Quando l’apparenza inganna

Stretta tra un andamento mutevole del petrolio e la scarsa coesione in seno all’Organizzazione, l’Arabia Saudita ha privilegiato il mantenimento delle quote di mercato rispetto alla massimizzazione dei proventi.

di Bassam Fattouh e Anupama Sen (Fonte ABO/OIL)

Il recente andamento dei prezzi del petrolio ha fatto sì che il ruolo dell’Arabia Saudita nel mercato del petrolio e le sue politiche petrolifere venissero alla ribalta internazionale.

Le iniziali speranze legate al fatto che l’Arabia Saudita a­vrebbe potuto “salvare” ed “equilibrare” il mercato e frenare il crollo del prezzo del petrolio hanno lasciato il passo a una narrativa al cui centro figurano “guerre dei prezzi”, “teorie del complotto” e “strategie e giochi su larga scala” volti a spingere i prezzi verso il basso per raggiungere obiettivi geopolitici più ampi.

La decisione dell’OPEC, nel novembre 2014, di non ridurre la produzione e di lasciare invariato il tetto di produzione giornaliera a 30 milioni di barili al giorno, ha suscitato un più ampio e fondamentale ventaglio di domande: la politica petrolifera dell’Arabia Saudita è cambiata?

In tal caso, nel lungo e breve periodo, come si manifesterà questo mutamento nelle dinamiche del mercato petrolifero? Il ruolo di “swing producer” si è spostato dall’Arabia Saudita ai produttori di gas di scisto statunitensi?

Uno degli obiettivi principali di questo articolo è quello di analizzare le recenti linee comportamentali dell’Arabia Saudita alla luce dei mutamenti in atto nei mercati mondiali del greggio, delle dinamiche interne dell’OPEC e delle caratteristiche strutturali dell’economia nazionale del regno e del suo settore energetico.

Le politiche petrolifere e i compromessi dell’Arabia Saudita

L’analisi della politica petrolifera dell’Arabia Saudita deve essere condotta in stretto rapporto con l’evoluzione delle dinamiche del mercato mondiale del petrolio. Essa è anche fondamentalmente radicata e plasmata da alcune caratteristiche salienti del suo sistema politico, economico e sociale.

Tra i fattori chiave che incidono direttamente sulla politica del regno si annoverano:

• Un’elevata dipendenza dai proventi del petrolio.

Nonostante svariati tentativi di diversificare la propria economia, l’Arabia Saudita resta notevolmente dipendente dal petrolio. Il governo continua a ricoprire un ruolo fondamentale nel percorso di sviluppo del regno, mentre la spesa pubblica, sostenuta dal reddito petrolifero, resta il motore principale della crescita dell’economia locale, compreso il settore privato non petrolifero. Dato il ruolo centrale che il petrolio riveste nell’economia nazionale, l’obiettivo della politica incentrata sull’ottimizzazione dei proventi derivanti dal petrolio costituirà sempre un punto cruciale di qualsiasi decisione in merito alla produzione.

• Le enormi riserve di petrolio disponibili per diversi decenni. Secondo la BP Statistical Review of World Energy 2014, l’analisi statistica 2014 sull’energia mondiale di BP, l’Arabia Saudita possiede circa 266 miliardi di barili di riserve accertate, con un coefficiente riserva-produzione di oltre 63 anni.
Per questo, garantire la domanda a lungo termine del proprio petrolio è un obiettivo politico cruciale da bilanciare con altri obiettivi quali proventi e prezzi del petrolio più elevati. 
La riduzione della domanda, a causa dei prezzi elevati e volatili del petrolio e/o a causa di politiche di sostituzione del petrolio orientate da problematiche di sicurezza energetica e legate al cambiamento climatico, rappresenta una sfida a lungo termine, tanto più che i ripetuti tentativi dell’Arabia Saudita di diversificare la sua base economica si stanno rivelando infruttuosi.

• Il predominio dell’Arabia Saudita nella produzione e nel commercio del petrolio.

