Una forza trasformatrice: la luce digitale

In un nuovo libro del co-fondatore della Pixar Alvy Ray Smith, viene contestualizzato ed esaltato il ruolo giocato dal pixel nell’innovazione della computer grafica.

di Chris Turner

Lo scienziato informatico Alvy Ray Smith ha co-fondato la divisione di computer grafica di Lucasfilm e i Pixar Animation Studios. Solo per questi risultati, è uno dei più importanti innovatori tecnologici nel cinema almeno dalla fine della seconda guerra mondiale. Ma Smith non è un ragazzo di Hollywood, e nel suo nuovo libro A Biography of the Pixel l’unica celebrità di punta che appare nella storia con una certa frequenza è George Lucas.

Smith non è interessato alla fama. Sta inseguendo tematiche più profonde e la sua idea è che l’invenzione e lo sviluppo della computer grafica sia molto più importante di qualsiasi cosa mai successa a Hollywood. Smith fa parte di quella generazione di ingegneri e programmatori che ha visto l’era digitale sorgere dalle paludi dei progetti militari segreti e del programma spaziale per conquistare il mondo.

Nel suo libro, l’obiettivo è definire chiaramente le traiettorie di due importanti storie intrecciate. La prima è lo sviluppo delle immagini del computer, dall’origine all’ubiquità digitale. Ci sono, nel racconto di Smith, molti nomi, luoghi e scoperte di cui finora si è parlato poco. La seconda, che si svolge in parallelo, riguarda l’impatto di quelle immagini, una forza trasformativa che Smith chiama “luce digitale”.

A suo parere, questa forza è tra le più importanti innovazioni nella comunicazione umana da quando le prime semplici rappresentazioni della vita quotidiana sono state incise sulle pareti delle caverne.

L’umile pixel

Come Smith dimostra ripetutamente, è stato concesso fin troppo credito alla presunta magia dei singoli ingegni. La realtà è una storia torbida e sovrapposta di gruppi di inventori, che lavorano a volte in competizione e altre insieme, spesso in balia di notevoli pressioni commerciali o politiche.

Thomas Edison e i fratelli francesi Lumière, per esempio, furono grandi promotori e sfruttatori della prima tecnologia cinematografica. Entrambi esibirono sistemi completi intorno al 1895 e ne rivendicarono il merito, ma nessuno dei due costruì da solo il primo set completo di fotocamera, pellicola e proiettore. La vera risposta alla domanda su chi ha inventato i film, scrive Smith, è un intreccio competitivo, con parti del sistema sviluppate da ex collaboratori di Edison e altre ideate da una manciata di inventori francesi che hanno lavorato con i Lumière.

Tra le figure cruciali relegate nella pattumiera della storia ci sono William Kennedy Laurie Dickson (uno strano aristocratico europeo che progettò e costruì la prima cinepresa per Edison) e Georges Demenÿ (il cui design fu copiato dai Lumière senza riconoscimenti nei confronti dell’autore). Smith si sofferma forse troppo su queste contorte storie relative alle origini – ci sono intrecci simili in ogni passaggio importante dello sviluppo di computer e grafica – ma il suo impegno per mettere in chiaro il percorso storico è ammirevole.

Il limite principale di tutta questa attenzione all’ego e alle carenze etiche di diverse generazioni di uomini “forti” è che a volte distrae l’attenzione di Smith dal suo tema più ampio, vale a dire il cambiamento epocale del modo di vivere delle persone introdotto dall’affermarsi della luce digitale.

Nella definizione più semplice di Smith, la luce digitale è “qualsiasi immagine composta da pixel”. Ma questa definizione tecnica sottovaluta l’intera portata del “nuovo regno dell’immaginazione” che è stato creato dalla sua ascesa. Il regno comprende i film della Pixar, ma anche i videogiochi, le app per smartphone, i sistemi operativi per laptop, le GIF stupide scambiate tramite i social media, le immagini MRI esaminate dagli oncologi, i touch screen del negozio di alimentari locale e i modelli digitali utilizzati per pianifica missioni su Marte che poi rimandano ancora più luce digitale sotto forma di immagini sbalorditive della superficie del Pianeta Rosso.

La svolta tecnologica che ha reso possibile tutto ciò è, come suggerisce il titolo di Smith, l’umile pixel. La parola stessa è un neologismo per definire l’unità minima di un’immagine. Abbastanza semplice in apparenza. Ma il pixel è stato mal caratterizzato nell’uso popolare in quanto à stato legato a blocchi di immagini digitali sfocate. Smith vuole farci capire che è, piuttosto, l’elemento costitutivo di tutta la luce digitale, un pezzo di tecnologia dell’informazione incredibilmente varia e replicabile all’infinito che ha letteralmente cambiato il modo in cui vediamo il mondo.

