Verso la comunicrazia

«Tutto il conservatorismo del mondo non può opporre neppure una resistenza simbolica all’assalto ecologico dei nuovi media elettrici». Marshall McLuhan

di Vincenzo Susca

Nel 1936 Benjamin nel suo classico L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica ha spiegato in maniera illuminante il modo in cui l’opera d’arte perde la sua aura – la sua sacralità – nel momento in cui può essere riprodotta infinitamente dai nuovi dispositivi tecnologici e quindi allorché viene a mutare l’atto stesso della sua contemplazione: mentre precedentemente si era costretti a passare per il luogo rituale del museo, con la riproducibilità tecnica l’opera d’arte può essere guardata, in qualche modo manipolata, direttamente nel proprio contesto di fruizione.

E’ possibile servirci di questa intuizione per dislocare il discorso su un altro importante oggetto di attenzione, la politica? Che succede alla politica nell’epoca della sua riproducibilità digitale? I ragionamenti che più accompagnano questo processo tentano di legare a esso e assecondare nuove modalità di espressione della vecchia politica; “come se” non ci fossero altre vie d’uscita, “come se” i nuovi media non fossero altro che nuovi strumenti per abbellire e riabilitare il vecchio sovrano.

Tale postura intellettuale contraddistingue anche chi, scevro da pregiudizi e da convinzioni tecno-scettiche, riesce a cogliere parte della svolta paradigmatica che i linguaggi digitali imprimono agli statuti della democrazia. Si prefigura, quindi, un quadro politico-istituzionale in grado di rinnovarsi grazie all’uso dei nuovi media e alla valorizzazione del loro intrinseco potenziale democratico. Essi consentirebbero all’opinione pubblica di contribuire in misura qualitativamente e quantitativamente maggiore alla gestione della repubblica, di stimolare il dialogo e l’interazione tra i rappresentati e i rappresentanti, di avviare processi più intensi di controllo dei primi sui secondi.

Tali prospettive, senza dubbio interessanti e non prive di elementi innovativi, restano comunque incardinate sulla dimensione sistemica e politica esistente, non consentono di vedere “al di là del politico e dopo il Leviatano”. Sostanzialmente si disserta di democrazia elettronica senza prendere in conto che, probabilmente, la mutazione antropologica e culturale legata allo sviluppo dei linguaggi e dei “territori” digitali porta alla dissoluzione, e non al mero rinnovamento, della politica e del politico intesi in senso moderno. La politica, in effetti, non è che una e transitoria forma attraverso cui si esprime una data sensibilità culturale, si cristallizzano i paradigmi relazionali e di potere di una data epoca, si plasma un’architettura nella quale siamo “provvisoriamente” contenuti: una cornice valida fino a quando i suoi confini espressivi sono in grado di contenere i soggetti e le soggettività che la abitano, la riproducono e vi si riconoscono, uno specchio legittimo fin quando risulta in grado di ospitare nella sua narrazione e nel suo linguaggio i frammenti che lo compongono.

Siamo d’altra parte nel cuore della crisi del politico, nel momento in cui lo scisma tra il corpo politico e il corpo sociale si avverte in maniera più sensibile, in cui i linguaggi, le azioni, i modi d’essere e le temporalità della società che “pensa e governa” e di quella che “vive ingovernata” sono sempre più distanti e asincroni, in un quadro asimmetrico e incoerente dove sempre più spesso vengono messi in luce conflitti e opposizioni tra istituzioni e soggetti che, invece, dovrebbero convivere e corrispondersi in uno stretto legame, abitare lo stesso mondo. La ferita è quindi aperta, le lacerazioni difficilmente rimarginabili con timidi aggiustamenti di ispirazione riformista. Non si tratta di uno strappo dell’ultima ora, bensì di un disagio che è andato progressivamente acuendosi trovando già negli schermi dei media di massa una potente cassa di risonanza e un fattore di proliferazione.

