La favola di Cenerentola, con lieto fine…in forse

La crisi del settore mette a rischio la sicurezza energetica in Europa

di Paul Betts

Oggi ci si riferisce spesso al settore della raffinazione in Europa occidentale come alla Cenerentola del settore petrolifero. Da tempo le società petrolifere internazionali (IOC), cioè le società storicamente, finanziariamente e tecnologicamente più dotate del settore, stanno diminuendo la propria capacità di raffinazione in Europa aumentando invece la propria esposizione nei paesi emergenti e in quelli non appartenenti all’OCSE. Per ora non è apparsa una fata in grado di sostituire le IOC. I raffinatori indipendenti hanno acquistato dalle IOC maggiore capacità ma le loro ambiziose speranze di una migliore flessibilità ed efficienza non si sono concretizzate e così il più importante raffinatore indipendente d’Europa, Petroplus, è stato costretto a dichiarare bancarotta.

Le società petrolifere statali (NOC), provenienti sia da paesi emergenti produttori di petrolio che da paesi emergenti privi di risorse petrolifere, hanno effettuato alcuni investimenti mirati nel settore della raffinazione europea,ma non hanno recitato la parte dei principi azzurri, dal momento che hanno limitato la loro attività ad alcune incursioni finalizzate a stabilire la propria presenza nel vecchio continente e ad acquisire un’utile piattaforma per tenere sotto controllo gli sviluppi del settore, accelerando il proprio processo di apprendimento.

Tali acquisizioni mirate di raffinerie effettuate dalle NOC in Europa vengono inoltre interpretate da più parti come dei cavalli di Troia, il cui fine sarebbe quello di ottenere delle strutture di stoccaggio che possano contribuire a distribuire sui mercati europei prodotti raffinati esportati dalle loro grandi, competitive e tecnologicamente avanzate raffinerie collocate nei relativi paesi d’origine.

LE CRITICITà DEL SETTORE

I governi e la Commissione europea hanno iniziato a preoccuparsi non solo delle forniture di gas e petrolio, manche delle fondamentali forniture di prodotti raffinati, sebbene abbiano poi offerto ben pochi aiuti concreti e abbiano invece continuato a mettere sotto pressione le attività e i margini del settore imponendo pesanti tassazioni e normative ambientali stringenti e incoraggiando lo sviluppo di prodotti sostitutivi come i biocombustibili. Tutto ciò in un periodo in cui il settore in Europa sta affrontando una serie sempre crescente di problemi,inclusi la spietata competizione dei paesi produttori mediorientali e di altri paesi emergenti come l’India, la Cina e recentemente il Brasile, paese quest’ultimo che ha intenzione di trasformarsi anche in esportatore di prodotti raffinati. Nel contempo la domanda interna in Europa, e la domanda di prodotti petroliferi esportati dall’Europa negli Stati Uniti, continuano a diminuire.

Anzi, gli Stati Uniti stanno oggi diventando esportatori di prodotti raffinati in Europa. La combinazione di tutti questi elementi rappresenta il problema della discrepanza in Europa fra il tipo di prodotti offerti e la domanda effettiva, con un surplus di benzine e carburanti e una mancanza di distillati medi. Non ultimo va citato il problema della mancanza di grandi dimensioni di molte vecchie raffinerie europee all’interno di un settore in cui i costi fissi e gli investimenti sono sempre stati elevati e in crescita costante. In breve, la situazione europea non è delle migliori.

Le statistiche del settore e le relative previsioni rafforzano questa sensazione negativa. Tra il 2008 e il 2012 circa il 30 percento della capacità europea complessiva è passato di mano, è stato congelato o è stato convertito (e il 20 percento negli ultimi due anni), secondo un dettagliato ed efficace studio della crisi che ha investito il settore della raffinazione europeo realizzato dal programma Dutch Clingendael International Energy in collaborazione con il Netherlands Institute of International Relations. Lo studio mette in luce che dalla cosiddetta “epoca d’oro”, tra il 2004 e il 2008, i margini del settore europeo della raffinazione si sono assottigliati sempre di più in conseguenza del calo della domanda di prodotti petroliferi in Europa, dei prezzi del greggio in aumento e della preesistente capacità in eccesso del settore europeo della raffinazione che ha ulteriormente ridotto i margini.