L’equivoco inizia, spiega Smith, con il fatto che un pixel non è squadrato e non è disposto accanto ad altri pixel su una griglia ordinata. I pixel possono essere visualizzati sui display in quanto tali, ma il pixel stesso è “un campione di un campo visivo che è stato digitalizzato in bit”. La distinzione potrebbe sembrare esoterica, ma è cruciale per l’argomento di Smith a sostegno dell’impatto rivoluzionario del pixel, vale a dire di un’informazione memorizzata che qualsiasi dispositivo può visualizzare come luce digitale.

E questa operazione è possibile perché i pixel non sono approssimazioni, ma campioni accuratamente calibrati di un campo visivo, che è stato tradotto per usi digitali in una raccolta di onde sovrapposte. Questi pixel, scrive Smith, non sono tanto riduzioni del campo visivo quanto “un riconfezionamento estremamente intelligente dell’infinito”.

La nuova ondata

Il processo attraverso il quale un pixel genera la luce digitale, sia sotto forma di parole su uno schermo o un’icona su uno smartphone o un film Pixar sul grande schermo, si basa su tre scoperte matematiche che precedono il computer moderno. La prima di queste è stata realizzata da Jean Joseph Fourier, un aristocratico francese e governatore regionale sotto Napoleone all’inizio del 1800.

Fourier ha avuto l’intuizione fondamentale che non solo il suono, ma il calore e tutto ciò che vediamo e molto altro potrebbe essere descritto come la somma di una serie di onde, che rappresentano varie frequenze e ampiezze. O, come dice Smith più poeticamente: “Il mondo è un’onda musicale”.

Più di un secolo dopo, un ingegnere sovietico di nome Vladimir Kotelnikov ha costruito sul principio dell’onda di Fourier il secondo elemento cruciale per creare la luce digitale: il “teorema del campionamento”. Kotelnikov ha dimostrato che un segnale, sia esso un brano musicale o una scena visiva, può essere catturato scattando istantanee (“campioni”) a determinati intervalli.

Se si prende un numero sufficiente di campioni di alcuni aspetti di un campo visivo, per esempio la sua gradazione di colore o gli spostamenti dal primo piano allo sfondo, è possibile ricostituire l’intera informazione. Anche se agli informatici americani viene insegnato che il teorema del campionamento è stato ideato da Harry Nyquist e Claude Shannon, Smith ricorda che “il principio fu enunciato per la prima volta in modo chiaro e completo da Kotelnikov nel 1933″.

Il terzo elemento che ha reso possibile la luce digitale è il più noto ed è stato sviluppato di recente: l’articolo del 1936 di Alan Turing che delinea la macchina informatica universale, la cui grande innovazione è stata la capacità di eseguire qualsiasi processo sistematico purché dotato del giusto insieme di istruzioni di accompagnamento (che ora chiamiamo software). La macchina di Turing, la base del computer moderno, può essere programmata per comprendere il processo mediante il quale le onde di Fourier sono state campionate dal teorema di Kotelnikov, per riprodurle su qualsiasi altra macchina di Turing.

La luce digitale da sola, però, era una forza limitata. Le sue prime manifestazioni erano semplici pittogrammi sulla parete digitale della caverna di uno schermo TV. Nel dicembre del1951, per esempio, il computer Whirlwind del MIT mostrava una serie di punti bianchi su uno schermo nero per il programma della CBS See It Now, ospitato da Edward R. Murrow. I puntini scandivano “Ciao Mr. Murrow”, svanendo lentamente e poi riaccendendosi, come in un lavagna magica. Intelligente, persino meraviglioso per l’epoca, ma non lo sconvolgimento di cui parla Smith. Per questo, la luce digitale aveva bisogno di un elemento in più: una velocità inimmaginabile.

La computer grafica, spiega Smith, sono solo elenchi follemente lunghi di numeri che corrispondono a coordinate grafiche – ora pixel, ma migliaia e migliaia di minuscoli triangoli ad incastro all’inizio – assemblati nello spazio digitale nella forma tridimensionale di un personaggio di un cartone animato Pixar o altro. (La prima grafica computerizzata 3D assemblata da questi triangoli era, notoriamente, una teiera).

