La “censura” di Facebook e Twitter su Biden

Il tentativo di bloccare la disinformazione ha esposto le piattaforme dei social media ad accuse da parte dei diversi fronti, ma la situazione non lasciava alle aziende alternative valide di intervento.

di Patrick Howell O’Neill

Da qualche mese gli esperti si aspettavano una operazione di hack and leak in vista delle elezioni e, mercoledì mattina, sul “New York Post “è apparsa una strana storia. Si sosteneva che “forse” alcuni messaggi di posta elettronica di Hunter Biden, il figlio del candidato presidenziale, potrebbero dimostrare che Hunter avrebbe fatto incontrare il padre, allora vice presidente, con un dirigente del settore energetico ucraino. 

Nonostante un titolo affermasse che si trattava di una “pistola fumante”, la storia è contrassegnata da fonti discutibili, fatti non verificati e pochissime notizie reali. L’intera faccenda fa eco a una campagna di disinformazione che l’intelligence statunitense sostiene sia stata condotta dal governo russo contro Joe Biden e, come ha evidenziato elegantemente l’esperto di disinformazione Thomas Rid, il modo di procedere ricorda da vicino le tattiche di disinformazione usate in passato. 

Jason Koebler ha  pubblicato un eccellente articolo su “Vice” con dettagli precisi sulla storia. Un aspetto degno di nota è che i repubblicani del Senato non hanno trovato  prove di illeciti  da parte di Biden riguardo al lavoro all’estero di suo figlio. 

Martire dei social media

Ma l’attenzione è ormai focalizzata sulle accuse di censura alle piattaforme di social media. Subito dopo la pubblicazione del “Post”, Twitter e Facebook hanno considerato la notizia come disinformazione deliberata. Facebook ha rallentato la condivisione della storia, appellandosi alla sua procedura standard di verifica dei fatti. Twitter ha impedito alle persone di condividere completamente il collegamento, facendo riferimento  alle sue politiche sul materiale non attendibile e incentrato su informazioni personali. Le loro azioni hanno fatto sì che la scarsa eco iniziale dell’articolo sia stata seguita da una grande ondata di indignazione.

Ma c’è un precedente per le aziende della Silicon Valley che suggerisce che non si tratta di censura politica, come alcuni sostengono. A giugno, Twitter ha  vietato i  collegamenti a “Blueleaks”, un tesoro di documenti trapelati da 200 dipartimenti di polizia americani (il social network ha anche bandito il gruppo che ha pubblicato i record). E Facebook ha stabilito una rete di controllo dei fatti che può aggiungere etichette di avvertimento alle storie e spingere verso il basso nella ricerca i contenuti con valutazioni scadenti per renderli meno visibili. 

Entrambe le aziende hanno usato continuamente questa strategia, per esempio per limitare la disinformazione del coronavirus. Twitter e Facebook si stanno preparando per questo momento da molto tempo: l’ovvio confronto è con la campagna di propaganda sulle email democratiche hackerate nelle elezioni del 2016, che sono state pubblicate per distrarre dai commenti di Donald Trump sulle donne che vanno “aggredite” sessualmente. Ma ciò non significa che siano in grado di affrontare il problema facilmente.

Le opzioni in campo sono limitate

“Non so se la scelta effettuata sia giusta o sbagliata”, afferma Bret Schafer, un ricercatore sui media e la disinformazione digitale dell’Alliance for Securing Democracy. “Semplicemente non c’erano molte alternative. Se le loro piattaforme non fossero intervenute sarebbero state martellate dai critici. Avendo agito, la loro risposta e si è trasformata in una questione di censura e pregiudizi politici”.

Il senatore conservatore Josh Hawley ha appena citato in giudizio il cofondatore di Twitter Jack Dorsey per comparire davanti al Congresso, creando la possibilità di audizioni controverse alla vigilia delle elezioni. “Probabilmente la vittoria più grande per loro è stato avere Facebook e Twitter che cercavano di limitare la diffusione della storia”, spiega Schafer, “perché ha spostato l’attenzione sulla ‘censura’ e il ‘pregiudizio politico’ della piattaforma invece di parlare dei contenuti assai dubbi di queste fughe di notizie”.

Ciò che lo rende fondamentalmente diverso dal 2016 è che la fonte principale è un giornale statunitense. Le precedenti fughe di notizie da account anonimi (Guccifer 2.0, l’autoproclamato hacker del DNC, era in realtà un ufficiale dell’intelligence russa) sarebbero relativamente facili da eliminare oggi. Ma quando un media americano con il sostegno repubblicano pubblica la storia, diventa un caso minore di martirio.

Questo “incidente” si adatta perfettamente a ciò che abbiamo visto per il resto della campagna presidenziale del 2020. La disinformazione interna è reale, sta accadendo ora su vasta scala ed è un problema molto più complicato da risolvere legalmente, moralmente e politicamente rispetto alle campagne di influenza straniera. Questo problema riecheggia il nostro precedente rapporto sulla  campagna di disinformazione di Trump sulle frodi agli elettori che ha sfruttato i media nazionali.

Schafer sostiene che la situazione è vantaggiosa per tutti coloro che hanno promosso la storia. Ma non vi è alcuna garanzia che il copione funzionerà allo stesso modo del 2016. L’impatto effettivo dipenderà in gran parte da come i media tradizionali e i social media faranno fronte alla tempesta nei prossimi giorni e settimane, nonché da come il pubblico americano reagisce. E i cittadini hanno così tanto altro da affrontare – inclusa una nuova ondata della pandemia,l’ udienze della Corte suprema, un’economia difficile – che potrebbe diventare solo una nota a piè di pagina.

Immagine: Un incontro elettorale di Joe Biden prima della pandemia.AP

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