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Si aprono nuove prospettive nella comprensione della schizofrenia, patologia altamente invalidante che colpisce circa 500.000 persone in Italia

Il Brain Center for Motor and Social Cognition dell’Istituto Italiano di Tecnologia e Università degli Studi di Parma (IIT@UniPr), il Gruppo di Neuroscienze Psichiatriche del Dipartimento di Neuroscienze e Organi di Senso e l’Unità di Medicina Nucleare dell’Università di Bari e il Dipartimento di Radiologia di Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo sono autori di un importante studio pubblicato su Schizophrenia Bulletin, edito dalla Oxford University Press dal titolo “DRD2 Genotype-Based Variation of DefaultMode Network Activity and of Its Relationship with Striatal DAT Binding”.

Questa ricerca rappresenta un esempio di eccellenza nazionale, ed è il risultato dell’operato congiunto del dott. Fabio Sambataro di IIT@UniPr e del prof. Alessandro Bertolino dell’Università di Bari con il suo gruppo ricerca.

Avvalendosi delle più recenti tecniche di neuroimmagine funzionale, utilizzate per identificare le specifiche aree del cervello che vengono attivate quando un soggetto compie un determinato compito, al fine di analizzare la relazione tra la loro attività e le funzioni alle quali sottendono, il gruppo di studio ha potuto identificare in che modo la diversa concentrazione dei recettori D2

presenti nel Corpo Striato del cervello influenza l’attività del Default Mode Network (DMN), circuito fortemente implicato in gravi stati patologici, quali la schizofrenia. Lo studio è stato realizzato su soggetti normali, ma con delle varianti genetiche che determinavano una diversa quantità di recettori D2, quindi una variazione degli effetti dati dalla quantità che il neurotrasmettitore dopamina può esercitare legandosi a loro. Infatti, l’attività del DMN viene regolata dall’azione di questo neurotrasmettitore sui recettori D2 presenti nel Corpo Striato del cervello.

Il DMN e il Task Positive Network (TPN) sono due dei circuiti maggiormente implicati nella mediazione di alcune funzioni cognitive. In particolare, il Task Positive Network entra in funzione nel momento in cui il cervello è deputato all’azione e, quindi, è orientato verso il mondo esterno. Al contrario, il Default Mode Network si attiva nel momento in cui il cervello è in una fase di

introspezione o di pensiero autoreferenziale, ad esempio come nel sogno ad occhi aperti o nella fase di elaborazione di piani, progetti e azioni. La possibilità per il cervello di eseguire questo passaggio è di fondamentale importanza e, quando ciò non avviene, si manifestano difficoltà di esecuzione di compiti cognitivi che sono comuni a diverse gravi malattie mentali, tra cui la schizofrenia.

Questo studio ha permesso di determinare un possibile meccanismo neurale alla base del funzionamento dei farmaci antipsicotici. Questi farmaci esercitano la loro funzione terapeutica proprio diminuendo l’attività dei recettori D2, bloccando quindi l’effetto della dopamina su di essi.

La riduzione di attività di questo neurotrasmettitore modulerebbe l’attività del DMN e la sua interazione con gli altri circuiti cerebrali del corpo striato e del TPN. Questi effetti potrebbero spiegare l’effetto dei farmaci antipsicotici usati nelle malattie mentali gravi, tra cui la schizofrenia.

«La Schizofrenia è una patologia grave che, in Italia, ha un’incidenza dell’1% e colpisce, quindi, circa 500.000 persone – afferma il dott. Fabio Sambataro – Questo disturbo risulta essere altamente invalidante, in quanto limita fortemente sia la sfera sociale sia la sfera lavorativa di chi ne è affetto. Ad oggi, non esiste una cura specifica per questa patologia, e l’unica possibile terapia

consiste nella somministrazione di farmaci antipsicotici possibile allo scopo di alleviarne i sintomi.

Capire che delle variazioni genetiche fisiologiche della concentrazione dei recettori D2 possono influenzare due circuiti importanti nella manifestazione di una malattia così grave è un fondamentale passo avanti per poter sviluppare nuovi farmaci altamente innovativi per la sua cura».

«Più in generale – afferma il Prof. Alessandro Bertolino – l’importanza di questo studio risiede nella dimostrazione di come piccole variazioni genetiche possono modificare il funzionamento cerebrale conferendo un incrementato rischio di patologie psichiatriche. Ormai, la psichiatria moderna ha allargato notevolmente le proprie conoscenze e sta ponendo le basi per una migliore comprensione dell’eziologia e conseguentemente del trattamento dei disturbi del cervello.»