La grande convergenza digitale

Meraviglie come l’animazione 3D, tuttavia, non sono state possibili fino a quando la potenza di elaborazione del computer non è esplosa. Smith racconta la successiva trasformazione con un coinvolgente mix di dettagli tecnici e ricordi personali. Diverse generazioni di matematici, programmatori e topi da laboratorio hanno contribuito allo sviluppo della computer grafica, costruendo nuovi strumenti e macchine poiché la legge di Moore ha rapidamente reso più facile trasformare le onde di Fourier e i campioni di Kotelnikov in forme geometriche, immagini semplici e movimento di base su uno schermo.

Disney, Lucasfilm e la Stanford University ovviamente sono presenti, ma anche la NASA, la General Motors e la Boeing (che hanno aperto la strada alla progettazione industriale assistita da computer), così come siti meno noti di geni della computer grafica come l’Università dello Utah e il New York Institute of Technology (NYIT).

La transizione di Smith dai semplici pixel ai film digitali è iniziata al NYIT nei primi anni 1970, dove ha contribuito a creare uno dei primi laboratori di computer grafica al mondo, insieme a molti altri cofondatori della Pixar, prima di passare a presentare la tecnologia a Lucasfilm. (Ha lavorato alla primissima sequenza animata al computer prodotta da Lucasfilm, una sequenza di effetti speciali per il film Star Trek II: L’ira di Khan).

Smith voleva che questi strumenti fossero usati per creare una grande arte, per dare forma al genio creativo delle menti di tutto il mondo. La Pixar ha raggiunto questo obiettivo con l’uscita del 1995 di Toy Story, il primo lungometraggio completamente animato al computer. E non molto tempo dopo, è stato raggiunto un risultato ancora più importante: quella che Smith chiama “la Grande Convergenza Digitale”. “Tutti i tipi di media convergevano in uno: il mezzo digitale universale, il bit”.

Leggendo il resoconto di Smith su questa convergenza, mi sono ritrovato a pensare a una famosa citazione attribuita allo scrittore e regista francese Jean Cocteau. “Il cinema diventerà un’arte”, disse Cocteau, “quando i suoi materiali saranno economici come carta e matita”. Questo, in parte, è ciò a cui mira Smith quando ci chiede di guardare con rispetto al potere del pixel. Questo ricordo mi ha inesorabilmente portato a pensare allo storico Steamed Hams.

Per chi non lo sapesse, Steamed Hams è nato come una breve vignetta in un episodio della settima stagione dei Simpson, “22 Short Films About Springfield”, trasmesso per la prima volta nel 1996: il ridicolo preside della scuola elementare Skinner ospita il suo capo, il sovrintendente Chalmers, per un pranzo a casa sua. I due minuti e 42 secondi della vignetta si traducono in una serie crescente di disastri, portando Skinner a sgattaiolare dalla cucina per andare al Krusty Burger e poi rivendicare il pasto comprato al fast food come suo.

È un piccolo frammento sciocco di un insolito episodio dei Simpson, e non ha ricevuto particolare attenzione fino a quando la Grande Convergenza Digitale non ha messo gli strumenti del cinema digitale nelle mani di chiunque avesse un computer e una connessione Internet. E poi quello che è successo è sia facile da spiegare che difficile da comprendere appieno. Le persone hanno iniziato a creare contenuti.

La forza creativa scatenata

La fortuna di Steamed Hams sembra essere stata una breve clip della vignetta, riprodotta utilizzando un’app text-to-movie e pubblicata su YouTube nel marzo 2010. Negli anni da allora, come gli strumenti digitali per produrre e diffondere brevi video migliorati alla velocità vertiginosa della legge di Moore, la clip si è metastatizzata selvaggiamente.

Se mi chiedessero di tenere un corso di arte postmoderna, considererei Streamed Hams come un esempio distintivo della sbalorditiva forza creativa liberata dalla Grande Convergenza Digitale. Grazie a strumenti non molto più difficili da ottenere di una penna e una matita, Internet ora ospita una serie infinita di riff fantasiosi: GIF e clip, supercut e mashup, reboot e remix. Un intero mondo di creatori occasionali che realizzano filmati digitali, utilizzando strumenti nuovi di zecca che sono già diventati così comuni che a malapena li notiamo. 

Il mondo dell’onnipresente creazione cinematografica di Cocteau, cioè, potrebbe benissimo essere qui. Questo è ciò verso cui Alvy Ray Smith stava lavorando da mezzo secolo alla ricerca del primo film digitale. Ora il momento è arrivato: siamo tutti autori.

Chris Turner è autore e saggista. Il suo libro più recente è The Patch: The People, Pipelines, and Politics of the Oilsands.

(rp)

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