Skip to main content
Fabrizio Greco. Presidente Federchimica Assobiotec

Fabrizio Greco, presidente di Federchimica Assobiotec, affronta l’impatto delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale nel settore delle biotecnologie, con uno sguardo ai punti di forza e alle criticità del sistema Italia.

Dottor Greco, che impatto hanno gli attuali avanzamenti tecnologici, in particolar modo quelli legati all’intelligenza artificiale, sull’industria e sulla ricerca nel settore delle biotecnologie?

L’intelligenza artificiale, ovviamente, porterà un impatto importante in molti campi della nostra vita, compreso il settore delle biotecnologie. Soprattutto in ambito salute perché, permettendo di elaborare grandi quantità di dati, è possibile influenzare varie fasi del percorso di sviluppo ed erogazione di nuove soluzioni terapeutiche ai pazienti.

Credits: Abbvie

Credits: Abbvie

Già oggi, la mole di dati disponibili e resi compatibili grazie all’intelligenza artificiale sta permettendo di accelerare il processo di selezione delle molecole che vengono successivamente studiate in maniera più approfondita nello sviluppo degli studi clinici. Questo perché si riesce a rendere molto più veloce ed efficiente identificare i potenziali candidati molecolari e meccanismi di azione e questo facilita gran parte del lavoro iniziale.

Ma queste nuove tecnologie aiutano anche sotto altri punti di vista. Come, ad esempio, quello che riguarda il riutilizzo di farmaci esistenti. È possibile, infatti, identificare farmaci già disponibili per determinate applicazioni che possono venire incontro a esigenze diverse da quelle cui erano destinati inizialmente. In questo modo si riducono costi di ricerca e tempi di accesso alle terapie.

Inoltre, ci sono benefici anche nello sviluppo e nel monitoraggio degli studi clinici, grazie alla possibilità di utilizzare la raccolta di questi dati in maniera molto più diffusa.

In sintesi: più efficienza, maggiore trasparenza nei processi e riduzione dei tempi. Normalmente ci vogliono dieci anni per sviluppare un farmaco. Con l’utilizzo di queste tecnologie ne serviranno sicuramente meno, ci saranno minori costi di sviluppo degli studi e, ci si augura, minori costi delle nuove soluzioni.

Nello specifico, direi che il primo impatto che le nuove tecnologie e l’intelligenza artificiale avranno nel settore sarà un cambiamento importante nello sviluppo di nuove soluzioni terapeutiche.  Grazie all’IA possiamo pensare a soluzioni sempre più personalizzate, perché potendo elaborare grandi quantità di dati si può entrare nell’analisi genomica di popolazioni e di singoli individui e, quindi, trovare terapie altamente personalizzate. Anche la diagnostica può beneficiarne. Basti pensare che è possibile sviluppare farmaci sempre più tarati sulle esigenze del singolo, affiancandoli a terapie avanzate che sono già individuali come quelle CAR T, garantendo quindi anche una maggiore efficienza, oltre che efficacia.

Un altro approccio interessante è quello che riguarda i wearable devices, i dispositivi indossabili, perché permetteranno un monitoraggio costante e preciso delle variabili cliniche. Grazie a questo potremo contare su diagnosi più tempestive e una maggiore partecipazione agli studi di cui abbiamo parlato in precedenza, agevolando la ricerca su malattie rare per le quali non è sempre così facile raccogliere dati e trovare pazienti.

Il concetto principale è che essere molto più capillari consente di portare avanti, in maniera molto più veloce ed efficiente, studi su popolazioni che sono molto limitate ma che hanno più necessità.  In sintesi, direi che queste nuove tecnologie, il digitale e l’IA, porteranno nuove opportunità in termini di prevenzione per i professionisti, per i ricercatori e per i pazienti che, auspicabilmente, potranno avere accesso a nuove soluzioni terapeutiche a un costo inferiore.

Abbiamo citato le opportunità. Esistono anche dei rischi? Faccio un esempio:  il fatto che oggi l’intelligenza artificiale possa elaborare così tanti dati e offrire soluzioni in maniera più efficiente, può, in alcuni casi, fare in modo che i medici si affidino così tanto ad essa da assecondare passivamente le scelte dell’IA sulla cura del paziente?

Allo stato attuale direi di no. A tal proposito mi viene in mente uno studio, realizzato alcuni anni fa per l’Associazione dei Medici americani, in cui vengono mostrate le decisioni corrette su situazioni cliniche complesse prese dall’intelligenza artificiale e dai medici umani, sulla base dei dati raccolti dall’IA. Il tasso di successo dell’IA si attesta intorno al 20%; quello del personale clinico umano esperto intorno al 70%. Il risultato migliore, superiore al 90%, si ottiene con la collaborazione tra intelligenza artificiale e medico umano.