Nel 2013, l’Arabia Saudita ha prodotto circa 9,7 milioni di barili al giorno e, sempre al giorno, ne ha esportati oltre 7 milioni. Produttrice di numerose varietà di petrolio, dall’ultraleggero al superpesante, l’Arabia Saudita è inoltre in grado di soddisfare la domanda di molte tipologie di raffinerie. Dato questo profilo di produzione ed esportazione, per garantire sbocchi per il proprio greggio è importante che l’Arabia Saudita sia presente in mercati chiave come Stati Uniti, Europa e Asia.

• La disponibilità di capacità produttiva inutilizzata.

L’Arabia Saudita è uno dei pochi produttori con un’ampia capacità produttiva inutilizzata da poter sfruttare efficacemente per riequilibrare il mercato in tempi relativamente brevi.
Inoltre, l’Arabia Saudita è l’unico paese che dispone di una politica ufficiale per preservare la capacità produttiva inutilizzata.
Per questo, gli investimenti e la politica produttiva devono essere orientati all’ottimizzazione delle dimensioni della sua capacità produttiva inutilizzata e alla soddisfazione della domanda interna, che cresce a ritmo sostenuto.
Non è auspicabile né una capacità produttiva inutilizzata cospicua né una capacità limitata. Da un lato, una limitata capacità produttiva inutilizzata ridurrebbe la capacità dell’Arabia Saudita di tranquillizzare i mercati del petrolio in caso di interruzioni delle forniture. Dall’altro, una cospicua capacità produttiva inutilizzata spingerebbe al ribasso i prezzi del petrolio, intaccando sia la quota di mercato dell’Arabia Saudita sia il tasso di rendimento del suo investimento.

• La stabilità politica e interna.

Trovandosi al centro di una regione caratterizzata da notevole instabilità politica, soprattutto a seguito delle rivolte arabe, l’Arabia Saudita ha particolare necessità di mantenere la stabilità interna. E ciò determina le politiche economiche chiave, come le decisioni del governo in merito alla spesa, il ritmo delle riforme economiche (tra cui la riforma dei prezzi dell’energia), nonché le relazioni regionali e internazionali del regno.

Dato l’ampio ventaglio di obiettivi politici (alcuni a breve termine, altri a lungo termine), e il numero limitato di strumenti a disposizione dei responsabili delle politiche petrolifere (principalmente regolazione della produzione e segnalazione al mercato), l’Arabia Saudita si troverà sempre costretta a compromessi nelle sue decisioni sulla produzione petrolifera.

Emerge una situazione critica tra l’obiettivo di ottimizzazione dei proventi e quello del mantenimento della quota di mercato e dei volumi di produzione ed esportazione oltre un determinato livello.

Tale compromesso è plasmato dalle dinamiche interne dei paesi e dalle condizioni esterne del mercato del petrolio, entrambe segnate dall’incertezza. È nel contesto dell’incertezza generata da tali compromessi che questo articolo tenta di interpretare il comportamento dell’Arabia Saudita nel corso dell’ultimo ciclo dei prezzi del petrolio.

Non sarà l’unico attore dominante del mercato

Il ciclo dei prezzi del petrolio 2014-2015 ha generato sensibile speculazione sui fattori trainanti della politica petrolifera dell’Arabia Saudita. Alcune interpretazioni si basano sul presupposto che l’Arabia Saudita non abbia timori in merito a una riduzione del prezzo del petrolio o che addirittura favorisca una politica di riduzione dei prezzi nel contesto attuale, al fine di raggiungere obiettivi geopolitici più ampi.

Un punto di vista che ha acquisito particolare credito è che l’Arabia Saudita stia collaborando con gli Stati Uniti per ridurre il prezzo al fine di esercitare pressioni sulle economie russe e iraniane dipendenti dalle esportazioni di petrolio.