In questo campo entra in gioco la tecnica, e nello specifico le tecnologie della comunicazione: esse sono gli attrezzi e i dispositivi che rendono concreta la forza invisibile di quello che Simmel chiama il “re clandestino” di un’epoca, il suo potente e sempre fondativo immaginario collettivo. In realtà – lo ripetiamo – è una forte mutazione socio-antropologica ad accompagnare e a essere sostenuta dalle rivoluzioni tecnologiche legate alle reti e al digitale. I media non sorgono mai dall’esterno del corpo sociale, ma sempre dal suo interno, dal suo cuore.

Attraverso le reti si supera il modello comunicazionale moderno, ben incarnato nel mezzo televisivo, fondato su una comunicazione generalista (o di massa), unidirezionale, verticale e tendenzialmente passiva per passare a un altro che privilegia le dimensioni personali o micro-comunitarie, orizzontali e attive dell’interazione. Sarebbe un’operazione ingenua esaminare la portata del cambio di paradigma comunicativo senza evidenziare le conseguenze che esso implica su quello antropologico-culturale (e quindi senza intercettare i contenuti delle nuove soggettività emergenti dal cuore delle mutazioni tecnologiche). Dobbiamo invece chiederci, a questo punto, cosa possa accadere alle forme di potere e di relazione nel momento in cui si scivola verso una comunicazione-mondo incentrata sulle reti e sui linguaggi digitali, quindi in uno scenario che riattiva e reinveste nel gioco pre-politico e post-politico le vocazioni culturali delle neo-tribù e dei nuovi nomadismi glocali.

Rinunciando alla presunzione delle certezze, siamo però quanto meno chiamati a interrogarci sulla misura in cui la nuova dimensione antropologica corrisponda e sia conciliabile con i capisaldi del Moderno: lo Stato-Nazione, il concetto di individuo, l’istituto e la pratica della rappresentanza, le identità collettive, quindi l’universo del politico e la democrazia stessa come l’abbiamo conosciuta sinora. Gli attraversamenti, i consumi comunicazionali, i molteplici nomadismi e i frenetici transiti postmoderni, infatti, tendono a superare e a trasgredire continuamente questi confini, a svelarli come artificiali e obsoleti. Le reti sostengono processi di scambio e di interrelazione che travalicano la dimensione della rappresentanza e della delega, mentre sollecitano la partecipazione, la discussione e il coinvolgimento diretto delle diverse comunità.

L’azione modellante delle forme tecno-culturali digitali, inoltre, delinea un’architettura socio-politica trasparente, in cui non solo e non tanto la comunità e i decisori sono reciprocamente visibili e l’una e gli altri nudi, difficilmente occultabili da filtri e barriere fisiche, sciolti nei flussi immateriali della comunicazione; la fenomenologia della società trasparente, in modo ancora più radicale, consente a ogni persona di scoprire/vedere la propria natura irriducibilmente politica, di di-mostrare a noi stessi l’animale politico che ci abita. Si tratta di una sensibilità che emerge, paradossalmente, proprio da terreni apparentemente impolitici, per esempio dal consumo produttivo e dal fare ludico stimolati dai video-giochi, che allenano lo spettatore a tradursi in attore, divertendolo e abituandolo a dare una forma al mondo (divertire nella natura feconda della propria polisemia: distrarsi e divergere, cambiare il senso del mondo). Questo è lo spirito che anima e informa la “comunicrazia” nascente, il suo fondante immaginario collettivo: dall’ironia dissipativa, dall’infinito intrattenimento, dalla densità simbolica delle fantasmagorie, dal fare e dall’essere-insieme senza scopo sorgono i tratti strutturanti del tempo nuovo.

