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L’originale strategia ISIS per il petrolio libico.

di Luca Longo

L’ISIS vuole distruggere la ricchezza petrolifera libica invece di trarne profitto come ha già dimostrato di saper fare in Siria e in Iraq. Ecco perché.

Mentre ha perduto circa un quarto dei territorio che aveva conquistato in Iraq e in Siria, ha nel frattempo stabilito una presenza internazionale sul terreno, nel cyberspazio e nell’immaginario popolare.

Nella sola Libia, Daesh ha raddoppiato la sua presenza negli ultimi 12 mesi ed ora, secondo il Pentagono, ha fra I 5000 ed I 6500 combattenti addestrati. Mentre le forze di opposizione che dovrebbero fronteggiare gli Jiadisti sono definite “inaffidabili, insicure, disorganizzate e divise in aree e tribù differenti e spesso ostili fra loro”.

Il segretario di Stato USA John Kerry, pochi giorni fa ha avvertito che “l’ultima cosa che vorrei al mondo è un falso califfato con accesso a miliardi di dollari in profitti petroliferi”. E’ evidente l’imbarazzo, non solo americano, ad imbarcarsi in un’ennesima guerra in una terra mussulmana. Eppure pochi hanno notato che il Califfato ha adottato in Libia una “politica energetica” opposta a quella già adottata in Siria e in Iraq, dove ha rimesso in produzione i pozzi e organizzato un circuito di distribuzione clandestino con la formalmente nemica Turchia. In Libia, invece, i terroristi attaccano le infrastrutture petrolifere per indebolire i due governi rivali. Per il momento, si accontenta di distruggere, perché non ha le forze e le competenze necessarie per catturare e controllare i pozzi e per raffinare e distribuire il petrolio.

Il 2015 è stato un anno terribile per l’industria petrolifera libica. La guerra civile e il consolidamento della minaccia del Califfato (che, qui come altrove, si è infiltrato approfittando della debolezza delle istituzioni) ha impedito al comparto petrolifero di mantenere il rapido recupero che aveva saputo mostrare nella seconda metà del 2014. Il 2015 è stato l’anno peggiore per la produzione energetica libica dalla guerra civile del 2011: 400mila barili al giorno (il 25% della capacità reale) e di questi è riuscita l’esportazione solo di 250mila. Il calo del prezzo del petrolio ha fatto il resto: si calcola che, nel 2015, la Banca Centrale Libica abbia incassato meno di 5 miliardi di dollari.

Un possibile recupero nel 2016 non può essere escluso a priori, ma le speranze non sono elevate. Prima di tutto serve che il governo libico possa di insediarsi con il sostegno dell’ONU, fermare la guerra civile e di certificarsi il solo autorizzato a esportare il petrolio libico. Il secondo fattore è la capacità di contrastare l’avanzata del califfato cheè a distanza di attacco sia dei giacimenti nel deserto che delle infrastrutture petrolifere costiere.

Nell’estate del 2015, il califfato ha concentrato i suoi sforzi su Sirte trasformandola in una roccaforte da utilizzare in caso di ritirata da altre aree. L’operazione ha funzionato così bene da portare Sirte ad essere individuata come il nuovo centro di comando di tutto il sedicente stato islamico. Solo in ottobre sono ricominciati gli attacchi sulla ricchezza petrolifera libica. Gli Jiadisti non hanno lanciato sul terreno uomini sufficienti per catturare efficacemente le infrastrutture. Invece, si sono limitati a bombardare terminali e depositi da lontano. Ora solo tre dei diciannove depositi di Es Sider possono essere considerati ancora operativi.

ISIS vuole distruggere la ricchezza petrolifera libica invece di trarne profitto come in Siria e in Iraq. Nessun attacco ha invece avuto l’evidente obiettivo di conquistare, difendere e sfruttare a proprio vantaggio una di queste infrastrutture.

Il petrolio libico si trova soprattutto nelle piattaforme Eni offshore (per il momento ben difese grazie all’operazione Mare Sicuro della Marina Militare Italiana) e nel deserto lontano dal mare e dai centri urbani situati sulle coste dove Isis è più forte. L’unico modo per tasferire quel petrolio in volumi commerciali è con gli oleodotti fino alle raffinerie sulla costa, dove vien raffinato ed impiegato sia per usi interni che per l’esportazione. In Libia esistono solo cinque raffinerie, tutte sulla costa tranne Sarir nel sud-est. Ciascuna di queste è nel territorio controllato da una tribù differente e, per il momento, ostile al califfato e, con l’eccezione di Sarir, è collocata lontano dai campi petroliferi che la alimentano rendendo impossibile, per una forza terroristica ancora esigua, il controllo di un intero sistema campi-oleodotto-raffineria.

Mentre la Libia ha una lunga storia di contrabbando di derivati petroliferi, nell’ultimo anno non sono stati scoperti episodi di traffico clandestino di idrocarburi a qualsiasi grado di raffinazione. Inoltre, mentre in Siria le operazioni petrolifere, sono tutte in aree densamente popolate e vicine fra loro, in Libia le distanze fra gli elementi chiave dell’intero network sono troppo elevate.

Tutto questo porta a una duplice conclusione. C’è ancora tempo per consolidare una forma di governo riconosciuta che ponga fine alla guerra civile e possa richiedere e sostenere l’intervento delle Nazioni Unite.

Ma, al contempo, non si possono sottovalutare i danni che potrà ancora causare ISIS ora che è di nuovo all’offensiva.

(SA)