Nasce sull’Isola di Man la prima moto senza benzina destinata al mercato.
L’Isola di Man è una piccola proprietà britannica nel Mare di Irlanda. Nell’entroterra, una razza indigena di pecore caratterizzata da quattro corna pascola nei campi verdi. Sulla costa, i castelli toccano il mare. Gli abitanti hanno la loro lingua (sebbene morta), il loro denaro, le loro leggi e, con riferimento in particolare a questo articolo, nessun limite di velocità nazionale. Questa stranezza legislativa fa dell’Isola di Man il luogo naturale per ospitare uno dei rituali più cruenti che ha luogo ormai da un secolo ogni primavera: il Tourist Trophy. Il TT non è una gara motociclistica, bensì «la» gara motociclistica: la prima, la più famosa e in assoluto la più pericolosa.
è anche una festa: 40.000 motociclisti invadono l’isola decisi a far perdere il pelo dalla paura alle pecore, ruggendo lungo lo Snaefell Mountain Course, un tortuoso circuito di strade pubbliche chiuse per l’evento. Il circuito si arrampica dal livello del mare sino a quasi 450 metri, serpeggiando per quasi 60 km con circa 200 curve attraverso villaggi, paeselli e fattorie. Gran parte del circuito è delineato da muri a secco gremiti di spettatori intenti a bere le loro pinte di birra. Non c’è posto sicuro su cui schiantarsi. Ogni anno i piloti muoiono o rimangono menomati. Anche quest’anno il rito ha reclamato la sua vittima – la 226esima – di nome John Crellin, corridore motociclista.
Ma, come nei periodi di guerra, alla carneficina segue il progresso tecnologico. Soichiro Honda si presentò alla competizione nel 1959 avendo dichiarato cinque anni prima che era tempo di sfidare l’Occidente. E così, in meno di dieci anni, la sua casa conquistò il titolo mondiale dei costruttori in ogni classe: 50cc, 125cc, 250cc, 350cc e 500cc. Poco tempo dopo, persino l’industria motociclistica britannica stessa sarebbe stata vinta, spazzata da una cattiva amministrazione e dalla superiore tecnologia giapponese. Paradossalmente, gli stessi progressi tecnologici che avevano reso le motociclette così veloci avrebbero portato la Fédération Internationale de Motocyclisme (FIM), il governo di controllo dello sport, a rimuovere la competizione dall’albo ufficiale nel 1976, definendola troppo pericolosa. Pertanto oggi i professionisti non partecipano più alla gara. Ciononostante, la sanguinaria reputazione della gara rende il TT, se non altro, persino più prestigioso degli eventi organizzati dalla FIM. Per parteciparvi, usando le parole del leggendario Valentino Rossi, «ci vogliono i coglioni».
Quest’anno, il governo di Man ha aggiunto un evento anticipatore di sviluppi tecnologici futuri al programma di gare di giugno. Il TTXGP, acronimo di Tourist Trophy eXtreme Grand Prix, è stato dichiarato la prima gara motociclistica a emissioni zero. Sebbene qualunque tecnologia possa parteciparvi, di fatto emissioni zero significa elettrico. Persino la FIM si è fatta avanti, dichiarando il TTXGP la prima competizione TT a essere approvata dalla FIM negli ultimi 30 anni e la prima gara per� moto elettriche ufficialmente omologata. «Si tratterà del giorno più importante per i prossimi cento anni di motociclismo o di un totale fallimento», ha detto Aaron Frank, un redattore della rivista «Motorcyclist» che è giunto dal Milwaukee per assistere all’evento. «Ma in entrambi i casi, vale la pena assistere».
