Nel corso dei millenni e nello sviluppo della civilizzazione Techne si è sforzata di separare le cose per poterle utilizzare, mentre Res ha continuato a perseguire l’idea che il mondo e la stessa umanità fossero una cosa sola.
di Giovanni Franzoni
Due distinte signore sono oggi all’attenzione degli interpreti della realtà ambientale e sociale che circonda l’uomo moderno nei processi di globalizzazione in corso: Techne e Res.
La prima appare come una intraprendente donna in carriera che si adopera nell’organizzare, in modo ottimale, beni pubblici e privati, risorse materiali e risorse umane, in vista di un ipotetico bene condiviso che soddisfi sia i bisogni più elementari delle popolazioni del globo, differenziati a seconda delle regioni, sia le comprensibili ambizioni di benessere e di spreco dei gruppi sociali privilegiati.
La seconda, Res, appare come una discreta e fine signora, nubile, in attesa di avere un nome per essere tolta dalla imbarazzante condizione di res nullius, cioè di cosa di nessuno.
Nessuno, infatti, oserebbe chiamare «cosa» una proprietà agricola debitamente confinata e ben avviata, un immobile accatastato, un pozzo di petrolio, una miniera di diamanti o di uranio, un porto o una costiera atta alla balneazione. Sono tutte realtà entrate nel dominio e nella competenza di soggetti pubblici o privati, per eredità, per acquisto, per diritto pubblico codificato o anche per semplice occupazione non contestata. Hanno quindi un nome e uno stato giuridico: sono una res privata.
Privata perché appartenente a un privato o comunque a un ente riconosciuto, ma anche, probabilmente, perché esonerata dal dover esistere in forma autonoma e legata con vincolo indissolubile al possessore che le ha dato un nome.
La condizione nuda e cruda di «cosa» è riservata a quanto è fuori di ogni sovranità o proprietà ed è ancora disponibile a essere acquistato o conquistato o anche solo utilizzato in esclusiva, dal momento che, allo stato attuale, è considerata res nullius cioè «cosa di nessuno».
Il concetto di res nullius è antico e risale al diritto romano (in particolare alle Institutiones di Caio). Ufficialmente in disarmo permane tuttavia nell’immaginario collettivo anche ad alti livelli.
Preoccupati della certezza del diritto acquisito per eredità, donazione o compera sia attraverso l’atto simbolico della manucapione, sia attraverso il gesto dell’appropriazione supra dorsum che consisteva nel porsi sul dorso del bue, del cavallo o dello schiavo che si era acquistato o conquistato, i giuristi romani non presero in considerazione la res nella sua entità autonoma. Questo perché il diritto romano fu essenzialmente il «diritto dei romani» che tutelava un comune cittadino anche di fronte all’arroganza di un senatore o dello stesso imperatore, ma non presumeva di avere una qualche universalità. Colui che non era cittadino romano non poteva essere soggetto di diritto.
I romani, quindi, non pretesero di elaborare uno jus cosmopoliticum, cioè un diritto di ogni essere umano a qualsiasi popolo appartenesse. Non ritennero, di conseguenza, di ledere alcun diritto nella conquista di nuove regioni (la prolatatio finium), nell’assoggettamento di popolazioni, nello sfruttamento di risorse, nella riduzione in schiavitù di intere popolazioni vinte.
Nel corso dei millenni e nello sviluppo della civilizzazione lo strumento fondamentale della conquista, della elaborazione e dell’utilizzo fu, ed è fino a oggi, Techne.
Ascoltare questa nobile e intraprendente signora è affascinante e persuasivo.
«In realtà, essa dice, «sono io che fo esistere una “cosa” traendola dal nulla dell’inutilità. Cosa fu mai il mare, prima della costruzione di un battello. Fu soltanto una oscura e minacciosa massa acquosa, ospitante mostri orribili, agitata da venti furiosi, aggressiva verso la terra e inutilizzabile per l’agricoltura. è il battello che crea il mare, che altrimenti nemmeno esisterebbe. Lo spirito intraprendente delle popolazioni rivierasche ha poi creato la pesca, la navigazione, la rotta, la conoscenza degli astri, la cartografia e via discorrendo. Così, e solo così, esiste il mare che noi oggi conosciamo e pratichiamo».
