In una lettera al direttore dell’edizione italiana di MIT Technology Review, Vittorino Andreoli commenta la recente presa di posizione dell’International Summit on Human Genome Editing.
Caro Alessandro,
il tema del “ bambino geneticamente modificato” è discusso tra i biologi da molto tempo anche se in maniera quasi segreta, per la sensazione che rappresenti una delle frontiere e dei pericoli della ricerca sul genoma umano.
Credo sia positivo che ora questo tema abbia preso una rilevanza pubblica e dunque sia affrontato apertamente come è avvenuto qualche settimana fa a Washington, D.C. , durante l’International Summit on Human Gene Editing.
Certo, è auspicabile che, a discuterlo, non siano solo gli scienziati degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Cina.
Si tratta di un argomento del tutto specifico, ma se si volesse trovare una analogia, il pensiero va agli anni 1938-45 della Fisica delle particelle e della liberazione dell’energia atomica.
La sintesi della risoluzione a cui è giunto l’International Summit e che, molto opportunamente, hai disposto di pubblicare sulla nostra Technology Review, mi spinge a richiamare per punti alcune considerazioni, senza delle quali si rischia, forse, di fantasticare su una problematica invece moto concreta, dal momento che sono già disponibili delle tecniche per improvvisare sul genoma umano un intervento come base per il “bambino geneticamente modificato”.
Voglio poi sottolineare che la tecnica finora disponibile non ha bisogno dei grandi Laboratori; basta qualche “ cantina” e un doctor Jekill della cronaca invece che del noto romanzo di Stevenson.
Voglio però subito premetterti che ritengo sia un errore preoccuparsi solo del “proibire”, lanciare anatema contro il settore della ricerca sul genoma umano, che ha caratterizzato gli ultimi 25 anni della storia della biologia, e a cui il nostro Dulbecco ha dato un contributo molto significativo.
Il primo punto che intendo richiamare è che la specie Homo sapiens sapiens, alla quale noi apparteniamo, non è una statua inamovibile, bensì una specie in evoluzione. E, sia pure nel senso che a questo termine dava Charles Darwin, significa che il nostro genoma è soggetto alle modificazioni siano esse di tipo mutazionale (quindi casuali), o siano invece legate all’adattamento a nuove condizioni ambientali.
Non vorrei, insomma, si continuasse a fare l’errore di considerare la Natura (che comprende l’Universo e quindi anche l’Uomo) alla maniera Aristotelica come a qualcosa di fissato e di immutabile. Sia la materia biologica che quella fisica sono in progress e, quanto meno, al concetto aristotelico dobbiamo sostituire quello di Spinoza, nella sua distinzione tra natura naturata (fissata) e natura naturans (modificantesi e generante). Il genoma umano è dunque in evoluzione e nessuno può meravigliarsi di eventuali cambiamenti sia pure dettati da condizioni che l’uomo non provoca direttamente in laboratorio.
Il secondo punto che va sottolineato ci porta in un’antropologia lontana, a quella modificazione del genoma che ha segnato il passaggio dalle Austrolopitecine agli Ominidi e a una modificazione successiva che ha staccato l’Homo abilis dagli scimpanzé (e dai Bonobo).
Modificazioni certo ponderose, ma se vogliamo riferirle alla quantità, non va dimenticato che tra il genoma di un uomo del tempo presente e quello di uno scimpanzé attuale la differenza dei geni è del 7 per cento. E’ a questa percentuale che spetta la grande distanza tra i nostri cugini e l’uomo della cosiddetta civiltà occidentale.
Come forse ricordi, accennandoti al periodo che ho passato nel 1967 nei Laboratori della Nasa ad Alamogordo (in New Mexico), la differenza tra una mente umana e quella di uno scimpanzé è enorme. In qualche modo ciò vuol dire che bastano piccole variazioni nel genoma per grandi salti sul piano mentale, affettivo e comportamentale nell’uomo.
Il terzo punto, caro Alessandro , forse ti meraviglierà: si lega alla mia professione di psichiatra che è approdato alla Clinica dopo anni di vita nei Laboratori per gli studi sul cervello.
L’Homo sapiens sapiens del tempo presente è semplicemente mostruoso. Mi basta richiamarti qualcuno degli ingredienti che lo deformano: la violenza, l’invidia, il potere come sopraffazione, un individualismo egoico di tale gravità da generare narcisismo e cabile l’una contro l’altra armata.