Ma tale spiegazione è problematica. È dall’embargo petrolifero del 1973 che l’Arabia Saudita non utilizza il petrolio come strumento politico; negli ultimi anni un motivo d’orgoglio è stato il fatto che le decisioni sulla produzione e sugli investimenti nel settore petrolifero sono state dettate esclusivamente da considerazioni commerciali, indipendenti da qualsiasi influenza degli Stati Uniti.

Inoltre, si deve mettere in discussione l’efficacia del petrolio come arma politica e ci si deve chiedere se una compressione dei proventi del petrolio della Russia o dell’Iran potrebbe determinare un radicale (o anche lieve) mutamento della politica estera di questi paesi. Ma ancora più significativo è il fatto che tali interpretazioni tralasciano di considerare alcune caratteristiche fondamentali dell’economia saudita.

La dipendenza dai proventi del petrolio

Come accennato in precedenza, l’Arabia Saudita dipende in modo significativo dai proventi del petrolio, mentre gli impegni di spesa del governo a livello nazionale e regionale continuano ad aumentare, soprattutto a seguito delle rivolte arabe; una politica di deliberata riduzione dei prezzi sarebbe perciò autolesionista.

Infatti, nel maggio 2014, poco prima dell’inizio del calo dei prezzi del petrolio, Ali al-Naimi, il ministro del Petrolio saudita, ha dichiarato: “Cento dollari rappresenta un prezzo equo per tutti, consumatori, produttori e società petrolifere.”

Tuttavia, a questo “prezzo equo” relativamente elevato e stabile, si sono evidenziate sempre più notevoli dinamiche di domanda e offerta.

Dal lato dell’offerta, la produzione degli Stati Uniti è incrementata a un ritmo eccezionale, fornendo un supplemento di greggio (compresi i condensati da impianto di trattamento) pari a 1,2 milioni di barili al giorno nel 2014.

Dal lato della domanda, tra il 2011 e il 2014, la crescita globale della domanda di petrolio ha proseguito lungo una tendenza al ribasso, riflettendo un indebolimento delle prospettive economiche.

Nonostante la maggiore visibilità della dinamica domanda e offerta, negli ultimi anni non è stata rilevata alcuna politica petrolifera proattiva da parte dell’Arabia Saudita volta a ridurre i prezzi.

Al contrario, l’Arabia Saudita ha convalidato la soluzione che prevede il prezzo del petrolio fissato a cento dollari, segnalando l’equità di tale prezzo al mercato.

Questo riflette una chiara asimmetria nella risposta che riguarda la politica petrolifera. Per provocare una risposta saudita proattiva, i prezzi devono segnare un incremento a livelli estremamente elevati (questo è stato evidente nella prima metà del 2008, quando i prezzi hanno toccato quasi 150 dollari, e nei primi mesi del 2012, quando i prezzi del petrolio hanno registrato un sensibile incremento a fronte di un’intensificazione dei timori per gli attacchi di Stati Uniti e Israele contro l’Iran).

Tutti i paesi esportatori di petrolio sono consapevoli del fatto che a fronte di un calo del prezzo del petrolio determinato da forniture in eccesso ex ante, la cooperazione sul fronte della produzione costituisce la modalità più efficace per imporre un’inversione al declino dei prezzi.

Lasciare che i prezzi determinino un azzeramento delle forniture in eccesso è una modalità che comporta rischi e incertezze. Anche se un decremento dei prezzi del petrolio contribuirà a stimolare la domanda, e potenzialmente a rallentare il ritmo di crescita dell’offerta, in alcune regioni (facendo sì che alcuni progetti subiscano ritardi o rinvii) questi effetti tendono ad evidenziarsi con il tempo.

Inoltre, affinché un calo del prezzo del petrolio abbia un effetto duraturo sull’equilibrio tra domanda e offerta, le aspettative sul prezzo devono essere scoraggiate a lungo.

Al contrario, i tagli alla produzione (e le interruzioni delle forniture) rappresentano ancora la modalità più rapida ed efficace di sostenere l’equilibrio del mercato petrolifero. Raramente vi è disaccordo su questo principio di base: in genere vi è disaccordo in merito a quali paesi dovrebbero farsi carico del taglio.