LE CHIUSURE IN FRANCIA

L’Istituto petrolifero francese (UFIP) ha recentemente riaffermato che il settore europeo della raffinazione sta attraversando una profonda crisi e che i governi devono prepararsi ad affrontare nuovi problemi. “Le raffinerie europee continueranno a soffrire, è qualcosa che i governi e i leader politici devono comprendere”, ha dichiarato Jean-Louis Schilansky, responsabile dell’associazione petrolifera francese. “Continuiamo a prevedere che nel 2015 avremo ancora un 8-10 percento di capacità eccedente nel settore europeo della raffinazione e la ristrutturazione in Europa non è ancora terminata”, ha aggiunto. In Francia, sono state chiuse quattro raffinerie dal 2009. Altri quattro impianti sono oggi a rischio, compresi Fos di Exxon-Mobil, la raffineria Lavera posseduta in parte da Ineos Group e le due raffinerie Total di Feyzin e La Mede. Per la grande società petrolifera francese Total il problema è ancora più grave. La compagnia detiene 2 milioni di barili al giorno della capacità di raffinazione europea e l’85 percento di tale capacità si trova in Europa, mentre il 40 percento si trova nella sola Francia. La società, tuttavia, ha faticato nell’opera di ristrutturazione delle proprie operazioni downstream in Francia a causa dell’opposizione dei sindacati e delle pressioni governative. In realtà Total ha confermato che manterrà gli impegni presi nel 2010 al momento della chiusura del proprio impianto di Dunkirk, quando assicurò che non avrebbe chiuso nessun’altra raffineria fino al 2015.

IL REGNO UNITO CERCA LE CAUSE

Anche nel Regno Unito la classe politica è in allarme per la crisi. Il comitato parlamentare per le questioni energetiche e il cambiamento climatico sta ricercando prove scritte che spieghino le ragioni delle chiusure di raffinerie nel Regno Unito, l’impatto delle normative nazionali e dell’Unione Europea sul settore e quale gamma di prodotti sarà presumibilmente richiesta in futuro. Alla fine degli anni settanta nel Regno Unito erano presenti 18 raffinerie. Oggi ce ne sono solo sette. La chiusura più recente è avvenuta nel 2012 e ha riguardato l’impianto di Coryton, una delle strutture più grandi e moderne d’Europa, che ha servito il 10 percento del mercato dei carburanti del Regno Unito. Di proprietà del gruppo svizzero Petroplus, ora insolvente, l’impianto di Coryton è la seconda raffineria del Regno Unito a chiudere dai tempi della crisi economica esplosa nel 2008. Ma alla conferenza Platts EuropeanMarkets, Robert Turner, il direttore di Price Waterhouse Coopers (PWC) a capo del team che si è occupato dell’insolvenza di Petroplus nel Regno Unito, ha detto ai partecipanti che le circostanze che hanno condotto alla bancarotta Petroplus non riguardavano soltanto il raffinatore svizzero e paneuropeo.

“Il settore europeo della raffinazione dovrà operare una ristrutturazione totale, ma è possibile che i nuovi capitali fatichino comunque ad arrivare”, ha dichiarato. “Questo periodo di ristrutturazione sarà radicale ed estremamente penoso per il settore”. In riferimento alla raffineria di Coryton, il direttore di PWC ha detto che i curatori fallimentari avevano ricevuto un’offerta migliore, finalizzata a trasformare Coryton in un terminal di stoccaggio, rispetto a quella avanzata da coloro che intendevano garantire la continuità aziendale. Ma alla fine nessuno si è dimostrato intenzionato a rilevare l’impianto, che è stato così costretto a chiudere. Esistono diverse stime riguardanti il numero di raffinerie che potrebbero chiudere nei prossimi anni in Europa.

