Intervista con Mauro Sentinelli, direttore generale di TIM
di Alessandro Ovi e Gian Piero Jacobelli
Quando gli avevamo chiesto di incontrarlo per fare il punto del mercato mondiale delle telecomunicazioni, dei processi innovativi che ne stanno cambiando rapidamente i connotati, dei suoi protagonisti, che un poco cercano la guerra e un poco la pace, l’ing. Mauro Sentinelli ci aveva promesso un’ora di conversazione. E già ci era sembrato molto, considerati gli innumerevoli impegni che si affollano ogni giorno sull’agenda del direttore generale di TIM, il maggiore gestore italiano di telefonia mobile e uno dei più grandi al mondo con presenza in Grecia, Turchia e in quasi tutta l’America Latina.
Ma poi un ricordo ancora vivissimo dei tempi in cui tutti parlavano di telefonia mobile e nessuno osava fare il primo passo, per paura che fosse sbagliato; una considerazione che, per quanto prudente, non riusciva a celare la propensione al combattimento nei confronti di concorrenti che ti aspettano sempre al varco; o magari una previsione che finiva inaspettatamente per cambiare le carte in tavola: tante ragioni per prolungare un discorso che tirava l’altro. Così, invece di pochi fogli di appunti, abbiamo riempito un piccolo quaderno.
Tuttavia, uscendo, ci siamo chiesti se e in che misura Sentinelli avesse risposto alle nostre domande o se invece il suo entusiasmo e la sua comunicativa avessero preso il sopravvento sulla nostra curiosità di sapere se le cose fatte fossero meno importanti delle cose da fare, se esistessero le condizioni per farle, se si potessero affrontare i prossimi decenni con la speranza di mantenere il passo o se invece il nuovo mercato mondiale non presentasse difficoltà apparentemente insormontabili almeno per un sistema produttivo come quello italiano.
Solo scorrendo i nostri appunti ci siamo resi conto che le risposte erano state non soltanto esaurienti, ma incisive e talvolta provocatorie, anche perché spesso avevano assunto l’andamento suggestivo del racconto personale. Un racconto, prima ancora che su alcune fondamentali intuizioni – che o ce le hai o non ce le hai -, basato su alcune idee guida, che nel loro insieme costituiscono una sorta di manuale manageriale per dirigenti dei settori a tecnologia avanzata: l’idea che una tecnologia è buona solo se il mercato la accetta e non viceversa; l’idea che, se non fai qualcosa oggi non potrai più farla domani, perché le cose cambiano a una velocità incredibile; l’idea che non vendi più un prodotto, ma un sistema, cioè un insieme di prodotti collegati da profonde e reciprocamente determinanti sinergie.
Così una storia di vita si è rivelata sintomatica di un cambiamento che ha investito l’intero settore dei servizi, trasformando ruoli professionali, responsabilità sociali, priorità e criteri operativi. (a.o., g.p.j.)
Alla metà degli anni Ottanta era ormai matura l’idea che fossimo alle soglie di una vera e propria rivoluzione delle telecomunicazioni: quella rivoluzione che andò poi sotto il nome di telefonia mobile. Uso la parola rivoluzione non soltanto perché nel campo della comunicazione personale tecnologicamente assistita sarebbe rapidamente cambiato tutto, tecnologie, apparecchiature, comportamenti. Rivoluzionario era non soltanto un nuovo modo per fare qualcosa di vecchio, anzi di vecchissimo, come la comunicazione. Rivoluzionario era soprattutto che stesse emergendo un vero e proprio nuovo modo di essere. Prima, per fare qualsiasi cosa, si doveva restare incardinati al posto in cui si viveva, si lavorava, ci si divertiva. Dopo, ognuno di noi ha potuto godere di quello che, a ragione, è stato definito come il potere dell’ubiquità.
Tuttavia, per quanto tutti fossero convinti che stava avvenendo qualcosa senza precedenti, si continuava allora a discutere sulla scelta del nuovo sistema di telefonia mobile europeo senza riuscire a venire a capo dei contrastanti interessi nazionali, corporativi, imprenditoriali. Nell’estate del 1985, una indagine del Department of Trade and Industry di Londra confermò che l’espansione della telefonia cellulare sarebbe stata esplosiva non appena il telefono portatile fosse diventato tascabile. Ricordiamoci che allora l’installazione di un telefono mobile avveniva quasi esclusivamente sulle automobili di chi se li poteva permettere, perché era tanto pesante quanto costoso.