Ogni medium porta con sé – non solo in quanto tecnica, ma soprattutto in seguito alla negoziazione e appropriazione sociale che lo informano – un paradigma relazionale e di potere, nonché un leader idealtipico. Se è vero, come è stato ben dimostrato da molteplici studi, che la nascita della democrazia si lega all’invenzione dell’alfabeto, così come la stampa sostiene la costituzione degli Stati-Nazione e la televisione cristallizza la conformazione delle democrazie rappresentative, come cambiano le forme di potere di fronte all’emersione dei nuovi media digitali, reticolari e on line? Le reti e gli immaginari che in esse si esprimono sostengono una riconfigurazione debole, orizzontale e decentrata del potere (o forse multi-centrata), in cui il cybernauta e le comunità nelle quali è immerso (il vero messaggio del medium) divengono le figure protagoniste del nuovo scenario sociale. Le reti portano a termine il processo di trasfigurazione del politico e rendono possibile nello spazio virtuale e reale il ritorno all’ordine della socialità immediata (un ordine con nuovi conflitti, nuove disarmonie, ma senz’altro diverso da ciò che è stato).

La rete costituisce il paradigma e la forma emblematica di quella che sarà la post-democrazia – la “comunicrazia” nascente (termine che non rinvia più, come “videocrazia” o “mediacrazia”, al mero potere strategico, dall’alto, degli apparati dell’industria culturale, bensì è in grado di focalizzare l’attenzione sulle tattiche e dinamiche sprigionate, dal basso, dalle soggettività che abitano l’altra parte dello schermo; che non si lega più all’astrazione del demos ma alla concretezza della communitas): un sistema che non ha più un centro e un confine spaziale predeterminato, ma che si genera transitoriamente a partire dall’attività delle periferie e sulla base delle connessioni, degli attraversamenti e dei molteplici nomadismi esperiti nei territori virtuali e reali. E’ la piattaforma che meglio consente la sinergia postmoderna tra il ritorno dell’arcaico e lo sviluppo tecnologico (M. Maffesoli), tra la risorgenza del sensibile e dell’emozionale e le nuove pratiche di intelligenza collettiva (P. Lévy), o meglio, come sostiene De Kerckhove, connettiva. Essa è uno strumento per eccellenza glocale, che tende a sintetizzare, sino a risolvere nella sua trama linguistica, il corto circuito tra i processi di mondializzazione e quelli di localizzazione. In definitiva, contribuisce a compiere il processo secondo cui si slitta dalla figura emblematica del Re a quella del Suddito.

La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte ha consentito al pubblico di avviare il lento e progressivo processo di invasione e ricreazione, secondo il proprio intimo sentire, dello spazio che la modernità ha dapprima inventato e quindi usato come luogo sacro ove dispiegare la propria legge, i propri codici culturali e l’ombra delle proprie istituzioni. In modo analogo, la riproducibilità digitale del politico tende a infrangere e a trasgredire la soglia che isola la piazza dal palazzo (Machiavelli), così come a superare il fragile dualismo evocato dallo schermo televisivo, che pone da una parte il cittadino-elettore e dall’altra il tele-leader: la realtà virtuale e la natura della rete non solo favoriscono una forme di esperienza “immersiva”, ancor di più invitano palesemente l’utente a produrre mondi, liberando la creatività e l’istinto politico di ogni persona.

Proprio dall’incrocio tra la trasfigurazione del politico, la riconfigurazione ambientale stimolata dall’onda elettro-culturale dei nuovi media e le invasioni dei nuovi barbari – dall’interno e dall’esterno della nostra cornice personale e comunitaria – probabilmente prenderà forma e corpo la postdemocrazia, che in questa sede proponiamo di definire “comunicrazia”. Tale formula ci libera dal disorientamento cognitivo apportato dal prefisso post – testimone della fine di un ordine dato e, contemporaneamente, sintomo dell’incapacità di decifrare il suo successore – sostituendolo con una radice in grado di illuminare le matrici sulle quali si fondano e orientano la politicizzazione della società dello spettacolo e la volontà di potenza dell’immaginario collettivo: le “comunità” vissute oltre il senso del luogo e la “comunicazione” nella loro inscindibile e sempre fondante interazione.

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