Uno studio del settore effettuato da esperti A T Kearney suggerisce che una raffineria su cinque cesserà la propria attività entro i prossimi cinque anni. Uno studio Bloomberg, focalizzato sui dirigenti delle raffinerie europee,mostra che delle 104 strutture della regione, -dalla Francia all’Italia fino alla Repubblica Ceca – chiuderanno definitivamente entro il 2020. “Considerando semplicemente la diminuzione della domanda, si può concludere che ogni anno in Europa una grande raffineria o due raffinerie minori saranno costrette a chiudere”, ha fatto notare un dirigente.

Un anziano dirigente del settore petrolchimico e della raffinazione di BP, ora in pensione dopo essere stato a capo di una grande raffineria del Regno Unito, sostiene che il problema dell’Europa consiste nello scarso accesso a grandi quantità di petrolio nei pressi delle raffinerie. Nello stesso tempo un problema collegato è che la maggior parte delle raffinerie europee è vecchia e relativamente piccola per gli standard odierni e ciò rende difficile competere con le enormi raffinerie cinesi, indiane, saudite e sudamericane.

“Per di più il petrolio autoctono, quando si è tanto fortunati da possederlo, non è una soluzione semplice. C’è un problema strutturale per quanto riguarda il petrolio fornito ai raffinatori europei: esso arriva in gradi diversi, c’è il greggio buono e il greggio cattivo e questo fatto stabilisce in ultima analisi quel che è possibile fare ed ottenere da esso”, dice l’ex manager di BP con anni di esperienza diretta nel settore della raffinazione.

“Oggi si ha scarso controllo delle proprie forniture a livello di raffineria, dal momento che grandi quantità di petrolio provengono dal mercato spot”, aggiunge. Dato che le condizioni con le quali il petrolio viene scambiato sul mercato spot rendono difficile stabilire la provenienza del greggio, è importante sottoscrivere contratti a lungo termine con i fornitori, anche se questi possono a volte risultare svantaggiosi a livello economico in conseguenza delle fluttuazioni nel prezzo del greggio e del gas. Nello stesso tempo il costo del lavoro in Europa continua a crescere anno dopo anno,mentre i produttori dell’est si avvalgono di un costo del lavoro inferiore, almeno per il momento”, spiega.

Negli ultimi tempi i raffinatori indipendenti hanno acquistato raffinerie dai più importanti raffinatori a livello mondiale, i quali desideravano ridurre la propria esposizione in questo settore e concentrarsi sul settore upstream, molto più redditizio. Ma molti raffinatori indipendenti sono stati colti di sorpresa dalla grave crisi economica della raffinazione in Europa e stanno a loro volta chiudendo gli impianti o convertendoli in strutture di stoccaggio, senza più mantenere la continuità aziendale. Nel RegnoUnito,

ad esempio, il consumo di petrolio è sceso quest’anno del 25 percento in conseguenza del clima di recessione. Spiega il manager BP: “I prezzi sono elevati, la gente è a corto di contanti e sta limitando i soldi spesi in carburanti. Ci sono inoltre le tasse che i governi impongono sui prezzi alla pompa di benzina ad aggravare il problema. I regimi fiscali stanno deprimendo la domanda e la capacità dei raffinatori di ottenere un effettivo profitto. Gli investimenti di capitali devono essere elevati e il problema è particolarmente complesso per le raffinerie più vecchie, visti i costi di installazione delle nuove apparecchiature di sicurezza necessarie per soddisfare gli standard attuali. Nuove normative e nuovi standard di sicurezza contribuiscono a questa situazione. In breve, è più economico costruire in Cina dove le leggi non sono così severe. è diventato troppo costoso costruire nel Regno Unito. Inoltre costruendo in Cina si è più vicini al proprio mercato, vista la grande domanda proveniente da quella regione”.

