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Per quanto il titolo sembri un ossimoro, la rivoluzione digitale può e deve coniugarsi con la matrice umanistica della nostra civiltà, allo scopo di rimuovere le criticità di entrambe, valorizzandone ogni possibile sinergia e proiettandole verso scenari confluenti e condivisi.

di Angelo Luvison

Per molti di noi, la vita, nel bene e nel male, sta inesorabilmente passando da offline a online. Pensiamo alle reti e alle nuove forme di relazione o comunicazione, al telelavoro, alla didattica a distanza, al trading online, alle valute virtuali: la tecnoscienza sta trasformando radicalmente economia, cultura, società, relazioni internazionali (sì, mettiamoci pure, benché obtorto collo, le guerre) nelle forme già note, creandone di affatto nuove, al momento imprevedibili, ma auspicabilmente governabili.

Gli effetti culturali di questa rivoluzione al tempo stesso del pensare, del dire e del fare si vedono nell’ecosistema digitale, nell’infosfera (termine coniato da Alvin Toffler e ripreso da Luciano Floridi) e in quello che potremmo definire come un inedito “umanesimo digitale”.

Siamo dunque nel pieno di una grande trasformazione culturale: la tecnologia digitale modifica il modo in cui operano i consumatori, i commercianti, i produttori. Di conseguenza, molte organizzazioni hanno iniziato a formare la forza lavoro esistente per soddisfare le nuove esigenze organizzative e culturali che ne conseguono.

La formazione – in ogni sua accezione – è senza dubbio un prerequisito necessario, benché non sufficiente, per realizzare in maniera costruttiva e concreta la concezione sottesa alla visione dell’umanesimo digitale. Per affrontare il nuovo che viene senza rinunciare alla propria identità e alla memoria di una tradizione, talvolta ingombrante, ma non meno rassicurante e sollecitante.

Mi riferisco alla necessità di una formazione (intesa, a seconda dei casi, come educazione, istruzione, preparazione, acculturazione, curriculum, ecc.) a tutto campo, tanto specialistica e approfondita nei settori di competenza quanto trasversale, per operare in un mondo sempre più complesso e interconnesso.

«Per me l’uomo colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma quello che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve, e in due minuti», diceva Umberto Eco. Wikipedia, Google, in tal senso, sono perfetti (se sei sufficientemente “colto”), nonostante siano inevitabili la dispersione dell’attenzione e un proliferare di fonti di scarso valore sul Web.

La difficoltà sta proprio nel conseguire un punto di equilibrio tra orizzontalità e verticalità. È da notare che nello scenario nordamericano, e più recentemente anche in quello italiano, le contaminazioni tra le cosiddette liberal arts o humanities (scienze umanistiche), proprie degli studi di matrice filosofico-letteraria, e gli insegnamenti basati su discipline scientifiche di ambito STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics) sono aumentate.

Si pensi, per esempio, alle reti, che costituiscono un attualissimo esempio di tema interdisciplinare; infatti, a seconda della tipologia, possono essere classificate in: elettriche, di trasporto, di telecomunicazioni, relazionali e sociali, biologiche, neurali, epidemiologiche ecc.

Purtroppo il settore STEM, benché (o forse proprio per questo) produttore di conoscenze concrete, utili e reali, è ancora considerato un sapere “minore” da una parte influente della élite culturale italiana. Viceversa, solo ponti fra le due culture – tecnoscienza e humanities –possono consentire di superare la frammentarietà che finora le ha caratterizzate.

Negli Stati Uniti, le facoltà nel settore STEM più all’avanguardia propongono un modello di istruzione e formazione (new education) non più vincolato a professionalità, know-how ed esperienze esclusivamente settoriali. Istruzione, conoscenza e competenza costituiscono il punto di partenza, non d’arrivo, di un processo che deve portare ad apprendere ininterrottamente per tutta la vita e in cui esperienza e professionalità aumentano progressivamente il loro peso.

In effetti, un esperto qualificato, oltre a essere specialista in un settore di riconosciuta competenza, dovrebbe anche essere portatore di una visione di insieme (olistica), che significa comprendere la rilevanza di altri settori complementari per sfruttare al meglio le sinergie derivanti dall’interdisciplinarità.

Per altro, in quello che abbiamo definito umanesimo digitale, i processi formativi non possono andare scissi da quelli informativi, altro fattore tanto cruciale quanto precario della nostra “società in bilico”.

Anche gli operatori dell’informazione hanno difficoltà a capire come le innovazioni nelle proprie piattaforme professionali – vale a dire le trasformazioni nei modi in cui le notizie relative alla innovazione tecnologia e organizzativa vengono raccolte, filtrate e distribuite – possano coniugarsi con la tecnoscienza, ovvero con i modi in cui scienza e tecnologia incidono sulle strutture e sulle funzioni comunitarie.

Molto spesso i mezzi di comunicazione si dimostrano incapaci a rappresentare i continui cambiamenti culturali, sociali ed economici in una prospettiva positivamente coinvolgente, forse perché le visioni apocalittiche risultano mediaticamente più spettacolari.

Anche i media tradizionali, dunque, dovrebbero imparare a fare buona comunicazione e informazione e divulgazione tecnoscientifica: cioè tutto l’opposto della “infodemia” che ha caratterizzato il COVID-19, in cui stata data voce non solo a persone, ma anche a istituzioni senza alcuna qualificazione e autorevolezza ufficiale.

Parafrasando l’EBM (Evidence Based Medicine) per il settore sanitario, mi auguro che possa emergere un Evidence Based Journalism, un giornalismo basato sul metodo scientifico, in grado di fare fronte alle sempre più numerose derive irrazionalistiche della società contemporanea.

Il sociologo Zygmunt Bauman aveva proposto il neologismo “retrotopia” per indicare l’atteggiamento di coloro, e sono molti, che in un’epoca di incertezze preferiscono guardare al passato anziché a un futuro migliore. Non stupiamoci più di tanto se, in questo humus tecnofobo e misoneista, nascono, crescono e prosperano i movimenti no mask, no vax, no green pass, no TAV, no 5G, no AI…, no (quasi) tutto. A questi afferiscono gruppi di persone che dimostrano di avere “no brain”, quindi “no futuro”.

Ancora una volta, sarebbe auspicabile che gli operatori sia della informazione sia della formazione si “coalizzassero” e si responsabilizzassero non soltanto nei confronti delle proprie deontologie professionali, ma anche e sempre più nei confronti degli atteggiamenti mentali che la loro attività può suscitare. Sarebbe così possibile influenzare positivamente la individuale e collettiva percezione di quanto cambia giorno per giorno, e orientare i cambiamenti anche più radicali a favore della integrazione sociale e della convivenza.

(gv)