Con l’avvicinarsi del giorno fatidico, tutti gli spettatori sanno che il TTXGP sarà più lento della «vera» gara motociclistica, il TT, in quanto il TTXGP è una gara dall’energia limitata. Difatti, il «serbatoio» di una moto elettrica è minuscolo, pertanto la vittoria andrà al motociclista che meglio saprà gestire il consumo energetico. A differenza loro, i piloti con moto a benzina nel TT corrono «a tutto gas». In ogni caso, la densità energetica delle batterie è andata aumentando dell’8 per cento di anno in anno, il che significa che anche senza altre particolari innovazioni tecnologiche, le moto elettriche dovrebbero cominciare a tenere testa alle moto a benzina entro i prossimi 20 anni. Il TTXGP è stato pensato proprio per anticipare questo futuro. Il vincitore non sarà semplicemente il più veloce in una classe esoterica, ma anche il pilota di punta per una sfida ancora più grande: la creazione di una motocicletta elettrica che possa competere sul mercato motociclistico il cui valore ammonta a 50 miliardi di dollari. In sostanza, il TTXGP sarà il circuito da cui emergerà la nuova Honda.
I motori elettrici sono verdi
Ventidue moto elettriche si sono presentate per la gara. Se la maggior parte sono prodotti unici provenienti da università tecnologiche o da fanatici privati, tre dei partecipanti sono direttamente gestiti dai produttori Brammo, Mission Motors e MotoCzysz. Tutti e tre provengono dalla West Coast degli Stati Uniti. Brammo è di Ashland, nell’Oregon, Mission Motors di San Francisco e MotoCzysz di Portland.
E tutti e tre stanno per lanciare sul mercato una motocicletta elettrica. Brammo venderà la propria moto attraverso la catena americana Best Buy: si tratta di un modello semplice da 12.000 dollari con una velocità massima di 90 km orari. Per il TTXGP i tecnici Brammo hanno praticamente migliorato ogni componente del veicolo per ricavare due razzi da 160 km orari, entrambi iscritti alla gara. Le moto della Brammo sono veloci, leggere e agili ma vengono surclassate dalle concorrenti Mission e MotoCzysz: vere e proprie moto da corsa, cariche di batterie e capaci di raggiungere i 240 km orari di velocità. La motocicletta della Mission sarà in vendita a 69.000 dollari mentre quella della Motoczysz sarà in vendita per poco meno.
Mission e MotoCzysz stanno entrambe mirando al mercato delle superbike ed entrambe assicurano di mettere in vendita i propri prodotti entro il prossimo anno o due al massimo, ma qui si fermano le analogie.
Il giovane e carismatico amministratore delegato della Mission, Forrest North, è un maniaco del computer a cui piace speculare sulla futura progettazione del software: sogna un sistema di auto bilanciamento in stile «Segway» per il computer di controllo della motocicletta (per poi affrettarsi a dichiarare che Mission non sta lavorando ad alcuna applicazione del genere). Il fondatore di MotoCzysz, Michael Czysz, è un designer e la sua moto è tutta da guardare. Batterie a vista sporgono sui fianchi, con un design fresco che si ispira allo stile sportivo puro della famosissima Ducati Monster. Le batterie sono modulari e intercambiabili e la moto è «verde», spiega Czysz, «perché può migliorare nel tempo». Persino David Moll della Infield Capital, una delle compagnie finanziatrici che sostengono Mission Motors, è rimasto impressionato dal design delle batterie-motore. «Ho portato un mastino in questa arena, ma se quello che vedete non vi impressiona», volgendo lo sguardo verso la MotoCzysz, «allora c’è qualcosa in voi che non va».
Brammo, Mission e MotoCzysz competono direttamente per il capitale che è necessario, e in enormi quantità, per introdurre un nuovo veicolo sul mercato americano. Nella corsa ai finanziamenti Brammo ha il maggiore capitale di partenza: un investimento di 10 milioni di dollari, proveniente dai fondi di investimento di Best Buy e Chrysalix Energy Venture Capital, rispetto ai 2 milioni di dollari di capitale di avviamento della Mission. MotoCzysz è il fanalino di coda tra le tre, essendo una società finanziata principalmente dalle tasche di Michael Czysz. A differenza della Mission e della Brammo, che sperano entrambe di vincere il TTXGP per farsi pubblicità e ricevere quindi richieste di produzione, MotoCzysz «deve» vincere, o almeno piazzarsi, per poter attirare abbastanza finanziamenti per entrare nel mercato. La vittoria è a portata di tutti, ma come nella maggior parte degli sport motoristici, le scuderie che hanno accesso alle ampie tasche delle società di capitali sono solitamente le prime a superare il traguardo. Seguono i privati, i sognatori, i meccanici per passione che non dispongono di grandi capitali, ma ai quali non manca lo spirito competitivo.
