Il dibattito è aperto e, a occhio e croce, continuerà con maggiore o minore intensità in coincidenza con i momenti cruciali – appunto: a occhio e croce – fino a quella data fatidica del 2015 in cui le porte dell’Expo di Milano, dopo quella memorabile del 1906, si riapriranno ai visitatori. Sul “Venerdì” di “la Repubblica” — che si chiedeva se “sarà Rinascimento” — Giorgio Bocca non sembra avere dubbi: “Io sono per l’Expo 2015 per una ragione semplice e sperimentata. Le grandi Expo dell’800 e del 900 hanno marcato la fortuna delle città che le ospitarono, fortune legate al progetto comune, alla volontà comune, alle comuni opere”. Vero o, almeno, quasi vero: per esempio, e per restare ad anni recenti, a Siviglia lamentano ancora la grande occasione perduta del 1992, l’Expo delle celebrazioni colombiane, le cui grandi opere non si sono pienamente integrate con il preesistente tessuto urbano. Ma c’è ancora tempo ed è proprio con il tempo che le Expo si dimostrano utili, anche se si potrebbe pensare che il tempo e la progressiva crescita della città ospitante servano proprio ad assimilare la novità sempre eccessiva di una Expo, che rischia, almeno per un poco di restare come un corpo estraneo.
Il valore dell’esperienza
Anche io sono per l’Expo e non soltanto perché da oltre vent’anni mi occupo di Expo, curando i progetti culturali delle partecipazioni italiane dal 1985 al 2005, da Tsukuba, in Giappone, a Vancouver, da Brisbane a Siviglia, da Lisbona ad Aichi, di nuovo in Giappone. Queste ripetute esperienze mi hanno insegnato che, quando un evento va oltre i consueti, quasi abitudinari circuiti della promozione e dello scambio, succede effettivamente qualcosa, anche in questi nostri tempi patinati e afflitti da una spettacolarizzazione a oltranza, in cui tutto, anche quanto resta marginale e privo di conseguenze, acquisisce una pretesa apocalittica. Ma, proprio in quanto conosco abbastanza bene i meccanismi di infeudamento, ideologico, corporativo, personale, che inevitabilmente insidiano a questo genere di eventi, non posso evitare di prestare orecchio, magari per verificare e confutare, alle voci contrarie. In effetti, ci sono sempre voci contrarie e questo è il bello della contemporaneità, del vivere sul momento, dove giudicare resta comunque difficile, anche perché giudicare, sul momento, comporta, o dovrebbe comportare, una assunzione di responsabilità nei confronti di quanto si vorrebbe o non si vorrebbe fare.
L’altra voce, non unica, ma particolarmente autorevole perché evidentemente non interessata, è quella di Guido Ceronetti che, sul supplemento domenicale del “Sole 24 Ore” rievoca le vecchie Expo, quelle di cui gli parlavano nell’infanzia i genitori – Ceronetti scrive “congiunti” — per concludere che allora era un’altra cosa, anche se non tutte le ciambelle riuscivano con il buco e per esempio l’inaffondabile transatlantico Titanic venne costruito soltanto per affondare immediatamente. Nelle Expo di quei tempi eroici tutti predicavano la Pace Universale per precipitarsi subito dopo a farsi la guerra, ma, insomma, si avvertiva ancora il riflesso di qualche ideale, di qualche utopia. Mentre oggi, altrove come a Milano, l’Expo sarebbe “tutta nichilista”: “è vista esclusivamente da tutti come affarone, e avere come motore e fine dichiarato il denaro è poggiare sul nulla, sul vento che ha fame”.
Bene, almeno questa volta vorrei turarmi le orecchie, per non sentire quel terribile “vento che ha fame” e che ricorda il cumulo di macerie dell’Angelo Nero di Klee, in cui Walter Benjamin interpretava la modernità come una frenetica, ma tragica elaborazione della fine. Voglio scommettere che, come ogni sforzo di dirsi impone un preliminare sforzo per conoscersi, così anche una Expo, nonostante il rischio permanente di gridare sopra le righe, costituisca sempre, dovunque si tenga, ma soprattuto se si tiene a casa nostra, una opportunità di maggiore consapevolezza, in cui il dire e il fare possono – possono! — avviare un circolo virtuoso di dialettici confronti e di incontri operosi.
