In tutto il mondo, ricercatori sono rinchiusi in habitat spaziali simulati in luoghi remoti per capire cosa significherebbe andare davvero nello spazio.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Undark. Leggi l’articolo originale.
Nel gennaio 2023, l’aereo di Tara Sweeney è atterrato sul ghiacciaio Thwaites, una massa d’acqua ghiacciata di 74.000 miglia quadrate nell’Antartide occidentale. È arrivata con un team di ricerca internazionale per studiare la geologia e il tessuto glaciale del ghiacciaio e come il suo scioglimento possa contribuire all’innalzamento del livello del mare. Ma mentre si trovava vicino al punto più meridionale della Terra, Sweeney continuava a pensare alla Luna.
“Mi sono sentita come se fossi un esploratore spaziale”, dice Sweeney, un ex ufficiale dell’Aeronautica che ora sta lavorando a un dottorato in geologia lunare presso l’Università del Texas a El Paso. “Hai tutte queste risorse e puoi essere tu a partire per l’esplorazione e la scienza. È stato davvero spettacolare”.
Questa somiglianza è il motivo per cui gli scienziati spaziali studiano la fisiologia e la psicologia delle persone che vivono in Antartide e in altri avamposti remoti. Per circa 25 anni, le persone hanno provato a immaginare come potrebbe essere l’esistenza su un altro mondo o in viaggio verso di esso. Gli esploratori polari sono, in un certo senso, analoghi agli astronauti che atterrano su pianeti alieni. Sebbene Sweeney non fosse tecnicamente in missione come astronauta analoga – il suo obiettivo principale era l’esplorazione geologica della Terra – i suoi giorni si sono svolti in modo simile a quelli di un esploratore spaziale.
Per 16 giorni, Sweeney e i suoi colleghi hanno vissuto in tende sul ghiaccio, trascorrendo metà del tempo intrappolati all’interno mentre tempeste di neve colpivano le tende. Quando il tempo lo permetteva, Sweeney è andata e tornata dalle stazioni sismografiche in motoslitta, e una volta è rimasta intrappolata in una tempesta di neve che, dice, è stata come trovarsi dentro una pallina da ping-pong.
Sul ghiacciaio, Sweeney aveva sempre freddo, a volte si annoiava, spesso era frustrata. Ma era anche viva, euforica. E sentiva una forma di concentrazione che non aveva nel suo continente natale. “Avevo tre obiettivi: essere una buona compagna di team, fare ricerca di qualità e rimanere viva”, dice. “Non dovevo fare altro”.
Niente di tutto ciò è stato facile, naturalmente. Ma forse è stato più facile che atterrare di nuovo sulla terra di El Paso. “La mia missione si è conclusa, ed è finita”, dice. “Come faccio a elaborare tutte quello che che sento?”.
In seguito, a maggio, ha partecipato alla 2023 Analog Astronaut Conference, un incontro di persone che simulano viaggi spaziali a lungo termine che hanno però la sicurezza relativa e la comodità della Terra. Sweeney era venuta a conoscenza dell’evento quando aveva visitato un analog facility in Giordania. Lì aveva incontrato uno dei fondatori della conferenza, Jas Purewal, che l’aveva invitata al raduno. L’incontro si è tenuto, opportunamente, presso la Biosfera 2, un habitat autosufficiente con pannelli di vetro nel deserto dell’Arizona che assomiglia a una visione fantascientifica degli anni ’80 di un insediamento spaziale, una delle prime strutture costruite, in parte, per capire se l’uomo potesse creare un ambiente abitabile su un pianeta ostile.
Una relatrice della conferenza aveva trascorso otto mesi chiusa in un habitat spaziale simulato a Mosca, in Russia, e ha raccontato come il periodo successivo alla missione fosse stato difficile per lei. Il peso psicologico del reintegro è diventato un tema ricorrente durante l’intero incontro. Sweeney, a quanto pare, non era la sola.