è pertanto ancora più sorprendente che a una settimana dalla gara sia balzato alla ribalta un cavallo di razza, creando scompiglio tra i team più quotati. La moto più veloce nei preliminari del TTXGP – due giri di qualificazione attorno all’isola – è stata quella del Team Agni, un privato assolutamente sconosciuto. Milioni di dollari americani investiti nella ricerca e sviluppo finiscono con l’essere sorpassati da una moto costruita in India senza soldi.
Il team indiano: un singolare incontro di minimalismo ed eccentricità
Cedric Lynch e Arvind Rabadia compongono il team Agni e la loro tenda, pronta all’uso e grande appena tre metri per tre, è la più piccola nella pit area. Il loro kit è parimenti minimalista: un assortimento di attrezzi manuali, una lampada alogena e un paio di copie dell’ultimo numero di «Battery Vehicle Review» da distribuire ai visitatori curiosi. Il volumetto fotocopiato e rilegato a mano è il giornale della Battery Vehicle Society (BVS) britannica; la cover story, Living with the G-WIZ, è un’intervista al proprietario di un quadriciclo elettrico.
Nella loro tenda il giorno prima della grande gara, Lynch appoggia la lampada alogena calda su un contenitore di batterie in fibra di vetro realizzato a mano da Rabadia. L’odore tossico della resina di poliestere riempie l’aria. «Maledizione, Cedric!», esclama Rabadia dalla sua poltroncina da giardino. «Stai cercando di ucciderci?» Rabadia sfoggia una pettinatura Mohawk e un orecchino d’oro che gli conferiscono un’aria minacciosa. Lynch, al contrario, ha l’atteggiamento stralunato di qualcuno che ha trascorso gli ultimi vent’anni meditando in una grotta. è scalzo, con i capelli raccolti in una coda, e vestito di qualcosa appena più dignitoso di un paio di stracci; non è neppure comprensibile se stia ascoltando le esclamazioni di Rabadia. In questo momento, Lynch è piegato in due, intento ad applicare dei fori con un trapano manuale su una lastra di metallo che trattiene con i piedi. Sono una coppia davvero particolare: il pirata e l’indigente. «Io mi occupo delle relazioni mentre Cedric fa tutto il lavoro», dice Rabadia. «Rimproverarlo è il mio modo di calmarmi».
Al centro della tenda Agni sta la macchina che ha volato nei due giri di qualifica segnando il tempo da battere. Se i veicoli dei team ufficiali sembrano il futuro, quello del team Agni sembra il mostro di Frankenstein. La moto è una Suzuki GSX-R con un ammasso asimmetrico di batterie al litio incastrate laddove dovrebbero essere il serbatoio benzina e il motore. Una coppia di motori a corrente continua (DC), ciascuno rassomigliante a una pila di pancake, sono montati sporgenti dal telaio e trasmettono l’energia alla ruota posteriore con una catena. La progettazione è primitiva, la realizzazione inconsistente. L’intera moto sembra essere tenuta assieme da nastro adesivo e cavi tubolari. Al posto della strumentazione, il pilota legge le informazioni da un voltmetro giallo e ammaccato incastrato sul manubrio. Appena il serbatoio in fibra di carbonio è asciutto, la vernice viene spruzzata con una bomboletta spray e gli adesivi degli sponsor della Agni – principalmente Kokam, una azienda di batterie sudcoreana – vengono applicati così grossolanamente da farli svolazzare alla prima brezza. Ma ora il team Agni è pronto per l’evento.