«Non diversamente», argomenta Techne, «si deve pensare di ciò che oggi chiamiamo “petrolio”. Conosciuto dai greci come asfalto, nome peraltro di origine semitica, è un liquido, grasso e più o meno denso, che sorge spontaneamente da pozzi sulla superficie della terra e perciò si è guadagnato il nome di olio dalla pietra, appunto petroleum. Utile, sparso sulla capigliatura, contro la forfora, veniva usato per mantenere vivo il pelame dei cammelli ed era comunque un prezioso combustibile per torce e lanterne. Nulla più. Anzi, a vero dire, qualche ulteriore utilizzo c’era stato: i pozzi di bitume poterono essere usati sul piano bellico, come impedimento per la cavalleria del nemico. Nella Bibbia si narra della grande battaglia fra il re degli Elamiti, Chedor Laomer, che con i suoi alleati spinse i re di Sodoma e Gomorra verso la valle di Siddim che era piena di pozzi di bitume, dove il fior fiore dei cavalieri dei due re si impantanò miseramente, mentre i pochi scampati si rifugiavano sulle alture (Genesi 14, 10). Ma, a parte usi domestici e applicazioni strategiche occasionali, il bitume non ebbe un grande uso. Chi è che ne ha fatto il sangue dell’economia mondiale, se non Techne? Come si potrebbe comparare il nudo bitume con le sue limitate applicazioni, con il petrolio attivato come combustibile dopo l’invenzione del motore a scoppio e dopo l’applicazione di appropriate tecnologie per la trivellazione, la depurazione e il trasporto di un sì prezioso materiale?»
Una altrettanto distinta signora ascoltava la perorazione di Techne manifestando, tuttavia, col muovere della testa, un fermo dissenso.
«Il ragionamento che si sta facendo è manchevole di un fondamentale contributo. è l’apporto di Immaginazione che ha contribuito a rivelare le virtualità di Res. Quando mai un abitante della riva del fiume o della costa avrebbe messo mano all’ascia per costruire il battello se, vedendo l’altra riva del fiume o scorgendo nelle nebbie del mattino il profilo di un’altra terra, non avesse immaginato di potervisi recare per trarne beneficio? Non fu la mia fascinazione che indusse i greci ad approdare a Delo o all’isola di Eea dove Circe incantò Odisseo o alla ricca Trinacria. Chi spinse i vichinghi ad attraversare i freddi e tempestosi mari del Nord o i fenici ad arrivare in Sardinia? Non fu la mia influenza a far sognare al monaco Gaunilone le isole Fortunate o a Tommaso Moro Utopia, ancora avidamente cercata dagli umani? Io, molto prima di Techne, ho soffiato nel petto di Empedocle o nella mente di Icaro l’amore per il fuoco e l’empito della vittoria sul peso. Solo dopo, l’arte ha perfezionato gli strumenti per raggiungere frammenti di realizzazione. La potenza della fantasia di Michelangelo non ha forse scorto nel marmo delle Apuane le forme in esso prigioniere come quella di Picasso che ha liberato figure e colori della materia restituendoli all’umanità che ne era già, da sempre, titolare inconsapevole?»
Mentre Techne, Immaginazione e la ridestata Res discutevano della loro identità e delle loro legittime aspettative di un decoroso futuro, un signore, compito e sagace, intervenne nella conversazione con degli interrogativi inquietanti.
«è corretto», domandò con grande serietà, «porsi una domanda e sviluppare un ragionamento sulla risposta, acriticamente ottenuta, senza prima domandarsi se la domanda “poteva” essere posta?» Questo tipo di sottigliezza apparve talmente fastidiosa che Techne non esitò a ribattere: «se ci si perde nei dubbi, egregio signore, le occasioni di progredire sfumano nel nulla. La critica è benvenuta, ma solo “dopo” che l’intraprendenza ha compiuto la sua opera».