E non sono soltanto un osservatore di queste espressioni comportamentali che trovo dentro e attorno a me, bensì uno che da psichiatra cerca di correggerle. Ma porto a casa quotidianamente delusioni e frustrazioni per il fatto di non riuscirci.
Ne consegue, lo dico con estrema franchezza, che se fosse possibile impedire le guerre, il terrorismo della Terra e quello del Cielo (tra gli dei), sarei fortemente interessato a correggere questo Homo che, anche se si è dotato del due volte sapiens, a me pare molto insapiens.
Non approvo gli atteggiamenti di preclusione di principio verso i miglioramenti di questo animale che, a differenza di René Dubos che lo chiamava “così umano” (So human an animal), a me risulta così disumano.
Con il quarto punto ritorno dentro la biologia del comportamento. Dopo lunghi periodi di riduzionismo biologico, è stato dimostrato che il nostro agire dipende da tre fattori: genoma (per l’organizzazione del cervello), esperienze che l’uomo fa fin dalla nascita (e forse già in utero) e influenze dell’ambiente (sociale più che geografico).
Solo se si tiene conto di questo risultato scientifico, si può evitare di ragionare in maniera riduzionistica. I Dna sono fondamentali nel comportamento, altrettanto lo sono le esperienze e le relazioni tra individui. Sono sorpreso di constatare continuamente ( e talvolta anche su Tecnology Review) questa tendenza al riduzionismo genetico.
Significa riferirsi ad una genetica mendeliana, importante tappa nella storia della scienza, ma che non serve per discutere oggi dei problemi del “bambino geneticamente modificato”.
Alla luce di queste conoscenze, bisognerebbe parlare anche di “bambino modificato dall’ambiente “ e persino di “bambino modificato dalle esperienze e dai vissuti”.
Per sostenere oggi questo mio antiriduzionismo, ma che risale almeno al 1980 quando è uscita “La terza via della psichiatria”, esiste una grandissima scoperta delle Neuroscienze: Il cervello plastico. Un termine che nella dimensione dei sistemi, si riferisce ai lobi frontali e a parte di quello tempora-parietali, ma a livello di microsistemi riguarda le sinapsi, cioè il legame tra cellula e cellula, e così si il termine plasticità si lega alle membrane delle singole cellule.
Questo richiamo è una maniera straordinariamente espressiva per affermare che l’esperienza è in grado di strutturare il nostro cervello. Si tratta naturalmente di una possibilità che io considero limitata entro quello che ho chiamato “isomorfismo” (mi riferisco questa volta al mio “La norma e la scelta” del 1984).
Con questa affermazione si pone una distinzione fondamentale tra genetica strutturale e genetica delle disposizioni-a. Ma siamo lontani dall’avere sviluppato scientificamente questi due concetti e il chiudersi dentro il riduzionismo biologico impedisce di farlo, di cominciarne una costruzione.
Mi rimane un altro punto: il quinto. Non ti sembra che l’uso del sostantivo bambino invece che di uomo geneticamente modificato, sia una pietistica modalità , per permettere i divieti? Per dar voce ai soliti moralismi che vorrebbero impedire la ricerca scientifica? La sentenza: “è irresponsabile pensare di modificare i geni del bambino”, pesca nel topos della cultura e della mitologia, in cui il bambino è sempre bellissimo, e attiva solo sentimenti di protezione.
Sto pensando a quale sarebbe l’effetto se al posto del bambino (che richiama una pedagogia alla Rousseau per cui i bambini sono perfetti e poi la società li rovina, un Rousseau che resiste nonostante Freud li abbia chiamati perversi polimorfi) mettessimo la schiera degli uomini adulti da Hitler a Stalin, tutti gli uomini della Seconda guerra mondiale che hanno prodotto 55 milioni di morti.
Sarebbe meglio certamente, per affrontare scientificamente il tema, chiudere fuori dalla porta dei Laboratori i moralismi e le mitologie. Si seguirebbe così anche l’invito del cattolicissimo Pasteur di lasciare fuori dalla porta persino la religione, che significa Dio.
Temo di tediarti e quindi mi fermo , ma non prima di porti una domanda: ”Perché il Technology Review non promuove un Seminario sui questo argomento?”