In tutto il mondo, circa 20 analog space facility ospitano persone che si offrono volontariamente come soggetti di studio, isolandosi per settimane o mesi in stazioni polari, avamposti nel deserto o persino habitat sigillati all’interno dei centri NASA. Questi luoghi hanno lo scopo di simulare il modo in cui le persone potrebbero vivere su Marte o sulla Luna, o su stazioni orbitali a lungo termine. Secondo gli scienziati, questo tipo di ricerca può aiutare a testare strumenti medici e software, a migliorare l’agricoltura indoor e ad affrontare le difficoltà che gli astronauti analoghi incontrano, comprese quelle di Sweeney, quelle che si presentano quando le loro “missioni” sono terminate.
Di recente, una comunità di ricercatori ha iniziato a strutturare il settore: definendo degli standard in modo che i risultati siano comparabili; raccogliendo i documenti di ricerca in un unico database in modo che i ricercatori possano basarsi sul lavoro precedente; e riunendo scienziati, partecipanti e direttori di strutture per condividere risultati e intuizioni.
Grazie a questa coesione, l’area di ricerca sta migliorando la propria reputazione e sta cercando di acquisire maggiore credibilità presso le agenzie spaziali. “Penso che gli analog siano sottovalutati”, dice Jenni Hesterman, un ufficiale dell’Aeronautica in pensione che sta aiutando a definire questa standardizzazione. “Molte persone pensano che sia solo un campo spaziale”.
Le analog facility per astronauti sono nate per testare le missioni spaziali senza il costo di un vero viaggio nello spazio. Gli scienziati, ad esempio, vogliono assicurarsi che gli strumenti funzionino correttamente, e quindi gli astronauti analoghi testeranno attrezzature che vanno dalle tute spaziali alle apparecchiature mediche per ambienti estremi.
I ricercatori sono anche interessati a capire come se la cavano gli astronauti in isolamento, per cui a volte seguiranno caratteristiche come i cambiamenti del microbioma, i livelli di stress e le risposte immunitarie prelevando campioni di saliva, pelle, sangue, urina e materia fecale. Le analog mission “possono darci indicazioni su come reagirebbe una persona o su che tipo di squadra, che tipo di mix di persone, può reagire ad alcune sfide”, afferma Francesco Pagnini, professore di psicologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore in Italia, che ha condotto ricerche sul comportamento umano e sulle prestazioni in collaborazione con le agenzie spaziali europea e italiana.
Alcune strutture sono gestite dalle agenzie spaziali, come lo Human Exploration Research Analog, o HERA, della NASA, che si trova all’interno del Johnson Space Center di Houston. Il centro ospita anche un habitat stampato in 3D chiamato Crew Health and Performance Exploration Analog, o CHAPEA, dove gli equipaggi simuleranno una missione di un anno su Marte. La struttura assomiglia a ciò che accadrebbe se un’intelligenza artificiale creasse uno spazio abitativo cosmico usando IKEA come materiale di partenza.
La maggior parte delle analog facility, tuttavia, è gestita da organizzazioni private che accettano proposte di ricerca da parte di agenzie spaziali, ricercatori universitari e, a volte, di semplici cittadini, con progetti che le strutture selezionano attraverso un processo di candidatura. Questo tipo di lavoro va avanti da decenni: la prima analog mission ufficiale della NASA si è svolta nel 1997 nella Death Valley, quando quattro persone hanno trascorso una settimana fingendo di essere geologi marziani. Nel 2000, l’organizzazione non-profit Mars Society, che si occupa di esplorazione spaziale e ricerca, ha costruito la Flashline Mars Arctic Research Station nel Nunavut, in Canada, e poco dopo ha costruito la Mars Desert Research Station nello Utah (entrambe le strutture sono state utilizzate anche dai ricercatori della NASA). Ma la pratica esisteva già da molto tempo prima di questi progetti, anche se la terminologia e le strutture permanenti non lo erano: nell’era Apollo, gli astronauti provavano i loro rover e le loro passeggiate spaziali, insieme alle tecniche scientifiche, in Arizona e alle Hawaii.