Insomma, poiché ero giovane e avevo un cattivo carattere, finii per perdere la pazienza tra una trattativa e l’altra e decisi che era meglio rischiare. Cominciai a mettere nero su bianco per convincere i miei capi che il mercato non avrebbe aspettato e che occorreva lanciare un sistema di radiomobile ad alta capacità, anche prima che il GSM fosse commercialmente disponibile. Nonostante la prudenza con cui mi sforzavo di formularle, anche le previsioni meno ottimistiche sembravano una sorta di delirio di onnipotenza e avrebbero rischiato di cadere nel vuoto o, peggio, di farmi passare per un inguaribile e incauto ottimista.
Per fortuna, mia, ma anche della mia azienda, incontrai un amministratore delegato come Francesco Silvano, che aveva fiuto e voglia di rischiare per affermarsi. Fui fortunato anche se, per partire con la telefonia mobile, mi trovai inopinatamente a cambiare lavoro. Ero e mi sentivo profondamente un ingegnere, ma dovetti accettare l’imperativo categorico che, per produrre qualcosa, bisogna anzitutto riuscire a venderla. Così, in attesa dei perfezionamenti di cui il GSM aveva ancora bisogno, optammo per il sistema analogico di prima generazione allora esistente, il cosiddetto TACS, decidendo però di farlo produrre in Italia dalla Ericsson che già forniva a Telecom le centrali elettroniche AXE e che quindi era molto affidabile.
Riuscimmo a essere in linea per il campionato mondiale di calcio del 1990, che ebbe luogo in Italia e che ci consentì in un paio d’anni di moltiplicare per dieci l’utenza di allora.
Quando le grandezze crescono di un ordine di grandezza cambia veramente tutto, sia sul piano dell’organizzazione produttiva sia su quello dell’approccio al mercato.
Prima era la novità, la voglia di distinguersi a orientare il mercato. Dopo bisognò rendersi rapidamente conto che il vero problema era quello della promozione tariffaria: insomma, la tecnologia è importantissima, ma il modo di venderla lo è ancora di più. Studiammo e mettemmo a punto nuove tariffe, i cui obiettivi, ancora oggi attuali, erano soprattutto due: quello di spalmare per quanto possibile l’utenza nell’arco dell’intera giornata per evitare picchi che rischiavano di mettere in crisi le nostre capacità trasmissive; quello di fidelizzare il cliente sottraendolo progressivamente al vincolo del canone e alla aleatorietà dei consuntivi. Nacquero così le tariffe a consumo e le carte prepagate: anche questa una tecnologia comportamentale tanto raffinata quanto quelle connesse ai materiali, agli algoritmi di compressione, agli espedienti per sfruttare meglio le capacità della rete.
Dunque, vent’anni fa la svolta fu segnata da una santa alleanza tra la tecnologia e il mercato. E oggi, quello che allora fu un equilibrio da conquistare resta ancora un equilibrio da difendere?
Su questa strada la sfida continua. Per partire con le carte prepagate, il problema cruciale era quello della bolletta in tempo reale, on line, per il quale siamo andati a bussare alle porte della maggiori aziende mondiali di Information Technology. Oggi il problema è la convergenza su una unica piattaforma mobile di voce e immagini fisse e in movimento, per cui diventa fondamentale il collegamento con Internet. Se vent’anni fa non fu facile convincere chi doveva decidere, resta sempre una profonda e creativa tensione tra chi si affida alle più rigorose e consequenziali ricerche di mercato e chi sa fiutare l’aria e intravedere il successo di una tecnologia oltre la stessa evidenza dei numeri. Ma questa è appunto una caratteristica del nuovo mercato e soprattutto di quello delle telecomunicazioni: che le cose avvengono quando meno te le aspetti; che la novità è sempre dietro l’angolo e troppo spesso la correttezza delle valutazioni basate su ciò che esiste rischia di metterti fuori gioco.
Una data segna il grande passo: nel 1993 raggiungemmo il primo milione di clienti e ricordo ancora che era un medico e che tutto sommato ci fece molto piacere. Ma, come sempre, l’appetito viene mangiando e gli intrecci tra tecnologia e marketing sono andati moltiplicandosi, provocando innovazioni a tutti i livelli. E, ancora una volta, costringendoci a intuire i cambiamenti della domanda prima ancora che se ne manifestassero le concrete disponibilità tecnologiche.
