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Potrebbe costare meno del previsto chiudere le centrali elettriche a combustibili fossili negli USA entro il 2035.

di Lisa Ovi

Gli Stati Uniti sono notoriamente uno dei paesi più responsabili di emissioni a effetto gas serra del globo. Uno dei cavalli di battaglia del neo eletto presidente Biden è stato il suo piano per la lotta ai cambiamenti climatici, in cui prevede investimenti di almeno 1,7 trilioni di dollari da indirizzare, in particolare, ai settori dell’energia, dei trasporti e dell’agricoltura.

La proposta di Biden è stata formulata da una “task force unitaria” creata la scorsa primavera in collaborazione con il principale rivale democratico di Biden, il senatore Bernie Sanders. In particolare, la task force raccomanda l’eliminazione delle emissioni di carbonio dal settore elettrico entro il 2035.

Decarbonizzare la produzione di elettricità richiede sia la costruzione di fonti di energia rinnovabile, sia il pensionamento delle centrali elettriche alimentate da combustibili fossili come il carbone. Il costo della messa in disuso di questi impianti è sempre stato uno dei punti critici di ogni dibattito sulla decarbonizzazione.

Ora, in un articolo pubblicato da Science, Emily Grubert, ricercatrice del Georgia Institute of Technology spiega come il processo potrebbe costare meno del previsto. La ricercatrice punta l’attenzione sul fatto che molti degli impianti a carbone in essere negli Stati Uniti sono già prossimi a terminare il loro naturale ciclo produttivo.

Secondo i dati riportati dall’articolo, tra il 2009 e il 2018, sarebbero già stati chiusi impianti per una capacità produttiva di 126 gigawatt, 33 gigawatt dei quali nei soli 2017 e 2018. Ben il 73% (630 gigawatt su 840) della capacità di generazione alimentata da combustibili fossili negli Stati Uniti arriverà naturalmente a fine corsa entro il 2035. Tale percentuale raggiunge il 96% se si guarda al 2050. Circa il 13% della capacità di generazione da combustibili fossili degli Stati Uniti (110 GW) aveva già superato la durata di vita operativa tipica nel 2018.

Poiché il calcolo della durata di vita tipica di un impianto non è che un valore medio, alcuni generatori rimangono funzionanti più a lungo del previsto. Consentire alle strutture di funzionare fino all’ultimo sarebbe quindi controproducente id fronte ad una data di scadenza per la decarbonizzazione fissata al 2035, osserva l’articolo.

La ricerca ha rilevato che la scadenza del 2035 per il ritiro completo dei generatori di elettricità a base fossile limiterebbe, rispetto al 2018, solo il 15% circa (1700 gigawatt-anno) della capacità produttiva alimentata da combustibili fossili, ed impatterebbe il 20% circa degli impieghi connessi a centrali elettriche ed estrazione del carburante utilizzato. Delle scadenze ben definite potrebbero favorire una pianificazione precisa non solo degli investimenti necessari alla manutenzione ed al mantenimento degli impianti, ma anche di programmi di riqualifica per i lavoratori e le comunità che dalle centrali dipendono.

Come spiega Grubert, alla base delle politiche che disciplinano il ritiro degli impianti alimentati da combustibili fossili è il concetto di “transizione giusta” che garantisce il benessere materiale e la giustizia distributiva per gli individui e le comunità colpite da una transizione dai sistemi elettrici fossili a quelli non fossili. Determinare quali attività sono “bloccate” o che devono essere chiuse prima del previsto per l’assenza di politica monetaria, è vitale per la gestione della compensazione di debiti residui e guadagni mancati.

(lo)