Una spettacolare mostra dedicata dal Denver Art Museum all’epica del Western nell’arte e nel cinema rende evidente il ruolo delle “macchine” mediatiche nella promozione di un sistema di valori che associa le vecchie e le nuove frontiere dello spazio e del tempo.
di Gian Piero Jacobelli
La tecnologia, come Eraclito diceva della natura, ama nascondersi, o quanto meno si manifesta dove meno te l’aspetti. Forse perché della tecnologia continua a prevalere un concetto molto, troppo materialistico: di macchine che, per quanto miniaturizzate e talvolta virtualizzate, riguardano più il corpo della mente.
Ma la tecnologia da sempre implica un esercizio mentale che va dal progetto alle sue finalizzazioni operative e che oggi si tende a definire complessivamente come “algoritmo”: un termine che deriva – è bene ricordarlo in un tempo di troppe contrapposizioni politiche e culturali – dalla trascrizione latina del nome del matematico persiano al-Khwarizmi e che negli anni Trenta dello scorso secolo ha trovato la sua più significativa implementazione nella cosiddetta Macchina di Turing, una esemplare macchina del pensiero.
Questa solo apparentemente generica premessa trae spunto da uno specifico evento espositivo, realizzato – dove altrimenti? – in Colorado, ai piedi delle Montagne Rocciose. Nel magnifico Denver Art Museum progettato da Daniel Libeskind, infatti, si può visitare fino all’inizio di settembre una mostra in cui viene rievocata la “universale” epopea del Western.
Nulla di più convenzionale, si direbbe, per una città in cui riecheggiano ancora le grida di avvertimento dei trapper e quelle di trionfo del celeberrimo Buffalo Bill. Il quale, per inciso, è morto a Denver proprio cento anni fa, il 10 gennaio 1917 e a Denver sono ancora conservate le medaglie che il Papa Leone XIII gli donò in occasione della sua visita in Vaticano, nel 1890.
Tuttavia, al di là delle tante suggestioni interculturali presenti nel nutrito e argomentato percorso di parole, immagini e suoni che si richiamano a vicenda, come nell’ampia sezione dedicata ai drammi cinematografici di Sergio Leone e alle relative colonne sonore di Ennio Moricone, non tanto di una mostra folkloristica si tratta, quanto della consapevole enunciazione di un complesso algoritmo culturale. Più precisamente, di quell’algoritmo dalla cui elaborazione è scaturita la identità di una nuova nazione con i suoi valori fondativi e programmatici.
Questo algoritmo, inteso come un dispositivo concettuale “tecnologicamente”, cioè operativamente, rilevante, non consiste tanto nel mito del Far West, articolato tra la leggendaria pista dell’Oregon, la First Continental Railroad, la prima ferrovia che nel 1869 collegò l’Oceano Atlantico con l’Oceano Pacifico, o la travolgente corsa alla terra del 1889 in Oklahoma. Questo algoritmo, che la mostra curata da Thomas Brent Smith e da Mary Dailey non a caso enuncia come An Epic in Art and Film, si fonda piuttosto su quella coalescenza mediatica che Jay David Bolter e Richard Grusin alla fine degli anni Novanta – sulla scorta della geniale formula di Marshall McLuhan secondo cui «il contenuto di un medium è sempre un altro medium» – hanno definito remediation.
La rimediazione identifica e descrive il processo della sovradeterminazione mediatica, cioè dei segni che, passando da un medium all’altro – dalla narrazione orale e letteraria allo spettacolo teatrale e circense, dal cinema alle diverse forme della rappresentazione artistica – e implicandosi reciprocamente, acquisiscono una forza semantica sempre maggiore, finendo letteralmente “in gloria”. Come appunto è avvenuto nel Far West per il cowboy, l’indiano, il pistolero, il corriere del Pony Express e via dicendo, che hanno contribuito alla formazione della moderna mitologia della frontiera.
Così, nella confluenza di tecnologia (l’algoritmo della remediation) e ideologia (il fascino di una frontiera che si sposta sempre in avanti, da un mare all’altro, ma anche da un pianeta all’altro), le macchine materiali, dai mezzi della mobilità a quelli della comunicazione, e le macchine mentali, emozioni, conoscenze, aspirazioni, hanno giocato e giocano una partita doppia, a cavallo tra presente e futuro.
Ma anche tra presente e passato, come sembra suggerire un sorprendente manifesto ottocentesco esposto nella mostra di Denver, in cui venivano raffigurati e paragonati, all’insegna dell’Art Perpetuating Fame, Napoleone Bonaparte, il quale si proiettò dalle Alpi alle Piramidi, a Buffalo Bill, il quale a sua volta si proiettò dall’America all’Europa. Come dire che con gli algoritmi si sa dove si comincia, ma non si sa dove si finisce. Talvolta in gloria, ma talvolta in celia.