Mediare, educare, portare fuori

Nel fascicolo scorso, prendendo spunto dal secolare problema degli extraterrestri, dell’altro che viene da fuori, abbiamo avanzato alcune considerazioni sull’altro come riflesso del proprio e, quindi, sulla esigenza di mantenere in vita molti altri, tanti “altri” quanti sono i “propri”, i propri modi di essere, s’intende.

Chiudere il discorso dell’alterità intorno al fuoco della tentazione della A maiuscola, l’Altro che, nella sua irruente assolutezza, sembra prescindere da qualunque “altra” istanza relazionale, comporta la chiusura dello stesso discorso, se il discorso è quanto, linguisticamente, dialetticamente, narrativamente, si fa, si deve fare insieme con un altro, fosse anche, avrebbe detto Ricoeur, il “sé come un altro”.

Recuperare il senso delle alterità molteplici, come riflesso delle identità molteplici, della deriva proteiforme in cui si condensano talvolta le crescenti opportunità identitarie maturate nella modernità e talvolta la “confusione” caratteristica della postmodernità, comporta la valorizzazione di un peculiare snodo fenomenologico che, forse perché sotto gli occhi di tutti, sembra fare parte di quelle “istituzioni trascurate” in cui il geniale sociologo americano Erving Goffman inquadra la conversazione. Questo peculiare snodo fenomenologico consiste nella “mediazione”, nel fatto che, per dirla formularmente, nessuno può mai avere un rapporto diretto con ciò che sta tematizzando, richiamando, coinvolgendo, ma questo rapporto deve venire sempre mediato da un codice o da un processo conoscitivo, comunicativo, relazionale, in cui resta implicita una distanza, un momento di riflessione, un ritrarsi per procedere oltre, con tutte le conseguenze, divine o diaboliche, del caso.

La mediazione, istituzione trascurata

La mediazione fa parte della nostra vita in maniera sofferta e problematica, quando ci sembra che ci allontani dal senso vero e profondo delle nostre intenzioni e delle nostre azioni, ma anche euforica e sollecitante, quando ci consente di porre in atto intenzioni e azioni altrimenti condizionate e ostacolate dalla difficoltà di entrare in rapporto con l’altro, per il fatto di non sapere di quale altro si tratti. Perché i giovani usano il telefono portatile sempre meno per comunicare da lontano e sempre più per gettare un ponte su vicinanze spinose ed evidentemente difficili da affrontare? Perché in quella che sembrerebbe la scelta più intima e selettiva, la ricerca di un partner in qualsiasi attività si voglia intraprendere, sono necessari canali impersonali come quelli di Internet o dei gruppi di interesse? Perché, al di là delle mediazioni antropologiche ed epistemologiche, dal linguaggio alle etichette comportamentali, ogni espressione di senso richiede di venire mediata da altri sensi, o si dovrebbe dire da altri segni, già formulati e istituzionalizzati? Si tratta di quella che Charles S. Peirce, uno dei padri fondatori della semiotica iniseme a Ferdinand de Saussure, configurava come una “semiosi infinita”, un segno che si fa incessantemente sulla base di altri segni, per conferire alla vita il senso paradossale di qualcosa che al tempo stesso è e diviene, si impone e si dispone, si congestiona e si fuidifica.

In tutta evidenza, si fatica ad accettare che il mondo, questo mondo, non possegga la intrinseca e referenziale consistenza sulla quale si basano i nostri più elementari modi di dire e di fare. Non a caso, la mediazione, il suo principio, la sua funzione, la sua etica, potremmo dire, è stata colpita da una insidiosa e persistente damnatio memoriae che ne ha spesso trasformato in imbarazzanti feticci e il concetto e la parola. Nella concezione platonica l’ombra oscura della mediazione si esprimeva nella intepretazione della storia umana come decadenza e nella proposta di una trascendenza in grado di ripristinare l’immediatezza della emancipazione valoriale. Giungendo più vicino a noi, alle soglie di quella rivoluzione industriale che segna l’esordio del “mondo nuovo”, la stessa nozione di decadenza, sotto la specie della degenerazione della civiltà, riecheggia nelle pagine dell’émile di Rousseau, di cui Alessandro Pandolfi, in un panoramico saggio dedicato alla Natura umana (il Mulino, 2006), sottolinea l’ambivalenza, anche se, come vedremo, nell’ambivalenza non riusciva poi a risiedere davvero: “Nel primo libro dell’Emilio, Rousseau scrive che tra le mani dell’uomo civilizzato tutto rovina. La civiltà produce la degenerazione e ama i mostri. Un individuo che fosse abbandonato dalla nascita verrebbe sfigurato dai pregiudizi, dall’autorità e dalle istituzioni sociali. Per contrastare la mostruosità prodotta dalla civilisation occorre, in primo luogo, rifondare l’educazione. In tal senso, l’educazione costituisce uno degli aspetti più determinanti del problema cruciale di Rousseau: le mediazioni. La civilizzazione è la storia delle mediazioni, vale a dire di tutto ciò che separando l’uomo dallo stato naturale (lingue, costumi, istituzioni, forme del sapere, ecc.) ne supplisce le virtualità”.