I motivi della fiducia
Tre motivi che reputo buoni mi inducono a questa apertura di credito.
In primo luogo, resto convinto – grazie anche alla documentazione sulle grandi Expo del passato, che ha ormai riempito parecchi scaffali della mia biblioteca — che la città moderna, la città scaturita dalla rivoluzione industriale, in cui alla logica monocentrica del potere istituzionale, quale fosse, si sostituisce quella policentrica del potere economico, si sia prevalentemente sviluppata sulla sollecitazione degli ‘eventi. Là dove prevale la ripetizione del ciclo produttivo, anche quando inavvertita e inconsapevole, la differenza può farla, infatti, solo la circostanza speciale, quando la memoria del passato rifluisce in una idea di futuro che riesce a mettere tra parentesi un presente in cui, nel caso migliore, è la vecchia intendenza napoleonica a farla da padrone.
Nel caso di Milano, il progetto dell’Expo verrà a integrare quello della nuova Fiera, che, dislocata recentemente e opportunamente oltre la cintura urbana, potrà tornare a dialogare intensamente e stabilmente con la città, non solo grazie ai previsti collegamenti infrastrutturali, ma anche alla continuità territoriale e soprattutto psicologica implicita nell’evento espostivo.
In secondo luogo, mi pare che l’Italia abbia ancora qualcosa di importante, se non di nuovo da dire e che questo sia il momento di dirlo. Nell’ultima Expo universale di Aichi è stato possibile verificare che nel mondo esiste ancora una vivace e articolata domanda d’Italia. Al di là delle incoerenze e delle incostanze delle sue diverse proiezioni, dalla lingua allo stile, questa domanda trova alimento nel bisogno di ritrovare le ragioni di una tradizione che non sia soltanto di pensiero, ma di vita: il tema del corpo e del piacere, che in Giappone trovò una maestosa consacrazione nella presenza del Satiro Danzante, a Milano potrà confluire nel grande filone del gusto, di cui l’alimentazione — tema prescelto per la nuova Expo — costituisce uno dei filoni portanti, anche se non esclusivi.
In terzo luogo, in una prospettiva più metodologica che mi auguro possa trovare un concreto riflesso nella concezione stessa delle modalità comunicative e relazionali dell’Expo, ritengo che proprio la scelta dell’alimentazione come tema possa orientare l’impostazione progettuale verso una autentica e innovativa dimensione sinestetica: la pancia insieme al cuore e al cervello, come si usa dire oggi, che superi in una integrazione dialettica – dialettica: cioè relativa a un sempre più convincente modo di dire – la ormai eccessiva e tutto sommato non efficace contrapposizione tra la realtà reale e la realtà virtuale.
Le prospettive del progetto
Queste considerazioni, infine, potrebbero fornire alcune preziose indicazioni sui criteri di un progetto vincente in quanto progetto, cioè etimologicamente proiettato oltre gli stessi confini di tempo e spazio nei quali necessariamente deve venire inquadrato: criteri che riassumerei in un concetto filosofico, quello dell'”aperto” che, come indicava Heidegger, caratterizza la capacità dell’uomo di percepire il mondo al tempo stesso in maniera coinvolgente e orientata. L'”aperto” dovrebbe, a mio avviso, costituire la trama su cui articolare e declinare il tema prescelto: nel senso di un nutrimento che concerna sia il corpo sia l’anima; nel senso di un recinto espositivo dialogante sistematicamente con il territorio vicino e lontano, in una logica di programmatica mediazione tra la Fiera e la città, tra la città e il Paese; nel senso di una comunicazione capace di integrare creativamente le tante modalità dello scambio simbolico con quelle dello scambio reale, evitando, come talvolta avveniva nelle vecchie Expo, di alternare la sollecitazione della curiosità alla frustrazione per le possibilità intraviste, ma non davvero fruibili.
Da questo punto di vista, l’Expo di Milano 2015 potrà davvero rivalutare e rilanciare il senso autentico dell’essere italiano: capace di provare piacere, ma al tempo stesso capace di condividere questo piacere con gli altri e, quindi, capace di piacere.