Su “Marte”, il team di Purewal e Hesterman ha portato a termine una serie di missioni, tra cui simulazioni di passeggiate spaziali.
Molte strutture, secondo Ronita Cromwell, ex scienziata capo del Flight Analogs Project della NASA, si trovano in due tipi di luoghi: ambienti estremi o ambienti controllati. I primi includono stazioni di ricerca antartiche o artiche, che sono utilizzate per studiare elementi come i modelli di sonno e le dinamiche di squadra. I secondi, habitat simulati e sigillati, sono utili soprattutto per la ricerca sul comportamento umano, per esempio per capire come cambiano le capacità cognitive nel corso di una missione o per testare le attrezzature, come il software che aiuta gli astronauti a prendere decisioni senza comunicare con il controllo della missione. Questa indipendenza diventa necessaria quando gli equipaggi si allontanano dalla Terra, perché i ritardi di comunicazione aumentano con la distanza.
Durante il suo lavoro sulle simulazioni di missione della NASA, Cromwell ne ha compreso il valore. “Ciò che mi ha entusiasmato è che siamo stati in grado di creare una sorta di situazioni di volo spaziale a terra, per studiare i cambiamenti del corpo umano durante il volo spaziale”, dice Cromwell, “che si tratti di cambiamenti psicologici, cognitivi o fisiologici”.
I ricercatori di psichiatria dell’Università della Pennsylvania, per esempio, hanno recentemente scoperto che i membri di un equipaggio di HERA hanno ottenuto risultati migliori nei compiti di cognizione, come cliccare su quadrati che appaiono casualmente su uno schermo e memorizzare oggetti tridimensionali, man mano che la missione proseguiva. Un altro recente studio di HERA, condotto da scienziati della Northwestern e della DePaul, ha rilevato che col tempo le squadre sono migliorate nell’esecuzione di compiti fisici, ma sono peggiorate quando hanno cercato di lavorare insieme in modo creativo e intellettuale su compiti come il brainstorming del maggior numero possibile di usi per un dato oggetto. Questi cambiamenti cerebrali e comportamentali potrebbero insegnare agli scienziati come gestire squadre affiatate in altre situazioni remote, noiose e stressanti. “Penso che la psicologia spaziale possa dire molto anche sulla vita di tutti i giorni”, dice Pagnini.
Dal punto di vista fisico, un team internazionale che comprendeva anche uno scienziato della NASA ha recentemente utilizzato la Mars Desert Research Station per verificare se agli astronauti analoghi si possa insegnare rapidamente come riparare le ossa rotte utilizzando un dispositivo che potrebbe funzionare su Marte – o in un sito terrestre lontano da strutture mediche. Le ricerche sulla vita autonoma e sostenibile rivelano come l’esistenza con poche risorse potrebbe funzionare anche sulla Terra. Ad esempio, un altro equipaggio, guidato da ricercatori medici della Griffith University, ha effettuato un esperimento per estrarre l’acqua dai minerali in caso di emergenza.
Mentre la ricerca scientifica che ha luogo nello spazio è di solito sotto i riflettori, i test a terra di tutti i sistemi, compresi quelli umani, sono necessari, anche se non sempre glamour o lodati pubblicamente. “Mi sentivo come se fossi a capo di un segreto profondo e oscuro”, dice Cromwell, scherzando, del suo lavoro sul programma analog della NASA.
In effetti, anche chi lavora in campi adiacenti a volte non ne ha mai sentito parlare. Purewal, un astrofisico, è venuto a conoscenza della ricerca spaziale analog solo nel 2020. Con le restrizioni imposte dalla pandemia da Covid-19, però, la maggior parte delle strutture aveva interrotto le nuove missioni. “Se non posso andare in un analog facility, forse posso portarla da me”, ha pensato Purewal.
