Plastiche nel mare, il problema va molto più in profondità di quello che pensiamo

“Focolai” di microplastica sul fondo degli oceani minacciano la vita sottomarina. E sono il tipo di inquinamento più pericoloso

di MIT Technology Review Italia

I risultati di uno studio della Florida Atlantic University, pubblicati su “Global Change Biology”, mostrano che i deboli sistemi di correnti oceaniche dell’Atlantico meridionale contribuiscono alla formazione di “focolai” di microplastica nella profondità delle acque, che minacciano la stabilità dello zooplancton.

Finora, la grande diversità di tecniche e metodi scientifici utilizzati nello studio dell’inquinamento da microplastiche marine ha limitato le conoscenze di questo grave problema ambientale che minaccia i nostri ecosistemi. La maggior parte della plastica galleggia nel mare. Tuttavia, il fondale marino è l’ultima discarica in cui si accumulano microplastiche e ci sono ancora pochissime conoscenze sui meccanismi che esportano le sostanze inquinanti dalle acque superficiali al fondo del mare.

Il campo di ricerca scientifico che studia questo problema è relativamente nuovo e i suoi metodi sono in continua evoluzione, rendendo difficile definire i termini e le tecniche più appropriati con cui identificarli. “I materiali plastici sono numerosi e molto diversi, con caratteristiche variegate che complicano la definizione di una struttura standard per analizzarli tutti allo stesso modo. Inoltre, additivi come pigmenti o ritardanti aggiungono ulteriore complessità.

Per ottenere una migliore comprensione meccanicistica dei movimenti dalle acque superficiali in profondità, i ricercatori hanno campionato le particelle di plastica nel vortice subtropicale dell’Atlantico meridionale utilizzando la filtrazione in situ ad alto volume, i retini Manta net e il sistema di campionatura MultiNet, combinato con la spettroscropia Infrarossa in trasformata di Fourier (FT-IR).

Come riportato da “Phys.org”, dai dati è emerso che “le piccole microplastiche sono diverse dalle grandi microplastiche per quanto riguarda una serie di caratteristiche: elevata abbondanza, natura chimica, interazioni con gli ambienti ambientali ed efficienza di rilascio degli additivi plastici”, ha affermato il principale autore dell’articolo Shiye Zhao, ricercatore del FAU Harbour Branch. “Queste caratteristiche distinte producono impatti diversi sugli ecosistemi marini.

Dalla ricerca è emerso che i polimeri ad alta densità come le resine alchidiche, utilizzati nella maggior parte dei rivestimenti commerciali a base di olio come le vernici per scafi delle navi e la poliammide, comunemente usati nei tessuti come abbigliamento, corde e reti da pesca, costituivano oltre il 65 per cento del campione totale. 

Questo dato contrasta visibilmente con le composizioni polimeriche delle precedenti indagini sulla superficie oceanica, che sono dominate da polimeri galleggianti come il polietilene utilizzato per il confezionamento di pellicole e sacchetti della spesa e il polipropilene utilizzato per contenitori di plastica e bottiglie d’acqua riutilizzabili.

Le piccole particelle di microplastica sono più ossidate di quelle grandi e sembrano avere una vita più lunga nella colonna d’acqua, suggerendo maggiori rischi per la salute dell’ecosistema marino attraverso il possibile bioassorbimento di particelle di plastica e sostanze chimiche associate e i potenziali impatti sui cicli biogeochimici globali.

In effetti, queste microplastiche di dimensioni micron possono spostarsi attraverso l’epitelio intestinale, rimanere intrappolate nella biomassa e hanno il potenziale per trasferirsi attraverso le reti alimentari marine, ponendo un rischio ecologico sconosciuto e seri impatti biogeochimici globali.

In considerazione delle crescenti attività di pesca commerciale, i ricercatori affermano che sono urgentemente necessari studi incentrati sull’ingestione di microplastiche più piccole per valutare appieno l’entità della contaminazione da plastica nella biomassa.

(rp)

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