L’aspetto trasandato della moto è motivo di orgoglio per Rabadia, in quella che è la sfida di classe tra i team industriali e i privati. «Pensavamo che saremmo stati gli ultimi», dice. La moto è stata messa insieme in appena sei settimane. «Avremmo potuto impiegare la metà di quel tempo», continua. «Avevo detto a Cedric “due settimane”, ma poi non sono rimasto nei paraggi a far schioccare la frusta». Per Lynch, l’aspetto orribile della moto non rispecchia la classe di appartenenza, bensì è il frutto della filosofia antimaterialista con cui è stata concepita. Quello che importa a Lynch è quanto sta al suo interno e nient’altro. In una motocicletta elettrica non c’è molto di più che l’impianto di batterie, i sistemi di controllo, i motori e il cablaggio che connette il tutto assieme. Ma, a differenza degli altri designer, che nascondono i loro circuiti dietro lastre di alluminio, Lynch sfoggia i propri cablaggi, posti sopra il contenitore principale delle batterie protetto da una lastra in Plexiglas, consentendo agli avversari di esaminare esattamente cosa alimenta il motore. Non c’è un solo microchip, per scelta consapevole. «Tutto quello che non c’è, non può rompersi», spiega Lynch, che anche nella vita fa uso dello stretto indispensabile. «è dannatamente semplice», aggiunge Rabadia. «Nessun trucco».
Team Agni sarà pure un concentrato di minimalismo e di eccentricità, ma ha dalla sua parte anche qualcosa di formidabile: più di 50 anni di esperienza. Lynch racconta di come iniziò a interessarsi all’elettricità. «Lasciai la scuola all’età di 12 anni perché non la potevo sopportare e rimasi a casa a leggere», racconta. «Principalmente trattati teorici e quel genere di cose». Per divertimento curiosava nell’officina del padre, uno degli ingegneri che aveva costruito il computer Colossus e decifrato i codici di guerra nazisti. Da giovane, Lynch fece carriera partecipando a gare per vetture elettriche. La prima fu nel 1979, quando la sua povertà non si dimostrò affatto uno svantaggio. «I motori DC erano estremamente costosi allora, così costruii un mio motore partendo da un barattolo di latta». Lynch arrivò secondo, dimostrando che il suo barattolo era più efficiente dei motori assemblati dalle aziende industriali. Negli anni 1980 e 1990 arrivò a dominare nelle gare della Battery Vehicle Society. «Abbiamo vinto nella maggior parte delle gare alle quali abbiamo partecipato», dice. «è stato divertente». Ai tempi della BVS, Rabadia era il discepolo di Lynch, ma ora è Lynch a lavorare per Rabadia. Quest’ultimo ha dato vita ad Agni in India per vendere il design del suo mentore: il cosiddetto motore pancake. Ha portato Lynch al TTXGP «perché il nostro motore è il migliore e dobbiamo ottenere il rispetto che meritiamo.»
A volte basta un semplice errore di calcolo
Nel frattempo, nel lato opposto dell’isola, il team MotoCzysz ha affittato un piccolo percorso di prova per ricavare dei dati sulle loro prestazioni all’ultimo minuto. Le cose non sembrano andare per il meglio per la moto più bella a vedersi. Nel primo giro di qualifica intorno all’isola, MotoCysz ha perso due dei suoi tre motori e, nel secondo, il pilota ha dovuto attraversare il traguardo usando l’energia umana, zampettando con i piedi come un’anatra. «Umiliante», ammette Czysz, «ma semplicemente un errore di calcolo».
Come la moto di Agni, anche questa non ha alcun software, nessun computer di monitoraggio, nessun contachilometri. Questa moto è sufficientemente intelligente per sapere quanta energia gli rimane, ma l’indicatore di carica, in pratica l’equivalente dell’indicatore del livello della benzina, doveva essere ancora calibrato. Per accertarsi che la moto abbia energia a sufficienza per la corsa, il pilota ha bisogno di sapere quanto rimane nel «serbatoio». E senza un dinamometro, l’unico modo per ottenere le informazioni per la calibrazione è girare in tondo con la moto per qualche miglio e collegarla poi a un multimetro digitale. Czysz fa del suo meglio per spiegarci la situazione mentre sale in sella. Con indosso la tuta in pelle, una pettinatura alla moda e occhiali di marca, sembra il Derek-Zoolander delle corse su vetture elettriche. Parla persino con una opacità zoolanderiana: «Gli altri team hanno sistemi telemetrici», dice con tono fiero. «Noi ci affidiamo al pilota».