La differenza tra la prediction e il judgement sta proprio in questi dati: la macchina può fare predizioni ma il giudizio di un medico esperto è qualcosa che ancora oggi è fortemente necessario. Non so se arriverà un giorno in cui le macchine sapranno superare l’essere umano anche per la fase di judgement, perché ci sono anche fattori etici che devono essere considerati. Probabilmente la predizione dei sistemi di IA sarà sempre più accurata in futuro, ma al giorno d’oggi la prediction non è migliore del judgement e la combinazione delle due componenti è attualmente (e credo lo sarà anche in futuro) la soluzione migliore.

Come si muove l’industria biotecnologica in Italia? Riusciamo a essere al passo con i Paesi più all’avanguardia?

Ci muoviamo tra luci e ombre.  Abbiamo sicuramente un substrato scientifico molto valido. Abbiamo ricercatori molto bravi e tante pubblicazioni. Possediamo un capitale umano importante, storie di successo che possono far vedere punte di eccellenza. Ma poco altro. Se andiamo a vedere gli indicatori più generali, come il numero di imprese, i brevetti registrati, gli investimenti in ricerca e sviluppo sia pubblici che privati, vediamo che non siamo sufficientemente attrattivi.  Questo vuol dire che abbiamo un buon materiale di base ma non abbiamo un sistema che riesca a farlo sviluppare. Un po’ come avere il lievito ma non riuscire a farlo lievitare.

Su quali verticali nel campo delle biotecnologie crede che l’Italia potrà giocare al meglio le proprie carte?

Ci sono diversi settori in cui poter sviluppare le moderne biotecnologie.  C’è l’ambito delle terapie, quello della prevenzione e quello della  diagnostica, ma c’è anche l’industria, l’ambiente, l’agricoltura, solo per citarne alcuni.

Credo che il settore in cui ci sia maggiore competizione, oggi, sia quello della salute. Secondo stime della nostra Area Studi sono però tante e in continuo sviluppo anche le realtà industriali che operano nel campo della sostenibilità ambientale, impegnate cioè nello sviluppo di processi e/o prodotti che sono in grado di conciliare crescita economica e sviluppo sostenibile Sicuramente stiamo assistendo ad una rinnovata attenzione per il settore anche  a livello governativo. Il Ministero degli Affari Esteri, ad esempio, ha recentemente creato un tavolo per l’internazionalizzazione del biotech, con l’obiettivo di esportare le eccellenze italiane del settore. Questo passo è fondamentale perché, nel momento in cui io brevetto una nuova soluzione, devo cercare di diventare globale per sfruttare al massimo il valore che ho generato. Non è pensabile che una nuova idea possa trovare sostenibilità guardando soltanto all’Italia. E poi c’è la recente nota del Ministero dell’Economia e delle Finanze dedicata al settore farmaceutico nel quale si sottolinea in modo evidente il ruolo chiave del biotech all’interno del Paese. E ancora il  “Libro Verde Made in Italy 2030” redatto dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy che, nel delineare la nuova strategia di politica industriale dell’Italia dei prossimi 5 anni, riconosce l’industria farmaceutica come uno dei settori strategici per il Paese, insieme alle consuete 4A del Made in Italy.

Quali sono le criticità più importanti dell’industria biotecnologica italiana?

Le criticità sono diverse e il quadro è complesso. Circa un anno fa abbiamo disegnato il “Biotech Journey” che è un modo sintetico di rappresentare il percorso che un’idea fa per  diventare una soluzione per i pazienti e/o i cittadini focalizzando le diverse criticità che abbiamo come sistema Paese.

Lo abbiamo costruito partendo da una semplice domanda: da chi arrivano le idee? Le idee vengono il più delle volte dai giovani. Servono quindi i giovani che, ovviamente, devono essere formati. Il primo step, quindi è quello della formazione. Io devo avere, soprattutto nelle materie STEM,  un numero di giovani sufficiente per far sì che tra loro nascano delle buone idee.

Se riusciamo ad avere tanti giovani correttamente formati, questi devono avere la possibilità di fare ricerca sulle idee trovate, provare a svilupparle. E questo è possibile in un contesto in cui la ricerca è stimolata, finanziata, incentivata.

La Biotech Journey realizzata da Assobiotec

La Biotech Journey realizzata da Assobiotec

Una volta sviluppata l’idea, ho la necessità di trasformarla in una soluzione pratica per i cittadini e non lasciarla solo come un paper pubblicato su una rivista. Arriviamo quindi al terzo passaggio che riguarda il trasferimento tecnologico. Qui nascono ulteriori criticità che riguardano i centri di trasferimento tecnologico, il know-how in questi centri,  il numero di persone dedicate. Non c’è la cultura, ma non ci sono neanche le strutture che ci consentano di sviluppare questi centri.