Per molto tempo i paesi non membri all’OPEC hanno lasciato che a effettuare i tagli fossero i paesi dell’OPEC. A loro volta, molti membri dell’OPEC vorrebbero che a farsene carico fosse l’Arabia Saudita.

Le aspettative che vedevano l’Arabia Saudita riequilibrare da sola il mercato sono in qualche modo sorprendenti, poiché il regno ha chiarito in diverse occasioni in modo molto netto che non avrebbe tagliato la produzione in modo unilaterale. Robert Mabro, fondatore ed ex direttore dell’Oxford Institute for Energy Studies, ha così commentato nel 1998: “l’intenzione dell’Arabia Saudita di tagliare la produzione autonomamente per influenzare il corso dei prezzi del petrolio non può essere data per scontata.”

In effetti, a seguito del crollo dei prezzi nel 1985, nessuno dovrebbe realisticamente attendersi che l’Arabia Saudita agisca come l’unico “swing producer”. Tra il 1973 e il 1985, l’OPEC ha esercitato il potere finale di determinazione dei prezzi fissando il prezzo marker (ovvero il prezzo di riferimento) ma in questo modo era costretta a convivere con volumi di produzione variabili.

Con la costante decrescita della domanda del suo petrolio, l’OPEC ha visto un decremento della sua quota di produzione mondiale di petrolio dal 51 per cento del 1973 al 28 per cento del 1985. Sotto questa pressione, sono emersi via via disaccordi tra i membri dell’OPEC.

L’Arabia Saudita ha perso quote di mercato a ogni aumento del prezzo marker, perciò si è opposta a incrementi del prezzo.

Altri membri dell’OPEC hanno fatto pressioni in favore di notevoli incrementi del prezzo, immettendo al contempo sul mercato ulteriore petrolio, nel tentativo di incrementare i proventi. L’introduzione da parte dell’OPEC di un sistema formale di quote si è rivelata inefficace nel prevenire l’incremento di produzione al di sopra delle quote (in altre parole “barare”), e, a metà degli anni 1980, era ormai chiaro che l’OPEC stava perdendo il potere di definire il prezzo del petrolio.

I tentativi dell’Arabia Saudita di difendere il prezzo marker hanno determinato un’enorme perdita di quote di mercato: la domanda di petrolio saudita è scesa da 10,2 milioni di barili al giorno in 1980 a 3,6 milioni di barili al giorno nel 1985.

Il declino dei volumi di produzione e la perdita di quote di mercato si sono rivelati molto dispendiosi per l’Arabia Saudita.

Il mercato come strumento riequilibratore

Alla fine del 2014, rendendosi conto che membri chiave dell’OPEC e produttori non-OPEC come la Russia non erano disposti a condividere il peso del taglio necessario per stabilizzare il mercato (al contrario, alcuni produttori, come l’Iraq, l’Iran e la Russia, hanno fatto capire che avrebbero continuato a piazzare più barili sul mercato), l’Arabia Saudita ha deciso di “lasciare al mercato” il compito di azzerare le forniture in eccesso.

L’Arabia Saudita temeva concretamente che un taglio della sua produzione sarebbe stato compensato da un aumento della produzione all’interno e al di fuori dell’OPEC, con scarso effetto sui prezzi.

L’incubo finale per qualsiasi esportatore è una riduzione sia della quota di mercato sia dei suoi proventi. Sebbene la strategia di non regolare la produzione comporterebbe come conseguenza negativa a breve termine una riduzione dei proventi del petrolio, essa potrebbe determinare un aumento della quota di mercato, poiché la produzione nell’area non OPEC a costo elevato inizierebbe a rallentare a seguito della riduzione dei prezzi.