Adrian Hawkins, ingegnere capo della MotoCzysz, mostra con imbarazzo il suo cronometro e il block notes. «Il nostro sistema di acquisizione», dice.
Giusto prima di pranzo, l’organizzatore del percorso – un tipo in vena di scherzi – suggerisce a Czysz che le miglia imperiali sono differenti da quelle statunitensi. Czysz si gira verso Hawkins e chiede quanto sia lungo ogni singolo giro.
«Un miglio e mezzo», risponde Hawkins.
«Miglia britanniche o statunitensi?», domanda Czysz.
Hawkins è confuso: miglia britanniche o statunitensi?
«Miglia britanniche o statunitensi!», ribadisce con più vigore Czysz. Czysz è famoso per la sua abitudine a gridare, e il tono della sua voce va crescendo.
«Miglia statunitensi», balbetta Hawkins, spiegando cortesemente a Czysz che l’unità di misura rimane invariata tra i paesi.
Una voce proveniente dal piccolo gruppo di curiosi che si è formato salva Hawkins, informando Czysz dell’esistenza di un gallone imperiale e di uno statunitense e che probabilmente quella è l’origine della confusione.
«Allora sono i galloni a essere differenti?», dice Czysz senza rivolgersi a nessuno in particolare, «Okay, non lo sapevo». E, detto questo, se ne va.
Spesso un guasto ha cause concomitanti
Alla Mission hanno problemi ancora più gravi. Come per la MotoCzysz, la loro moto ha ultimato uno dei giri di qualifica e ha riportato una avaria nel seguente, ma il team non ha idea di quale sia stata la causa del guasto. è la notte prima della grande gara, quella che conta; la moto è rotta, e l’unica cosa che alla Mission sanno è quanto gli viene descritto dal pilota Tom Montano. La moto andava davvero bene, persino veloce, dice. Stava sorpassando concorrenti a destra e a manca quando il mezzo ha ceduto. «L’unico paragone che mi viene in mente», dice Montano, «è quando una moto a benzina comincia ad ansimare e poi si blocca».
Sentendo le parole di Montano, Jon Wagner, il responsabile della tecnologia di Mission, si mette carponi e apre l’impianto di alimentazione della moto che si trova sul fondo del telaio della moto, appena oltre la forcella. «Ho il brutto presentimento che ci troviamo di fronte a un motore grippato», dice Wagner. Piazzando le due sonde di un multimetro digitale all’interno del motore, misura la resistenza interna in tre punti: .018 ohm per il primo e .021 per gli altri due. Le misurazioni indicano un corto circuito in uno dei tre avvolgimenti. «Potremmo essere costretti a smontare tutto e risaldare le bobine», conclude.
Wagner ha trovato il guasto, ma ciò non basta a spiegare perché di fatto il motore abbia ceduto. Alla Mission facevano affidamento sul loro software appositamente progettato per avere una marcia in più rispetto agli altri, ma lasciamo perdere le fantasie come la «modalità Segway»: la moto della Mission non è stata in grado di interrompere la corrente al motore surriscaldato. Oltretutto, quando Ray Shan, il tecnico adibito all’acquisizione dati, scarica dalla moto i dati registrati nel corso dei giri di qualificazione, scopre che sarebbe andato tutto meglio se non avessero adoperato un computer da gara. «Avevamo percorso il 31 per cento del percorso quando la moto ha avuto l’avaria», dice incredulo Shan, «consumando però il 40 per cento della nostra energia complessiva». Il che significa che, anche se la moto non si fosse rotta, avrebbero terminato la corsa prima della fine del giro di qualificazione.
è Seth LaForge, capo ingegnere del software, che un tempo lavorava per Google, a connettere i tasselli del mosaico. E se il software caricato sul computer di bordo non fosse stato aggiornato dopo il montaggio della corona di maggiori dimensioni sulla ruota posteriore? In quel caso la moto avrebbe viaggiato a una velocità superiore rispetto a quella indicata dal tachimetro: questo spiegherebbe perché Montano ha parlato di continui sorpassi.