Tra i rami di salice e le siepi curate del giardino dei genitori a Warwick, in Inghilterra, ha costruito una cupola geodetica con manici di scopa e materiali simili a tende. Purewal si è segregata all’interno per una settimana, uscendo solo per andare in bagno e indossando una tuta spaziale simulata. Comunicava con chi si trovava all’esterno della sua cupola con un ritardo di 20 minuti e mangiava cibi liofilizzati, che arrivava a odiare, e proteine di insetti provenienti da vermi e locuste, che le piacevano più del previsto.
Pur ammettendo che il suo analog personale era “low-fidelity”, Purewal ha offerto un banco di prova per una ricerca più rigorosa. Nel 2021, insieme all’astronauta civile di SpaceX Sian Proctor, Purewal ha co-fondato la Analog Astronaut Conference, alla quale Sweeney ha partecipato, insieme a una comunità online di oltre 1.000 persone. Ha anche partecipato a una analog mission nel giardino di casa di altre persone, circondato dalle Utah State Trust Lands, nel novembre 2022. L’impresa è stata sponsorizzata dalla Mars Society e ha riguardato la ricerca sulla salute mentale, gli strumenti di ricerca geologica e l’approvvigionamento di cibo sostenibile, tutti elementi necessari per andare su Marte.
Ma non erano diretti su Marte, bensì nello Utah. A circa cinque minuti dalla cittadina di Hanksville – dove si trova “Hollow Mountain”, un distributore di benzina scavato in una formazione rocciosa – si trova il bivio per la Mars Desert Research Station. Gestita dalla Mars Society, la struttura si trova a 3,4 miglia lungo una strada sterrata chiamata N Cow Dung Road. Il paesaggio ha un aspetto ultraterreno: formazioni rocciose a forma di fungo, terreno sabbioso e granulare e colline erose di roccia rossa.
La stazione si trova in un luogo pianeggiante circondato da colline, con uno spazio abitativo cilindrico alto due piani ma con un diametro di soli 26 piedi. L’habitat si collega tramite “tunnel” fuori terra a una serra e a una cupola geodetica che ricorda la creazione iniziale di Purewal nel cortile di casa, e ospita un centro di controllo e un laboratorio.
Nel novembre 2022, Purewal vi ha portato una squadra per due settimane, con Hesterman come comandante. Nell’habitat, uno studente di astrobiologia ha cercato di coltivare funghi commestibili nei rifiuti alimentari dell’equipaggio. Un altro membro del team ha voluto verificare la possibilità di produrre yogurt con latte in polvere e batteri. Purewal, nel frattempo, stava sperimentando un robot da compagnia con intelligenza artificiale, chiamato PARO. A forma di cucciolo di foca, PARO viene solitamente utilizzato per alleviare lo stress in situazioni mediche. I membri dell’equipaggio hanno interagito con PARO indossando cinghie di monitoraggio che misuravano elementi come la frequenza cardiaca.
Dopo la fine della loro missione, hanno parlato con altri e hanno sentito parlare di problemi come gli estintori scaduti o la mancanza di formazione sulla sicurezza per i partecipanti che avrebbero usato tecnologie specializzate e sistemi di supporto vitale. Hanno consultato Emily Apollonio, ex investigatrice specializzata in incidenti aerei. Nel 2022 si è recata alle Hawaii per vivere in HI-SEAS, una stazione analog di 1.200 metri quadrati situata a 8.200 piedi di altezza sul vulcano Mauna Loa. Secondo Apollonio, HI-SEAS aveva problemi evitabili. Ad esempio, il bagno aveva solo una toilette a compostaggio, in cui l’equipaggio della missione non poteva fare pipì, e un orinatoio, che dovevano usare anche le donne. Con una bozza pubblicata a giugno, si spera di migliorare le condizioni dei partecipanti, assicurando, ad esempio, che le strutture rispettino le norme edilizie e forniscano un’adeguata assistenza medica. Vogliono inoltre incoraggiare i partecipanti analog a seguire le migliori pratiche di ricerca per garantire risultati rigorosi. Gli standard suggeriscono, ad esempio, che ogni missione abbia un piano di ricerca pre-convalidato dal ricercatore capo e dal direttore dell’habitat, un calendario per il completamento della ricerca e l’approvazione da parte dell’Institutional Review Board per gli esperimenti sull’uomo. Sebbene i progetti con finanziamenti federali o istituzionali passino comunque attraverso queste fasi, lo standard non è uniforme.