Andiamo oltre: ho formato i giovani, questi hanno fatto ricerca e hanno capito come farla diventare una soluzione concreta. Qual è il passo successivo? Nascono delle start-up che utilizzano quelle soluzioni, che abbiano la possibilità di metterle in pratica e svilupparle. Ci sono sufficienti fondi, attenzione, contesti in cui le start-up possono crescere?

Ecco, in questo viaggio che abbiamo voluto immaginare, il treno non riesce ad arrivare alle stazioni successive perché le criticità iniziano fin da subito.

Credits: Abbvie

Credits: Abbvie

Ma il vero problema è che, se non trovo la soluzione in tutte le stazioni, prima o poi il treno si fermerà comunque. Perché, se le start-up non hanno la possibilità di sviluppare le proprie soluzioni, e quindi trovare qualcuno (grandi aziende, investitori o altro) che le aiutino a crescere in dimensioni, non sarà possibile vedere un futuro.

Anche dal punto di vista di contesto regolatorio, dobbiamo avere delle regole certe, perché nessuno investe soldi in un contesto che non è chiaro.

Ci sono tanti passaggi in cui insistono delle difficoltà e non esiste, purtroppo, una soluzione magica per risolverle tutte. Le soluzioni sono più complesse e richiedono tempo.

Quello che oggi, dal nostro osservatorio, serve al comparto è una visione strategica e di lungo periodo. Un approccio di sistema in cui ricerca, sviluppo, produzione e accesso a soluzioni innovative possano crescere ed alimentarsi reciprocamente. Nel concreto vuol dire sviluppare competenze, incentivare e finanziare la creazione e lo sviluppo di start-up innovative, rendere semplice ed efficace la ricerca e la collaborazione tra pubblico e privato, ma anche garantire regole certe e stabili. Bisogna coinvolgere su un progetto collettivo tutti gli stakeholder e i tanti diversi interessi devono trovare una sintesi comune.

Come immagina il futuro dei servizi per la salute dei cittadini?

Non sono un futurologo (ride, ndr) ma, estrapolando da quel che conosco, mi aspetto una maggiore disponibilità e prossimità di soluzioni per i bisogni di salute individuali ed un maggiore coinvolgimento delle persone. Mi aspetto che saremo più coinvolti nella cura di noi stessi e avremo più risorse per farlo.

In uno dei suoi recenti interventi in Assobiotec lei ha puntato l’accento sulla necessità di rendere i cittadini consapevoli nell’utilizzo delle nuove tecnologie. Quale ritiene essere il modo più funzionale per raggiungere questo obiettivo?

Credo che la formazione sia il primo passaggio fondamentale, per questo l’abbiamo inserito anche nel nostro Biotech Journey. Vorrei però fare un passo ancora indietro. Come Assobiotec abbiamo realizzato degli eventi con i ragazzi dei licei per raccontare il valore delle biotecnologie, sia per la salute, sia per l’ambiente, sia per l’industria. Questi messaggi ai giovani, probabilmente, potranno incentivare qualcuno di loro a iniziare un percorso universitario ed entrare in quel flusso di cui abbiamo parlato. Ma per la grande maggioranza di loro, questi eventi saranno utili per conoscere queste tecnologie e le opportunità che offrono in maniera diversa o un po’ più aperta. Se è vero che la società si muove sulla base della spinta che arriva dal basso, io sono anche convinto che una maggiore consapevolezza del valore delle biotecnologie spingerà la politica ad andare incontro a questa domanda e l’industria e l’accademia, in qualche modo, faranno lo stesso. Credo che la spinta dal basso nel volere qualche cosa alla fine riesca a influenzare il sistema. Parliamo di un meccanismo complesso, semplice da disegnare nel Biotech Journey ma molto complicato da realizzare nella realtà. L’unico modo è partire dal basso e rendere il più possibile informate le persone sulle opportunità e il valore che queste nuove tecnologie rappresentano e rappresenteranno sempre più in futuro.

Questo è un mondo in cui, se non saremo noi a pensare alle soluzioni, ci penserà qualcun altro. Ci sono già altri Paesi che stanno investendo da tempo, in altri continenti. L’Europa, lo scorso anno, ha lanciato un manifesto sulle biotecnologie e quest’anno è previsto, come confermato da Ursula von der Leyen, il lancio dell’EU Biotech Act, perché l’Europa è indietro rispetto ad altri sulle nuove tecnologie e noi, in Italia, siamo un po’ indietro rispetto anche all’Europa. Quindi o decidiamo di guardare al futuro da protagonisti – e per farlo è necessaria una spinta dal basso – oppure ci ritroveremo comunque nel futuro, ma solo come utilizzatori.