Per provare la teoria di LaForge, Shan ricalcola la velocità della moto estrapolando i valori dal tachimetro. Siccome le moto elettriche non dispongono generalmente di un cambio, il rapporto tra la velocità del rotore e quella effettiva del mezzo è fisso. La revisione dei dati della velocità indica che la moto stava sfrecciando a 160 km orari per i primi 11 km del percorso: indubbiamente una velocità che trangugia energia. Ma perché allora la moto non si è semplicemente fermata prima della fine, proprio come la moto di MotoCzysz? Perché invece ha fuso? La risposta viene data da Shan sovraimponendo i dati corretti della velocità alla mappa di efficienza del motore. «160 km orari è giusto ai limiti del grafico», dice LaForge sbigottito. La moto era al limite sin dall’inizio e ha continuato a scaricare energia sotto forma di calore. Un errore nel settaggio del software stava sovraccaricando di elettricità il motore. La moto si è semplicemente fusa da sola.
LaForge dovrebbe essere considerato ora un eroe per aver scoperto la causa del guasto, se non fosse che è stata proprio la sua calibrazione del software a non avere tenuto conto della corona maggiorata. Il team ha lavorato tutta la notte per sostituire il motore.
La sensazione di toccare la luna con un dito
Venerdì, il giorno della gara, gli spettatori alla linea di partenza e al traguardo sono in uno stato euforico. Sono venuti all’Isola di Man per assistere nel pomeriggio al TT originale, la «vera» gara, dove i ragazzi più «dotati» (come direbbe Valentino Rossi) sfrecciano sulle loro moto fino a toccare i 290 km orari. Sebbene le moto più veloci del TTXGP siano capaci di raggiungere i 240 km orari, non sono in grado di sostenere quel ritmo per l’intera corsa, perché persino le batterie più grandi e pesanti sul campo – quelle della Mission e della Czysz – hanno una energia pari a un solo quarto di gallone di benzina nel loro serbatoio. I piloti di veicoli elettrici devono moderare attentamente la manopola del gas per risparmiare energia. Per i sostenitori del TT tradizionale, ciò fa della gara per moto «verdi» poco più di un semplice intrattenimento per la mattinata. Tra la folla alcune voci ironizzano:
«Dunque non c’è più l’area per scaldarsi, giusto?»
«Suppongo non abbia più senso dire “Signori, accendete i vostri motori!”»
«Avranno bisogno di prolunghe molto lunghe per questo percorso».
Ecco quindi che allo sventolare della bandiera verde le moto elettriche partono, senza alcuna prolunga nei paraggi. I motori iniziano a girare, spingendo le moto con un crescente ronzio fino a quando si stabilizza la velocità. Sono talmente silenziose che alcuni spettatori accampati ai bordi della strada neanche si accorgono del loro imminente arrivo fino a quando non sono già passate.
Lo spettacolo è assicurato, specialmente quando alcune moto cominciano a sputare pezzi, stremate dallo sforzo. MotoCzysz è la prima vittima: due dei suoi tre motori a corrente continua raffreddati ad aria si disintegrano, scagliando pezzi di metallo attraverso l’impianto di raffreddamento. La moto, quasi per uno scherzo della sorte, si arresta di fronte alla chiesa più vecchia dell’isola, St. Runius. Alla linea di partenza, Michael Czysz realizza di aver perso tutto quando la radio annuncia che al primo checkpoint la sua moto manca all’appello. «Ecco fatto, questa è l’ultima, adesso è finita», dice con un tono sommesso, realizzando la sconfitta. Una delle due moto potenziate della Brammo è la prossima a cedere, vittima di un dosso preso 160 km orari che ha leggermente sollevato da terra la ruota posteriore. Improvvisamente libera dalla morsa del suolo, la ruota gira più veloce, mandando il motore su di giri e portando il sensore di bloccaggio a fare quello per cui è stato programmato: togliere potenza per preservare il motore. La moto riesce ad arrivare a un miglio dal traguardo prima di esalare l’ultimo respiro.