Inoltre, l’Arabia Saudita ha dovuto affrontare una spietata concorrenza in mercati chiave a seguito delle fluttuazioni dei flussi commerciali dei prodotti ricavati dal greggio e dei prodotti petroliferi provocate dall’aumento della produzione di petrolio negli Stati Uniti.

La riduzione delle importazioni statunitensi ha fatto sì che molti esportatori tradizionalmente legati agli Stati Uniti (dall’Africa occidentale all’America Latina) abbiano dovuto trovare nuovi mercati, e lo hanno fatto soprattutto in Asia.

Al fine di mantenere la sua quota di mercato in questa regione in rapida crescita, l’Arabia Saudita ha dovuto competere in modo più aggressivo in Asia, non solo con i produttori al di fuori della regione, ma anche con i produttori della regione, come l’Iran, l’Iraq e il Kuwait.

Anche i fattori interni hanno influenzato la decisione di “affidarsi al mercato”.

L’Arabia Saudita è in una posizione finanziaria relativamente più favorevole per sostenere una riduzione dei prezzi nel breve termine rispetto a molti altri paesi esportatori di petrolio.

Negli ultimi anni, il regno ha accumulato consistenti attività estere mentre il debito è piuttosto ridotto, sia in valore assoluto sia in relazione al PIL; la sua capacità di contrarre prestiti dalle banche nazionali e sui mercati internazionali è quindi notevole.

Il gas di scisto USA: una nuova sfida

L’avvento del gas di scisto statunitense ha determinato una nuova serie di sfide, rendendo il calcolo del compromesso tra l’ottimizzazione dei ricavi e il mantenimento della quota di mercato più arduo e incerto.

Le incertezze sono legate a una serie di fattori: l’elasticità del prezzo del petrolio di giacimenti sigillati; il prezzo al di sotto del quale la crescita dell’offerta di tight oil statunitense rallenterebbe i tempi necessari; e se tale rallentamento potrebbe seguire un percorso lineare o non lineare.

Un’incertezza chiave riguarda l’elasticità della curva dell’offerta di tight oil statunitense, soprattutto in un mercato in crescita. Se la curva dell’offerta risulta molto elastica, questo contribuirà a frenare il prezzo del petrolio, esattamente come un aumento del prezzo al di sopra di una certa soglia genererà un notevole feedback di offerta.

In tale contesto, i provvedimenti presi dall’Arabia Saudita per difendere il prezzo del petrolio avrebbero un successo limitato, poiché il taglio della propria produzione sarebbe compensato da un aumento della produzione statunitense di gas di scisto, soprattutto poiché i produttori statunitensi di gas di scisto possono predisporre copertura dei rischi per la propria produzione a fronte di prezzi più elevati.
Inoltre, il costo del pareggio è notevolmente asimmetrico sia tra giacimenti di scisto diversi sia all’interno dei giacimenti. 

Questo rende decisamente ardua qualsiasi previsione in merito alla dimensione della risposta dell’offerta in un contesto di decrescita dei prezzi, in quanto ciò dipenderà dal calcolo economico “pozzo per pozzo” e dal grado di miglioramento dell’efficienza produttiva.

Infine, a differenza dei giacimenti tradizionali, i tassi di declino dei pozzi di tight oil sono molto accentuati.

L’unico modo di aumentare la produzione è quindi perforare centinaia di nuovi pozzi, che richiedono un notevole incremento delle spese per capitale.

Nel corso degli anni questa operazione è stata finanziata dai produttori di scisto statunitensi, che hanno così accumulato notevoli entità di debito.

Pertanto, oltre alle economie di produzione, il gas di scisto statunitense è influenzato da altri fattori in un contesto di riduzione dei prezzi; tra questi il costo del debito e la disponibilità di investitori finanziari a rifinanziare debiti esistenti e a estendere nuove linee di credito.

Un orizzonte di compromesso

Così, plasmata da condizioni di mercato mutevoli, dalla mancanza di coesione tra i membri dell’OPEC e dall’avvento del gas di scisto statunitense, il compromesso nel contesto di mercato attuale ha favorito la quota di mercato rispetto alla massimizzazione dei proventi del petrolio a breve termine.