Sebbene alcuni analog abbiano già adottato protocolli rigorosi per proteggere i partecipanti, i problemi di sicurezza e le lacune in termini di inclusività di cui ha sentito parlare dai colleghi hanno ispirato Apollonio ad avviare un’azienda di formazione e consulenza chiamata Interstellar Performance Labs, per aiutare a preparare gli aspiranti analog astronaut prima delle loro missioni. Ha anche iniziato a lavorare con Purewal, Hesterman e altri su un documento chiamato “International Guidelines and Standards for Space Analogs”.
Gli standard prevedono anche la creazione di un database di ricerca che raccolga tutti gli scritti (sottoposti a revisione paritaria e no) dei progetti analog in un unico luogo. In questo modo, non si duplicano gli sforzi – come è successo al coltivatore di funghi – a meno che non si voglia verificare la replicabilità dei risultati. Inoltre, possono collegare meglio i loro studi alle esigenze delle agenzie spaziali per essere più direttamente utili e rilevanti per il mondo reale.
Nell’ambito di questo sforzo di centralizzazione, Purewal, Apollonio, Hesterman e colleghi stanno mettendo a punto quella che chiamano la World’s Biggest Analog: una missione simultanea della durata di un mese che coinvolgerà almeno 10 basi isolate in tutto il mondo, che insieme simuleranno una futura grande presenza cooperativa nello spazio.
Finora, però, i tentativi di dare alla comunità coesione e coerenza non hanno ancora affrontato pienamente l’aspetto della vita analog che mette in difficoltà molti partecipanti: la fine della missione. “Essere in una analog mission è stato meno difficile che uscirne”, dice Apollonio, parlando della propria esperienza.
Poco dopo essere uscita da HI-SEAS, ha camminato per le strade di Waikiki con suo marito. Le luci, il rumore, tutto era troppo. “Non sapevo dove guardare, non sapevo dove andare”, dice. “Non riuscivo a sentire i miei pensieri”. Quando hanno scelto un ristorante per la cena e il cameriere le ha consegnato il menu, si è bloccata. “Devo scegliere il mio cibo”, ha capito. La sensazione è stata travolgente e non si è placata.
Nel frattempo, poche altre persone hanno capito l’esperienza, dice Hesterman. “Torni a casa e sei tutto eccitato, vuoi raccontarlo a tutti”, continua. “Lo racconti a tutti una volta e poi non se ne parla più. Torni a pagare le bollette, a tagliare l’erba e via dicendo. Vuoi ancora parlarne”.
Purewal sentiva la mancanza del team e del senso di condivisione degli obiettivi e ha iniziato a cercarli al di fuori della simulazione. “Ho bisogno di ritrovare questa stessa sensazione nella mia vita quotidiana”, dice. “Abbiamo tutti bisogno della nostra squadra”.
La ricerca sull’esperienza post-missione è scarsa, dice Pagnini. Nel marzo 2023 è stato coautore di un documento di revisione, commissionato dall’Agenzia Spaziale Europea, che mirava a delineare lo stato della ricerca sul comportamento umano e sulle prestazioni nello spazio, comprese le lacune della scienza. La ricerca ha evidenziato che lo studio di come gli astronauti reagiscono e affrontano il “post-missione” è stato particolarmente trascurato. Lo stesso vale per il ritorno dallo spazio analog.