I piloti restanti sfrecciano oltre, con le catene che ticchettano furiosamente, diretti verso il prossimo checkpoint, l’autovelox di Sulby. Un team privato proveniente dalla Germania, XXL, spreme la propria moto per far rilevare la velocità più elevata tra i partecipanti: 171,4 km orari. L’ingegnere di XXL, Marko Werner, che parla inglese, ride per la reazione stupita della folla. «è stato facile», dice Werner. Non ci sono state veglie notturne o giri di prova all’ultimo minuto per lui e il suo team, perché, anziché cercare di reinventare la ruota elettrica, XXL ha investito il proprio tempo e denaro – quattro mesi e 35.000 euro – per raccogliere il maggior numero possibile di componenti affidabili in circolazione: un motore raffreddato ad acqua e un controller concepito per una auto ibrida di 10 anni, la Audi A4 Duo. «Siemens ha fatto tutto il “lavoro”», mi confida Werner.
La gara però non viene vinta dalla velocità di punta perchè è la velocità media più elevata a contare. E Agni è la prima classificata, con un tempo di giro di 25 minuti, 53,5 secondi. Un grido parte tra gli spettatori: «Ha vinto l’India!» Tre minuti dietro Agni, al secondo posto, arriva XXL. La moto ancora buona del team Brammo si aggiudica il terzo posto, ed è l’unica moto ufficiale a salire sul podio. La Mission arriva quarta, mentre MotoCzysz e la seconda moto Brammo non hanno completato la gara.
Se il TTXGP fosse stata una battaglia dove la vittoria fosse dipesa dai finanziamenti militari maggiori, avrebbe vinto Brammo. Se si fosse trattato di una sfilata di bellezza, MotoCzysz avrebbe conquistato la coroncina e la fascia. Se fosse stata una partita a scacchi, Mission avrebbe vinto. Ma alla fine, l’affidabilità ha sorpassato tutti. Agni ha vinto il TTXGP affidandosi alla semplicità: XXL e Mission hanno fatto uso di motori a corrente alternata raffreddati a liquido, più potenti ma anche più complessi. Ma la seconda classificata XXL ha optato per la progettazione collaudata e affidabile di Audi, mentre Mission si è cimentata in un impianto di alimentazione tutto suo. L’esperienza della Brammo è la più significativa di tutte: l’unico guasto fatale è stato causato dall’installazione all’ultimo minuto di una batteria supplementare.
All’ingresso silenzioso delle moto Agni, XXL e Brammo nell’area dei vincitori, rispettivamente al primo, secondo e terzo posto, assisto ai festeggiamenti sfrenati dei rispettivi team: i piloti ricoperti di corone di alloro gridano «Motoguru» rivolgendosi a Cedric Lynch, che dichiara di essere «felicissimo» del risultato ai giornalisti televisivi. Gigantesche bottiglie di champagne vengono stappate e spruzzate addosso alla folla. L’organizzatore del TTXGP Azhar Hussain brinda al team Agni con un discorso: «Oggi, una società nuova e senza fama né fondi si è presentata e ha vinto». L’ambasciatore dell’India nel Regno Unito si congratula personalmente con il team Agni. Arvind Rabadia lo riceve indossando la bandiera nazionale indiana come fosse un mantello da super eroe. «Primo nelle qualifiche, primo nella gara», si vanta, con il Chakra Ashoka ricamato sulla sua bandiera che assume l’aspetto di una ruota di motocicletta. «Sono sulla luna!»
Lynch vede la corsa differentemente, come tutto il resto. Secondo lui, non ha battuto i suoi rivali. Semmai, li ha guidati, aggiudicandosi una vittoria nella tenace lotta contro i motori a combustione interna. «Posso solo immaginare», rimugina tra sé e sé Lynch, «cosa avrebbero detto i patiti dei motori a benzina se non avessimo battuto il record su giro per moto di 50cc stabilito nel 1966 da Ralph Bryans su una moto Honda».