In effetti, la grande scommessa di questi anni, per non dire di questi mesi, segna una ulteriore inversione di tendenza. Se fino a qualche tempo fa si era giocata sulla parola ubiquitaria, sulla predominanza della voce, oggi sembra tornare a giocarsi sulla scrittura ubiquitaria, sulla ritrovata importanza della comunicazione scritta, che nella esplosione di SMS ed e-mail ricerca la possibilità di comunicare sempre un poco di più spendendo sempre un poco di meno. Così scopriamo che i concorrenti più agguerriti sono i giapponesi, che da tempo vanno esercitandosi in questo settore, e questa è veramente una bella sfida perché tende ad articolare il mercato su più livelli: non soltanto il servizio, non soltanto la tariffa, ma anche un modello culturale. Insomma, come si rileva in molti altri settori tecnologicamente avanzati, bisogna imparare a vendere non soltanto un prodotto, ma anche il suo modello di fruizione.
Questa è certamente una considerazione che merita qualche approfondimento, perché, parlando di nuovi sistemi di comunicazione, se tanti sono i chiamati, pochi sono gli eletti. Per insegnare alla gente a usarli al meglio, è quindi necessario cercare di capire quale riuscirà ad affermarsi e quale invece è destinato a scomparire.
Più che una questione di sopravvivenza, direi che stiamo assistendo, sforzandoci di interpretarla correttamente, a un vero e proprio fenomeno di fusion, per usare un termine che caratterizza tutta la cultura contemporanea, da quella dello spettacolo a quella enogastronomica.
Il mercato non presenta più una fisionomia precisa, non si condensa più intorno a una guerra di sistemi, ma piuttosto intorno a una loro progressiva e talvolta programmatica integrazione: per esempio, integrazione tra i sistemi fissi, come Internet, e i sistemi mobili, come il cellulare. Il cliente non vuole più scegliere, ma semplicemente vuole tutto e, soprattutto, vuole di più: voce, immagini fisse e in movimento, dati, suoni. In una parola, l’accesso aperto e immediato a ogni fonte e a ogni interconnessione possibile. E da ogni luogo.
Dirlo sembra facile, ma farlo diventa molto difficile se si pensa che, anche in questo caso, a ogni sostanziale offerta successiva corrisponde almeno un ordine di grandezza nella quantità di informazioni che devono venire raccolte, gestite, distribuite. Ma questa è la nuova frontiera delle telecomunicazioni personali, una frontiera a cui pochi sembrano dedicarsi operativamente, ma a cui tutti in realtà pensano giorno e notte. Ovviamente ci penso anche io, alla frontiera dei cosiddetti servizi combinazionali, che significa integrare la comunicazione faccia a faccia con crescenti informazioni aggiuntive. Per quanto logico e apparentemente naturale, come è logico e naturale che per comunicare si utilizzino tutti i mezzi a disposizione, incluso il linguaggio dei gesti e magari quello degli abiti, si tratta di un nuovo passo avanti, grande e complesso.
Tra il segnale audio e quello video, infatti, la differenza è sostanziale: uno corre molto più veloce dell’altro e quindi è necessario immaginare delle soluzioni, tecnologiche e comportamentali, che non appaiano come dei compromessi, ma come delle articolazioni funzionali di diverse modalità comunicazionali. Il modello di riferimento è quello della comunicazione audio alla quale, mentre si parla, è possibile aggiungere e-mail o SMS, integrandola anche con brani musicali o immagini fotografiche.
Un’altra frontiera di riscontro e di scontro è quella della condivisione dei contenuti: audio più qualcosa che possa fluire liberamente tra un terminale e l’altro, senza ritardi, interruzioni o disturbi eccessivi. Anche da un punto di vista tecnologico, si può associare un canale a circuito con un canale a pacchetto: l’importante è che quando il segnale o i segnali lo raggiungono, l’utente abbia la sensazione di agire su una tastiera elettronica di quelle che possono emettere qualsiasi suono e fanno pensare a un’intera orchestra.
L’accenno a una rivoluzione tecnologica, in cui i diversi sistemi si congiungono piuttosto che separarsi, allude a un concetto di tecnologia che forse troppo a lungo era stato definito soltanto in termini concorrenziali. In ordine a quanto ci ha detto sui rapporti tra tecnologia e mercato, si deve dunque ritenere che, in sintonia con questa nuova concezione tecnologica, anche il mercato si stia avviando verso nuove forme collaborative?