Pagnini afferma che la ricerca non è rilevante solo per gli astronauti analoghi o reali. La vita nello spazio ha delle somiglianze con la vita sulla Terra, anche per quanto riguarda le difficoltà. Il blocco causato dal Covid-19, fortemente restrittivo e prolungato, è stato simile alla partenza per una missione. “Quando siamo usciti dalla fase di blocco, entrare in contatto con le altre persone è stato un po’ strano”, racconta. Anche una vita normale sulla Terra è stata strana.
L’estraneità caratterizza anche altre esperienze, come i dislocamenti militari e il successivo ritorno alla vita domestica. “L’aspettativa è che le famiglie vivano felici e contente” una volta riunite, dice Leanne Knobloch, docente di comunicazione all’Università dell’Illinois, che ha condotto un ampio studio sulla reintegrazione delle coppie militari. “Per questo motivo il reinserimento è stato talvolta trascurato, ma sempre più ricercatori iniziano a riconoscere che si tratta di un periodo impegnativo e che non è il finale da libro di fiabe che la gente crede”.
Il lavoro della Knobloch include suggerimenti per facilitare la transizione, ad esempio preparando le persone ai problemi che probabilmente incontreranno. “Se si è pronti e si prevede che si potranno avere alcuni di questi problemi, non sarà così stressante”, dice la Knobloch. “Perché riconoscerete che sono normali”.
L’Interstellar Performance Labs di Apollonio, per esempio, sta già pianificando di includere la formazione sull’”aftercare”, preparando le persone a quello che lei chiama “effetto deorbiting” del ritorno alla vita normale.
Quando finalmente arrivò il giorno in cui Sweeney dovette lasciare il ghiacciaio Thwaites, l’aereo sembrò materializzarsi dal cielo, come se l’avamposto remoto si fosse trasformato in un aeroporto affollato. Mentre se ne andava, ha guardato il campo dove era rimasta metà della sua squadra. “Si vedeva quanto fosse piccola la nostra impronta”, dice. Un puntino in mezzo a uno spazio bianco infinito.
Da quando è sbarcata in Nord America, Sweeney ha apprezzato il tempo trascorso con la sua famiglia. Ma l’adattamento non è stato facile. “Ogni giorno che passava dopo il mio ritorno, iniziavo a sentirmi spinta in direzioni diverse”, dice. Con i numerosi progetti in corso – fare da tutor, parlare, svolgere la ricerca di dottorato – ha sentito il suo senso di sé frammentarsi. In Antartide era stata un insieme omogeneo e unico.
Ma alla Analog Astronaut Conference di maggio, sentendo parlare delle difficoltà di riadattamento di altri, Sweeney ha provato un senso di normalità. Avere una comunità di sostegno potrebbe aiutare a superare le difficoltà post-missione. Ulteriori ricerche, supportate dal nuovo database e dalle misure di standardizzazione, potrebbero aiutare a scoprire le migliori strategie di coping, insieme alle chiavi per il successo delle dinamiche dell’equipaggio, ai creatori e mitigatori di stress e agli strumenti e ai progetti che rendono più facili le attività pratiche di una missione. Forse qualcuno guarderà il database, vedrà questa lacuna scientifica e cercherà di colmarla.
Una ricerca del genere potrebbe essere utile a Sweeney e ad altri che hanno difficoltà a riadattarsi alla vita quotidiana. “Dobbiamo tornare al lavoro, dobbiamo vedere le nostre famiglie, vogliamo riprendere i progetti che stavamo facendo prima”, dice. “Ma dobbiamo anche fare spazio alla grandezza dell’esperienza appena vissuta. E riuscire a decomprimere il tutto”.
La Luna inizia a sorgere dietro il rover ARADS durante la stagione 2017 di test sul campo nel deserto di Atacama in Cile. NASA