Il signore, benché visibilmente timido e riservato, volle insistere. «Mi sono occupato, molto tempo fa, di un tema scottante che oggi dovrebbe appassionarvi: la pace. Esordii proprio con questo interrogativo: possiamo parlare di pace e per di più di pace eterna, dal momento che parliamo di una sconosciuta? L’umanità non conosce la pace perché conosce solo tregue armate durante le quali ci si è preoccupati di organizzare, per così dire naturalmente, una prossima guerra, quindi la pace non può essere conosciuta ma, se la si vuole, deve essere istituita. Ed ecco il mio rovello: dopo essermi posto il problema dei prolegomeni per ogni futura metafisica che voglia essere scienza debbo oggi pormi il problema dei prolegomeni per ogni futura pace che non voglia essere solo tregua».
Techne, riconobbe subito il professore di Königsberg e non poté certo mancare l’occasione di intervistarlo. «Quali sono oggi ancora i prolegomeni per istituire la pace?»
«Gli stati devono essere repubblicani e democratici, altrimenti sono alla mercé dei capricci di sovrani e dittatori», osservò il compìto professore, «e per garantire il diritto di visita universale sul pianeta occorre fondare l’ospitalità dello straniero sul diritto della proprietà comune della superficie terrestre, sulla quale, in quanto sferica, gli uomini non possono disperdersi all’infinito, ma alla fine devono sopportare di stare l’uno a fianco dell’altro; originariamente nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della terra».
Mentre parlava, il dotto professore, stava mostrando sul volto una crescente sofferenza.
Sembrava quasi che con lo sguardo penetrasse un futuro che si conformava, in modo orribilmente monotono, ai paradigmi di sempre. «La possibilità di convivenza civile», disse con gravità, «si confronta con la condotta inospitale degli stati civili, soprattutto quelli commerciali, della nostra parte del mondo; l’ingiustizia, di cui essi danno prova visitando paesi e popoli stranieri (visite che essi immediatamente identificano con la conquista) è tale da rimanere inorriditi. L’America, i paesi dei Negri, le Isole delle Spezie, il Capo di Buona Speranza eccetera quando li scoprirono furono per loro terre che non appartenevano a nessuno, degli abitanti infatti non tennero assolutamente conto….poiché con la comunanza tra i popoli della Terra, che alla fine ha dappertutto prevalso, si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto in “una parte” del mondo viene sentita in tutte le “altre parti”, allora l’idea di un diritto cosmopolitico non appare più come un tipo di rappresentazione chimerica ed esaltata del diritto, ma come un necessario completamento del codice non scritto sia del diritto politico sia del diritto internazionale verso il diritto pubblico dell’umanità, e quindi verso la pace perpetua, e solo a questa condizione possiamo lusingarci di essere in costante cammino verso di essa».
Techne a questo punto, benché cominciasse a sospettare che il professore fosse in sotterranea solidarietà con l’area inquieta e inquietante dei no-global, sorrise trionfante: «Tranquillo, professore, i luoghi che oggi visitiamo grazie alle mie virtuosità , fondi oceanici, regioni del polo antartico, spazio esterno, corpi gravitanti nello spazio profondo , sono del tutto disabitati. Non abbiamo trovato degli abitanti né sulla luna, né nello spazio che si estende fra il nostro pianeta e il nostro prezioso satellite. Quindi lì è veramente res nullius e oggetto di conquista. Ed è nuovamente la mia virtuosità che crea. Lo spazio per i giuristi romani non esisté e fu proprietà , ab imis usque ad sidera , di chi possedeva un pezzo di terra confinata. è l’orbita che crea lo spazio come, un tempo, fu la rotta che figurò il mare e lo trasse dalla sua misera condizione di res amorfa, e non viceversa».
Sulle realtà amorfe e innominabili non si può accampare diritto; il diritto nasce dalla conoscenza scientifica e tecnologica e dalle convenzioni statuite fra soggetti abili che hanno configurato e organizzato la materia.
Fu a questo punto del ragionamento che Res, rianimata dall’idea di un diritto cosmopolitico avanzata dal professore di Königsberg, si fece coraggio e prese la parola.