Certo, lo stato di natura sul quale Rousseau misura la portata e l’efficacia delle mediazioni culturali costituisce nella sua parabola speculativa più un confronto ideale che un confronto reale, riducendosi a “uno stato che non esiste più, che forse non è affatto esistito e probabilmente non esisterà mai”, per cui il problema non consiste tanto nel fare un passo indietro, bensì nel farne uno o più in avanti. è qui che la modernità fa le sue prime prove: da un lato l’idea atavica che ci sia qualcosa prima del volere e del fare – fino a Schopenhauer la radicalità del progetto rappresentativo restava ancora nell’ombra del grande movimento dialettico hegeliano – e quindi le infiltrazioni nostalgiche che espongono la modernità alla sua inesausta oscillazione tra regressioni e repressioni; dall’altro lato, l’idea tutta spinoziana, che volere e fare coincidano e che quindi nulla si debba, si possa fare in maniera non premeditata, che nel fare non riemerga qualcosa di rimosso e dimenticato, ma tutto si faccia nell’ambito di quelle forme simboliche di cui Cassirer ha chiarito il carattere riflessivo e progettuale.

Mostri mediatici

Proprio a proposito dei “mostri” di Rousseau, che nascono nelle faglie della modernità incipiente, viene preziosa la ristampa di un “immaginifico” e intrigante saggio che Alberto Abruzzese, alla fine degli anni Settanta, aveva dedicato alle relazioni mediatiche tra “forme dell’immaginario e forme della realtà sociale”, all’insegna del celebre interrogativo di Goya: è il sonno o il sogno della ragione a produrre mostri? In quella cruciale riflessione sulle “forme di culto di mitologie contemporanee come mostri, vampiri, automi e mutanti” (La grande scimmia, Luca Sossella, 2007) allora Abruzzese cercava la parola fine, lo stadio culminante di una fioritura marginale che veniva da lontano, da quel Settecento in cui anche Rousseau piantava le radici contraddittorie del fascino, un poco attrazione e un poco repulsione. Oggi, nel tornarci sopra, cerca la parola inizio: perché quei mondi fantastici e mostruosi non hanno cessato di affascinare, e anzi, nel passaggio dalla “penna al computer”, sembrano avere acquistato un rinnovato vigore, denunciando in maniera purtroppo assai meno enigmatica di allora la rischiosa contraddizione implicita nel mostro mediatico: “Da un lato, allora, la necessità di possedere il mostro ed esserne il soggetto. Dall’altro, l’abilità di potenziare le contraddizioni (programmazione) in modo tale che ogni nuova ‘alterità’ (tutto ciò che alimenta la struttura del mostro, gli conferisce una forma di scambio e lo predispone alla mutazione) venga conservata nel suo spazio genetico, continui ad appartenere alla società che l’ha prodotta, cresca come macchina sociale”.