Non c’è dubbio che, dovunque si giochi la partita dell’innovazione, sia tecnologica sia di mercato, l’obiettivo è oggi quello riuscire a fare un poco di più nelle singole situazioni per ottenere un grande risultato in termini complessivi.
Dal punto di vista tecnologico – e questo fenomeno, sino a ieri imprevedibile, pone interrogativi cruciali, per rispondere ai quali è necessario rimuovere il luogo comune che leggero sia sempre bello – stiamo assistendo a una inversione di tendenza in ragione della quale almeno una parte del successo incrementale del software – se non altro perché costa sempre di più, e probabilmente troppo – sta tornando sull’hardware. Dai processori generici, per i quali si deve realizzare un nuovo software sempre più complesso, che richiede potenze di elaborazione dieci volte superiori, si passa ai microprocessori specializzati, che costano meno e risultano alla prova dei fatti assai più veloci. In questa prospettiva è importante che TIM dialoghi con chi progetta e produce microprocessori, anche se al momento è necessario parlare più spesso con i fornitori di telefoni portatili, che sono sempre meno telefono e sempre più computer. Ma si sa, il futuro è di chi sa guardare, se non molto, almeno un poco più lontano.
Per altro le grandi trasformazione non sono alle porte. è ancora presto per ridisegnare radicalmente le tecnologie attualmente in funzione, anche perché, per farlo, ci vogliono accordi per i nuovi sistemi operativi e nel frattempo bisogna tenere alto il livello della competizione anche nei confronti di chi domani potrebbe costituire un utile compagno di strada.
Un altro dilemma: dove cercare partnership davvero proficue, in casa propria, o almeno nel proprio quartiere, oppure oltre i confini familiari, dove più che novità sembrano maturare diversità?
Da questo punto di vista, almeno al momento, la tendenza è quella di migliorare il proprio prodotto e la propria capacità di offerta senza invadere il campo altrui.
Per dirla tutta, nonostante gli sforzi di Microsoft per entrare nel settore delle telecomunicazioni personali, tramite accordi con Orange e Deutsche Telekom, si tratta di due linee di tendenza separate: Windows sul telefono rappresenta ancora una nicchia, non un fenomeno di massa.
Anche TIM resta nel suo mercato, italiano, europeo e latinoamericano.
La Cina, nonostante qualche tentativo di discorso, qualche approccio imprenditoriale, è ancora lontana: là si giocherà la partita della quarta generazione.
In conclusione, se al gestore di telecomunicazioni si chiede di pensare diverso, si deve chiedere anche di continuare a pensare e di non gettare troppo spesso il cuore oltre l’ostacolo. Direte che vent’anni fa sarei stato meno prudente?
Qualcuno direbbe, come scriveva il grande Aristotele, che la saggezza è sempre a tempo e luogo. In realtà, la filosofia appartiene agli uomini e non a un’età anagrafica dell’uomo. Non credo quindi né che a un certo punto del percorso si diventi dei filosofi, né che il pensiero filosofico sia connotabile come approccio prudente al mondo che cambia.
In precedenza, ho accennato al concetto di valore, ricercato dai clienti sia in forma di ubiquità (anytime, anywhere) sia di accesso aperto e immediato a ogni fonte informativa (Internet) e ogni interconnessione possibile (any network). Fusion di linguaggi e ricerca di forme collaborative ne sono un corollario.
Il fenomeno della Comunicazione Personale ha visto l’affermarsi, negli ultimi venti anni, di un modello basato su un contratto a tre tra i detentori delle chiavi tecnologiche: i vendors, gli operatori oligopolisti e la distribuzione della consumer electronics.
Il valore scambiato con il cliente è «la comunicazione», mediata dal mezzo «terminale». Il «contratto» definisce un fronte comune tra i tre attori, che anticipa la domanda, nel senso che fissa le coordinate dell’offerta, guidando le formule progressive di consumo, all’interno di un continuo affinamento del paradigma dell’arricchimento dello standard.
Il contributo di TIM consiste nell’avere intuito la dimensione esplosiva del connubio tra tecnologia e mercato e averlo costruito mettendo insieme i tasselli del «contratto» a tre. Una cosa di cui siamo certi è che non siamo alla fine di nessun percorso. Anzi, nuovi scenari appassionanti appaiono schiudersi all’orizzonte.
E TIM sarà lì, assieme ad altri grandi attori, per contribuire a disegnare il futuro della Comunicazione Personale.