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Abbiamo un’opportunità per reinventare la raccolta e condivisione dei dati personali pur salvaguardando la privacy individuale.

di Genevieve Bell

Prendiamo, ad esempio, l’Australian National University (ANU) e come si è mossa rapidamente in risposta al covid-19. Le lezioni sono online e il personale è a casa; si naviga in un nuovo mondo di contatti digitali a distanza in continua evoluzione.

Mantenere al sicuro studenti e personale è la priorità, supportato da allontanamento sociale, igiene e accesso ai servizi scaglionato. Vengono applicate regole e prescrizioni, tra cui controlli giornalieri della temperatura ed un registro dei contatti interpersonali da consegnare ai servizi sanitari locali.

Il tracciamento rigoroso dei contatti, con raccolte dati sia digitali che fisiche, è stata testata come strumento per limitare la diffusione del covid-19 in luoghi come Singapore, Taiwan e la Corea del Sud, nonché la regione del Kerala, in India. La metodologia è già stata utilizzata con successo contro malattie come SARS e AIDS. Nella versione moderna supportata da app per telefoni cellulari ha sollevato nuove preoccupazioni in merito alla privacy.

Immaginiamo di dover tenere traccia dei nostri movimenti, contatto per contatto. Sappiamo elencare ogni luogo visitato, ogni contatto, degli ultimi due giorni, delle ultime due settimane? Sappiamo ricostruire tutto? Se ne fossimo capaci, a chi verrebbe consegnato questo materiale? Che uso ne farebbe?

Il rapporto tra potere, sorveglianza e disciplina è chiaro. In passato, il tracciamento dei contatti è stato utilizzando per identificare e perseguire Mary Mallon, cuoca immigrata irlandese portatrice asintomatica di tifo nella New York City del 1900. la metodologia venne applicata su larga scala durante la seconda guerra mondiale per gestire la diffusione di malattie veneree trasmessa nel Regno Unito dai soldati americani, mentre negli anni ’80, in Australia, ha permesso di identificare le comunità più a rischio all’inizio dell’epidemia di AIDS, con il conseguente contraccolpo per la comunità gay, demonizzata dalla politica conservatrice e religiosa.

In questo contesto, potremmo voler rivalutare come pensiamo a contatti e tracciamenti e chiederci: siamo in grado di lasciarci alle spalle sfumature morali e punitive? È tempo di eliminare associazioni sociali e culturali del passato per usare queste metodologie in maniera più efficace. Parte della risposta sta nella metodologia di raccolta dei dati. La preoccupazione sul loro utilizzo da parte di grandi aziende e governi è ormai consolidata. Chi avrà accesso a questi dati? Verranno combinati i dati di database sanitari e della polizia? L’accesso ai dati sarà automatizzato o esaminato da esseri umani? Le cartelle sanitarie individuali diverranno di pubblico dominio alle frontiere? Finiranno per essere prese di mira le persone più a rischio? Tutto questo in un contesto decisamente globale.

Numerosi paesi stanno già cercando di regolare meglio la raccolta dei dati per prevenire pregiudizi algoritmici e limitare l’abuso della sorveglianza di massa (compresa la tecnologia di riconoscimento facciale). Diventano particolarmente rilevanti le normative e gli standard emergenti, principalmente dall’Europa, sulla privacy, sull’utilizzo dei dati personali e su come migliorare il processo decisionale degli algoritmi. Tutto questo deve avvenire alla stessa velocità a cui si sta diffondendo il virus.

Oltre a formalizzare vincoli tecnici e legali su chi controlla i tuoi dati, potremmo dover valutare le motivazioni della raccolta. Si potrebbe differenziare tra tre distinte motivazioni: la salute pubblica, la salute individuale e l’interesse dei cittadini.
La salute pubblica è un obiettivo ovvio, all’origine delle operazioni lanciate dalla Corea del Sud e da Singapore che hanno tracciato contatti e interventi medici: notifica, divulgazione, registrazione, isolamento, trattamento. Si tratta di aiutare a sfruttare al meglio le risorse limitate in nome di una sanità pubblica più ampia, per contenere ciascun focolaio prima che possa ingigantirsi.

Il tracciamento a favore dei singoli pazienti impone una trasformazione del tracciamento dei contatti in un tracciamento del percorso del paziente. L’attenzione potrebbe essere rivolta ad aiutare i singoli pazienti a decidere se e quando chiedere aiuto, nonchè assistere gli operatori sanitari nella selezione del trattamento migliore.

L’attenzione sui cittadini è una questione completamente diversa. Come immaginare un tracciamento dei contatti dell’intera comunità? Potrebbe essere utile nell’identificazione dei punti in via anonima: un archivio di contatti e prossimità decentralizzati, in piena salvaguardia della privacy. Questi dati potrebbero aiutare ricercatori e agenzie governative nella creazione di strategie comunitarie, come l’alterazione della struttura di un parco pubblico per limitare gli assembramenti. Potrebbe favorire un’alterazione della nostra visione del mondo e di come facciamo le nostre scelte con soluzioni open source o strumenti sviluppati su base locale.

In tutti e tre i contesti, serve una considerevole espansione della nostra capacità di analisi dei dati, delle piattaforme e dei dispositivi. Dati telefonici, termometri intelligenti, tracciamenti comunitari, tutti al servizio di una mappatura dell’epidemia e delle contromisure applicate. Il problema non è più quello dei dati personali o della privacy delle singole persone, si tratta di tracciare modelli di movimento comunitario, non individuale. Come e da chi questi dati saranno archiviati e resi accessibili dipenderà anche dagli strumenti con cui vi si accederà.

Ci saranno molte decisioni da prendere.
La velocità di diffusione del virus e le contromisure necessarie non significa che queste soluzioni dovranno durare per sempre.

La nostra copertura completa del coronavirus.

(lo)