La conclusione di Abruzzese, in uno stile alla Rousseau, conforta la nostra convinzione (Le mosse del cavallo, Rubbettino, 2008) che la condizione di crisi non possa superarsi contrapponendosi alla crisi, ma vivendola fino in fondo secondo le sue categorie procedurali di soggettivazione, ma “essendo la crisi”: “Dalla fondamentale contraddizione tra la felicità adamitica dell’individuo singolo (libero e naturale) e la dannazione del mostro collettivo (violento e massificatore), in sostanza non si può uscire altrimenti che possedendo le forme materiali in cui il mostro vive della morte della nostra individualità”. Non a caso Rousseau parla di “educazione” per intendere una mediazione programmatica e costruttiva, anche se le scelte forti che presuppone non riescono a mettere a fuoco quella importanza della quotidianità che costituisce la grande conquista del secolo scorso, dopo le esibizioni mentali e muscolari delle ideologie dell’identità e dell’intolleranza. L’eroismo quotidiano, la solidarietà quotidiana, la creatività quotidiana finiscono, nella concezione di Rousseau, per fornire alimento indebito e indigesto a una pretesa rivoluzionaria tanto velleitaria quanto perniciosa: “Da un lato, la mediazione rende possibile ciò che è proprio dell’uomo: la parola, la socievolezza sconosciuta nella condizione di pura natura, le passioni, il sapere, ecc. Dall’altro, l’uomo è propriamente umano solo a condizione di liberarsi da ciò che hanno fatto di lui mediazioni e supplementi per ritrovare la purezza dei sentimenti morali, l’infanzia, la religione naturale, ecc. La rappresentazione linguistica e la rappresentanza politica sono le mediazioni più pericolose” (Pandolfi).

Questo è il problema?

Diremmo proprio il contrario, se non fosse che Rousseau si batteva contro i pregiudizi di un’epoca aristocratica e quindi aveva ragione a dichiarare che, appena si apriva bocca, ne usciva “la” parola dell’altro e che questo altro aveva sempre la A maiuscola. Oggi la questione è quella di aprire bocca e di farne uscire “le” parole dell’altro, con la a minuscola, e in questo senso l’educazione non si prospetta come la esigenza di qualcosa che prescinde da noi stessi, quali la civiltà ci ha fatti essere, ma come la esigenza di rifarci essere con la consapevolezza che nulla si fa se non attraverso ciò che è già stato fatto.

La mediazione della parola – parola “a dizionario”, si intende, concepita per una scelta vincolata al puro ordine alfabetico, e non parola “a enciclopedia”, che volenti o nolenti ci detta le regole di un sapere costituito – e la mediazione della politica, intesa come la intendeva Tocqueville, come un fare posto nella decisione alle tante istanze identitarie che pervadono e soddisfano il nostro essere in molti: dentro di noi, come una moltitudine di appartenenze; fuori di noi, come una moltitudine di interessi che non vanno conculcati nel nome di qualche fantomatico interesse generale, nel quale si camuffa, ipostatizzandosi, qualche antagonistico interesse particolare.

Essere o non essere: questo è il problema? Non riusciamo a vincere la tentazione, ermeneutica per quanto concerne la tragedia amletica e filosofica per quanto concerne questa nostra sommaria esplorazione fenomenologica della mediazione, di metterci quel paradossale punto interrogativo, di proiettare il problema dell’essenza in quello della esistenza, in cui essere e non essere si mescolano e si confondono. Concludiamo, a questo proposito, con le parole che magistralmente Carlo Sini, nel suo Archivio Spinoza (Ghibli, 2005), dedica al soggetto e alle sue creative contraddizioni, per sottolineare come la mediazione, anche quella “mediatica”, non si configuri come una alienazione del proprio, ma come una riappropriazione dell’altro e, in questo senso, non se ne possa fare a meno: “Chi è l’Altro, che significa Altro? Ogni inizio, dicevamo, è un iniziare da se stessi. Io inizio da me stesso, sono io che decido di fare questo e questo; e la decisione è certamente l’emergenza di una mia intenzione, di una mia volontà. Ma ora sappiamo che dobbiamo chiedere: chi però vuole, nella mia volontà? E che cosa vuole la mia volontà? Queste domande stanno sotto il segno dell’Altro, di quell’Altro che sono io stesso. […] La mia verità, la verità della mia vita, dunque, si iscrive nelle pratiche dell’Altro, in tutti i sensi. […] E come a proposito del punto, del limite, ora riusciamo a capire: proprio stando lì, in quel punto, siamo al tempo stesso fuori di noi e dentro di noi, presso di noi e stranieri a noi, perché non c’è un altro ‘me’; l’esser me è proprio questo esser fuori di me, è l’esperienza di questo limite”.

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