In altre parole, se le caratteristiche strutturali dell’economia nazionale saudita implicano che l’ottimizzazione dei proventi rimanga un obiettivo chiave, questo dovrebbe essere bilanciato rispetto all’obiettivo di mantenere il volume al di sopra di un determinato livello per evitare di perdere quote di mercato e ritrovarsi con elevata capacità inutilizzata, soprattutto in considerazione dei notevoli investimenti che l’Arabia Saudita ha intrapreso nel suo settore energetico negli ultimi anni.

Nel 1986, il compromesso rilevante nel contesto di quel periodo storico, ha favorito il volume rispetto al prezzo, dopo che i volumi erano scesi a livelli inaccettabili.

Nel 1998, il compromesso ha favorito il prezzo rispetto al volume, dato che l’impatto decisamente negativo di prezzi esageratamente bassi sui ricavi ha generato un accordo su tagli collettivi sia da parte di produttori OPEC sia di produttori non OPEC.

Dal punto di vista dell’Arabia Saudita, il mantenimento della quota di mercato, a qualunque costo, non è una posizione irreversibile e la sua politica potrebbe subire inversioni di rotta a seconda del contesto di mercato e del comportamento di altri operatori del mercato.

La sua politica petrolifera è flessibile e non esiste alcun “prezzo del petrolio” preferito. Il prezzo rimane un bersaglio mobile, dipendente dalle condizioni del mercato.

Questo spiega perché, nel corso degli ultimi anni, il prezzo preferito ha continuato ad aumentare da 20 a 60 dollari, a 75 dollari, e più recentemente sino a 100 dollari.

Implicazioni nel mercato del petrolio

A prescindere dalle ragioni dietro l’ultima decisione dell’Arabia Saudita, la perdita percepita dal mercato del “feedback saudita” ha una serie di implicazioni sulle dinamiche del mercato del petrolio.

In mancanza di un meccanismo veloce (come quello del taglio dell’OPEC) per equilibrare un mercato saturo, questo può solo bilanciarsi attraverso i cambiamenti tra offerta e domanda, in risposta ai segnali del prezzo.

Dato l’alto grado di incertezza, insieme alle diverse aspettative in relazione alle tempistiche e la rilevanza di queste risposte, il mercato potrebbe diventare più incline a mancare o superare l’obiettivo, per cui drastiche regolazioni dei prezzi del petrolio potrebbero diventare più frequenti.

La decisione di “lasciar fare al mercato” ha anche delle implicazioni di lungo termine per quanto riguarda l’investimento nell’ambiente.

Il fatto che i prezzi potrebbero, nel futuro, fluttuare largamente, implica che la percezione del rischio nell’investimento in progetti petroliferi sia cambiata.

In aggiunta al prezzo alto del petrolio, l’originale stabilità del prezzi e le aspettative implicite che l’OPEC possa stabilire un livello minimo del prezzo del petrolio (garantendo in effetti il tasso di ritorno negli investimenti in nuovi progetti energetici) hanno incoraggiato l’investimento e l’ingresso di nuove fonti di offerta nel mercato.

L’avvento dell’aumentata volatilità, insieme alla percezione che i prezzi possano fluttuare ampiamente, causerebbe la riconsiderazione da parte degli investitori (incluse le compagnie nazionali e internazionali) dei rischi nei nuovi progetti energetici, scoraggiando l’investimento in generale e incoraggiando la scelta dell’attesa. Pertanto, dalla prospettiva dell’Arabia Saudita, la volatilità dei prezzi può accelerare la risposta dell’offerta. Tuttavia, la maggiore volatilità e le oscillazioni più nette dei prezzi del petrolio accelerano pure le risposte della domanda e aumentano la sfida dell’economia domestica, che rimane ancora molto colpita dalle oscillazioni dei prezzi del petrolio.

L’articolo è disponibile anche su abo.net

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