«Non ho mai saputo con certezza se da sempre sono o sono stata creata dal nulla, d’altronde la certezza non mi appartiene perché solo “nel tempo” è nata in me la coscienza e con la coscienza la possibilità e, talvolta, la pretesa di certezza. Ho inteso, peraltro, da fonti autorevoli che un dotto signore, certo Tommaso di Aquino, ebbe a dire che solo per fede si poteva affermare che io non ero increata. La fede, nata o donata ad alcuni dei miei figli, non è però per tutti. Quando alcuni dei miei nati presero a muovere con abilità le dita e a creare degli strumenti , ma non fu allora che tu nascesti o Techne? , e poi assunsero la posizione eretta io, benché avessero preso subito a calpestarmi, mai li ripudiai e sempre confidai che un giorno avrebbero conosciuto che io non ero “di loro” ma ero “loro”. Che i beni, insiti nel mio essere tutto, fossero destinati a tutti, non fu per me convinzione, ma fu il mio essere. Le religioni non poterono che confermare quello che si imponeva come connaturato all’essere e al nascere. Le scritture più antiche e autorevoli hanno affermato questo, non perché lo istituissero, ma perché era negato nei fatti e quindi bisognoso di essere affermato. Fin dall’inizio, infatti, chi ebbe la forza e il potere dichiarò che era suo ciò che egli possedeva e il diritto di conservarlo e di estenderlo fu tutelato solo all’interno di una isola sociale.
Luminosa l’affermazione degli scritti del popolo ebreo, accolti poi dai cristiani, che tutto ciò che apparteneva al creato, era di destinazione universale. Ma poiché, guardandosi intorno, ci si accorgeva che i più forti precedevano i più deboli nell’appropriazione dei beni ci si adeguò a un principio che provenendo dal diritto romano era estraneo alla mente semitica: prior in tempore potior in iure (chi arriva prima ha più diritto) per poi giustificare, dal punto di vista religioso, la disparità nell’accesso ai beni comuni con un motivo fuori della portata di un giudizio ragionevole. L’uomo aveva peccato, fin dalle origini, e pertanto, in statu naturae lapsae (in uno stato di natura decaduta) sembrava essere necessario che i potenti, purché illuminati da spirito religioso e atti ad agire secondo giustizia distributiva, avessero il governo dei beni comuni, consapevoli di essere solo administratores dei bona pauperum, amministratori, cioè, dei beni dei poveri.
Anche il Corano afferma con vigore che tutto ciò che è in cielo e sulla terra è di Allah. «”A chi appartiene dunque quel che è nei cieli e quel che è sulla terra? Rispondi; a Dio!” (Sura VI, 12), ma poi, constatando che in realtà ci sono poveri e abbienti, obbliga i ricchi a una tassa in favore del Profeta e dei poveri».
«Ora», concluse Res, «ascoltando l’illustre professore qui intervenuto, mi è venuto un pensiero: non sarebbe opportuno arrivare alla formulazione di un diritto cosmopolitico che riconoscesse l’umanità intera come titolare delle mie potenzialità? Mi sentirei più me stessa che non essendo conquistata or da questo, or da quello dei potenti che arrivano prima e utilizzano secondo interesse privato». «Da quando ho avuto solenne reprimenda», disse il professore, «per essermi occupato della religione nei limiti della ragione, mi sono impegnato a non più parlare di religione. Una cosa posso peraltro ancora dirla: non voglio affermare che lo Stato deve dare la preferenza ai principi del filosofo piuttosto che alle sentenze del giurista (rappresentante della potenza dello Stato) ma solo che lo ascolti. Il giurista che ha assunto a simbolo la bilancia del diritto e accanto a essa la spada della giustizia si serve comunemente di quest’ultima non solo per allontanare dalla prima tutte le influenze esterne, ma anche per aggiungere su un piatto della bilancia che non vuole scendere il peso della spada». Qui il professore si era fatto amaro alludendo alla spada di Brenno, equilibratrice della bilancia della giustizia. «La facoltà filosofica sotto queste potenze coalizzate sta su un gradino molto più basso. Cos�si dice della filosofia che è l’ancella della teologia…quello che non si capisce bene è se preceda la sua graziosa signora con la fiaccola o se le tenga lo strascico». «Preceda», scongiurò Res, «preceda professore». «Si certo, ma adesso mi lasci andare al porto per bere una birra con i marinai. Molto mi giovano i loro racconti di viaggio».
Giovanni Franzoni è teologo.