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La sonogenetica permette di attivare le cellule dei mammiferi con gli ultrasuoni. La tecnica promette lo sviluppo di versioni non invasive di stimolazione cerebrale profonda.

di Lisa Ovi 

Il cervello è un organo straordinario, capace di dirigere, coordinare ed arbitrare ogni nostra funzione fisica, cognitiva ed emotiva. Non a caso, il corpo ha sviluppato importanti difese per proteggerlo contro ogni possibile minaccia. 

Sul fronte esterno, cranio e meningi proteggono il cervello dall’impatto con il mondo, mentre sul fronte interno, è la barriera emato-encefalica ad impedire che virus, batteri e sostanze inquinanti possano intaccare il nostro centro di comando. Purtroppo, proprio questa barriera si frappone tra il cervello e potenziali farmaci per il trattamento di malattie come morbo di Alzheimer, depressione e tumori cerebrali. 

Il 98 per cento dei farmaci non supera la barriera emato-encefalica

Non sorprende, quindi, che la ricerca stia cercando da tempo un modo per superare, in sicurezza, questo ostacolo. Una delle soluzioni più interessanti sviluppare nell’ultimo decennio viene dall’optogenetica, tecnica che permette di arricchire i neuroni con proteine fotosensibili e controllarne l’attività tramite fasci di luce. Nonostante discreti successi ottenuti in pazienti affetti da cecità, però, raggiungere con la luce le cellule più profonde del corpo non è semplice e può richiedere interventi di chirurgia invasiva per l’impianto di fibre ottiche.

Una seconda tecnica interessante prende il nome di stimolazione magnetica transcranica (TMS) ed utilizza campi magnetici mobili per stimolare regioni specifiche del cervello. La TMS è impiegata in applicazioni mediche per dare sollievo a condizioni come emicrania e depressione. Ciononostante, sebbene non invasiva, la TMS non assicura precisione nel trattare in modo specifico selezionati tipi di neuroni e tessuto cerebrale.

Controllare con precisione le attività cellulari

Meno invasiva dell’optogenetica, eppure capace di grande precisione, la sonogenetica prevede l’utilizzo di ultrasuoni per il controllo di cellule geneticamente arricchite di canali ionici sensibili al suono. Presentata per la prima volta nel 2015 da Sreekanth Chalasani, professore associato nel laboratorio di neurobiologia molecolare del Salk Institute, la sonogenetica sfrutta le proprietà di proteine sensibili al tatto e di bolle lipidiche capaci di amplificare le onde ultrasoniche. Studiata su vermi C. elegans,i ricercatori sono stati in grado di utilizzare onde ultrasoniche non invasive per colpire in modo specifico alcuni tipi di neuroni ottenendo vere e proprie alterazioni del comportamento, da un cambio di direzione, alla velocità e tipologia dei movimenti.

La sonogenetica raggiunge le cellule di mammifero

Ora, in una recente pubblicazione sulla rivista Nature, Sreekanth Chalasani e colleghi del Salk Institute descrivono come sono arrivati ad applicare la sonogenetica anche alle cellule di mammifero e non solo per il cervello, ma anche nel cuore e in altri organi, aprendo così le porte a versioni non invasive di stimolazione cerebrale profonda, pacemaker e pompe per insulina.

“Passare al wireless è il futuro di ogni campo”, dichiara Sreekanth Chalasani. “Sappiamo già che gli ultrasuoni sono sicuri e che possono attraversare ossa, muscoli e altri tessuti; sono dunque lo strumento definitivo per manipolare le cellule in profondità nel corpo“.

I ricercatori hanno impiegato più di un anno per testare quasi 300 proteine alla ricerca di una che fosse capace di rendere cellule umane sensibili alla frequenza degli ultrasuoni di 7 MHz. La proteina individuata prende il nome di TRPA1, proteina canale già nota per la capacità di reagire alla presenza di composti nocivi ed attivare cellule del corpo umano come quelle del cervello e del cuore.

Secondo i ricercatori, grazie a questa scoperta cruciale, la sonogenetica potrebbe in futuro sostituire tecniche come la stimolazione cerebrale profonda nella cura di condizioni come il morbo di Parkinson o l’epilessia. È già in via di sviluppo un metodo di erogazione della terapia genica in grado di attraversare la barriera emato-encefalica, ma prima ancora, si potrebbe arrivare ad applicazioni sostitutive dei pacemaker. 

“Le tecniche di gene editing per il cuore umano esistono già”, afferma Chalasani. “Le cellule cardiache potrebbero essere attivate utilizzando un dispositivo a ultrasuoni esterno che rivoluzionerebbe la tecnologia dei pacemaker“.

(lo)