I PAESI BASSI SULLA STRADA GIUSTA

A questo punto come deve comportarsi l’Europa e dove andrà a finire il suo settore della raffinazione, soprattutto considerando che non c’è alcun possibile successore delle IOC, con i mezzi tecnici e finanziari per affrontare le sfide poste dal settore? Le IOC sono state restie ad impegnarsi con investimenti di medio e lungo periodo nel settore europeo della raffinazione, preferendo piuttosto aumentare la propria esposizione nel settore della raffinazione dei paesi emergenti e dei paesi non OCSE. In media le IOC spendono soltanto il 15- 20 percento dei loro investimenti complessivi nel settore downstream.

In realtà l’attuale crisi europea è davanti agli occhi di tutti da circa un trentennio. Anche se le società petrolifere preferirebbero disinvestire dalle loro attività di raffinazione in Europa per concentrarsi sul settore upstream, è evidente che esse non possono semplicemente voltare le spalle a questo settore in difficoltà. Hanno considerato a lungo quale potesse essere la soluzione migliore e sono giunte alla conclusione che una piccola raffineria non è mai economica. C’è bisogno di grandi dimensioni e i Paesi Bassi in questo senso sono nella direzione giusta, con il vantaggio di avere accesso ad un porto in alto mare. Il settore sta guardando a nuove tecnologie che possano contribuire alla ristrutturazione; ma sebbene la tecnologia sia importante non può in alcun modo risolvere i problemi rappresentati dagli elevati costi fissi del lavoro e del capitale.

LA NECESSITà DI UNA STRATEGIA EUROPEA

Lo studio olandese Clingendael sul settore europeo della raffinazione invita la Commissione europea e i leader politici nazionali ad affrontare il problema strutturale rappresentato dalle incertezze del mercato nel breve periodo e dagli orizzonti a lungo termine degli investimenti nella raffinazione.

Da solo il mercato, afferma lo studio, non risolverà questo dilemma. Lo studio propone anche qualche ragionevole suggerimento. Sarebbe per esempio auspicabile una valutazione relativa all’attuale impatto delle imposizioni fiscali sulla domanda di carburante (compresa un’analisi del differenziale fra le tasse sulle vendite di automobili diesel o a benzina). Bisognerebbe prestare attenzione alla posizione competitiva del settore europeo rispetto a quella di raffinatori esteri in rapporto alle differenze fra le normative e i

vantaggi locali. Dovrebbero essere abbassati i livelli relativi alle barriere all’ingresso e all’uscita per i raffinatori europei meno competitivi. Un quarto tipo di soluzioni a lungo termine potrebbe riguardare la sostituzione dei carburanti, in particolare i distillati medi e leggeri, con biocarburanti, carburante derivato da carbone o carburante da gas naturale, al fine di bilanciare le quantità di carburanti richieste e ridurre il materiale di lavorazione necessario per il greggio. L’Europa necessita di un settore basato su una concezione del petrolio innovativa e sulle rinnovabili se intende soddisfare i suoi bisogni futuri in maniera efficace e rispettosa dell’ambiente, garantendo anche la sicurezza delle forniture.

La Commissione europea ha segnalato in un documento di lavoro del 2010 che nel lungo periodo è necessaria una ristrutturazione del settore. Ma il mercato europeo, bloccato in parte dai legislatori europei e nazionali, non ha finora mandato i segnali giusti. Oggi sembra sempre più difficile rinnovare il mercato, oppure entrarvi o uscirvi. La crisi economica è la prima preoccupazione e indebolisce ulteriormente il settore,ma la situazione non riguarda soltanto il problema dei posti di lavoro. Da un punto di vista energetico, le costanti chiusure e gli sgomberi di molte raffinerie europee a favore di società estere provenienti dai paesi emergenti o produttori di petrolio, sollevano il problema della sicurezza europea relativa alle forniture di prodotti petroliferi. La situazione è molto deprimente e Cenerentola non è certo sul punto di essere portata al suo incantevole ballo. Il suo principe dovrà avere pazienza.

Paul Betts lavora da 36 anni per il Financial Times ed è stato per 28 anni corrispondente estero del quotidiano a Roma, Parigi, New York e Milano. Attualmente scrive da Londra come editorialista di economia internazionale.

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