale devono affrontare una sfida ancor più grande: costruire (e ricostruire) più in fretta di quanto le catastrofi naturali possano distruggere (basti ripensare ai tifoni che fra il 2012 e il 2014 hanno colpito le Filippine). Per riuscire a superare questi problemi serviranno infrastrutture più leggere, economiche, resistenti e rapide da costruire.

Non scordiamoci che “smart cities” è un concetto coniato da IBM all’apice della crisi economica del 2008 per catturare una porzione dei miliardi di dollari che sarebbero dovuti arrivare nella forma di investimenti per stimolare il mercato. Personalmente, ho ancora qualche problema con il modo in cui questo termine viene utilizzato oggi. Anzitutto, viene prevalentemente concentrato attorno alle infrastrutture, invece che alle persone. L’idea (che da allora è divenuta la base per l’Internet delle Cose) era che qualunque cosa potesse montare dei sensori, e che i dati così generati avrebbero permesso di ottimizzare le reti elettriche e gli acquedotti del 10%. Nel migliore dei casi, questa visione è prosaica. Il secondo problema è che il termine si basa sugli stessi principi di sorveglianza totalitaria su cui si fondano Facebook, Uber, Google, etc. Una vera “Smart City” dovrebbe aiutar le persone a scoprire e connettersi fra loro in nuovi modi senza bisogno di intermediari. Vorrei vedere città servite da un forte servizio di trasporti pubblico, piuttosto che auto di Uber, e cooperative locali più forti. Vorrei anche assistere alla trasformazione dei tradizionali uffici in ambienti di lavoro condiviso che guardino maggiormente alle industrie e a funzioni che vadano oltre le startup tecnologiche.

Una vera città intelligente non è fatta di infrastrutture, ma di persone; è formata da piattaforme che racchiudono tutto al loro interno, ma piccole reti connesse docilmente fra loro; infine, non è una questione di efficienza, ma scoperta.

Nasce così la “Connected Mobility Initiative”, un progetto della New Cities Foundation che mira ad esplorare come le società di trasporto, ed altri settori pubblici, stiano gestendo l’integrazione delle tradizionali reti ferroviarie e metropolitane con la popolarità di reti di trasporto private quali Uber e Lyft – per non parlare della incombente possibilità delle automobili a guida autonoma – e come potrebbero utilizzare quelle stesse tecnologie per migliorare la portata dei loro servizi.

A Washington D.C., che ha accolto rapidamente Uber e Lyft, oltre ad aver investito nel bike-sharing, si scorgono cenni del cambiamento che questi servizi hanno apportato allo sviluppo del real estate, con un crescente numero di residenti che rinuncia al possesso di un’automobile e, di conseguenza, alla necessità di un posteggio. Nel frattempo, Transport for London sta riflettendo sull’approccio migliore per accogliere questi servizi – piuttosto che entrare in competizione – ed una startup finlandese sta scommettendo che la soluzione migliore sia creare un’app ed una piattaforma che sappiano combinare ciascuna modalità di trasporto: un “mobility-as-a-service”. La città di San Paolo, Brasile, spera che una migliore analisi dei dati possa aiutarla ad alleviare la pressione dei suoi treni ed autobus sovraffollati mentre realizza nuove linee e fermate, mentre Manila spera di riuscire a dare un senso al rivoltoso insieme di servizi privati sui quali i suoi abitanti fanno affidamento.

Come disse l’architetto Cedric Price, “La tecnologia è la risposta; qual è la domanda? Sto solo cercando di chiedere quelle domande”.

Fonte: New Cities Foundation

(MO)

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