Quando dico che ti amo

I terminali portatili comportano un’alterazione dei confini tra pubblico e privato, mettendo in crisi il rispetto di sé e del prossimo.

di Jonathan Franzen

Uno dei più seri motivi di irritazione nei confronti della moderna tecnologia è che ogni qualvolta una nuova scoperta ha peggiorato la qualità della mia vita e continua a trovare nuove strade per tormentarmi, non posso fare altro che protestare per un anno o due prima di sentirmi dire che devo smetterla di andare controcorrente. Le cose si stanno ripetendo di questi tempi.

In realtà non ho mai avuto una posizione pregiudiziale nei confronti dei cambiamenti tecnologici. La posta vocale digitale e l’identificatore di chiamata, che insieme hanno abbattuto la tirannia dello squillo telefonico, mi sembrano due delle più grandi invenzioni della fine dello scorso secolo. Allo stesso modo adoro il mio BlackBerry, che mi permette di liquidare lunghe e non desiderate e-mail con qualche rapida riga telegrafica, di cui il ricevente è nondimeno obbligato a essere grato se non altro perché le ho battute con i miei pollici. Per non parlare delle mie cuffie auricolari antirumore, con cui posso fare dirompere il rumore bianco a basse frequenze (“rumore rosa”) che copre perfino il latrato televisivo più persistente del vicinato: non me ne separerei mai. Che dire poi del meraviglioso universo della tecnologia DVD e degli schermi ad alta definizione, che mi hanno tenuto lontano dalla lordura dei pavimenti dei cinema e dagli interminabili mormorii degli spettatori, interrotti solamente dallo sgranocchiamento degli immancabili pop corn. Sublime!

La privacy, per me, non consiste nel celare la mia vita privata alle altre persone, ma nell’evitare che la vita degli altri irrompa nella mia. Per questa ragione, anche se non disdegno le tecnologie che migliorano la privacy, apprezzo senza riserve tutto ciò che non mi obbliga a una qualche forma di interazione. Se qualcuno sceglie di passare un’ora al giorno a mettere a punto il suo profilo su Facebook o non vede alcuna differenza tra la lettura di Jane Austen su Kindle, l’e-book di Amazon, o su una pagina stampata, o ritiene il videogioco Grand Theft Auto IV l’opera d’arte come compendio di tutte le arti ipotizzata da Wagner, non posso che essere felice per lui, a patto che non interferisca con la mia vita.

I progressi tecnologici che mi creano problemi sono le cose insulse che continuano a esistere, le offese al buon senso che provocano un senso di sfinimento. Gli schermi televisivi all’aeroporto, per esempio: sembra che solo un viaggiatore su dieci le guardi (a meno che non trasmettano una partita di calcio), mentre per gli altri nove rappresentano nient’altro che un fastidioso rumore. Anno dopo anno; un aeroporto dietro l’altro; un piccolo e permanente, ma significativo, abbassamento della qualità della normale vita di un viaggiatore. Un altro esempio è rappresentato dall’obsolescenza pianificata del buon software rimpiazzato da un cattivo software. Non riesco ancora ad accettare che il miglior programma finora scritto di elaborazione testuale, WordPerfect 5.0 per DOS, non possa funzionare con alcun computer oggi in vendita. Volendo, in teoria, è possibile farlo girare sulla piccola finestra di emulazione dell’hardware DOS di Windows, ma le dimensioni minuscole e la rozza grafica dell’emulatore rappresentano un deliberato insulto da parte di Microsoft a quanti di noi non vorrebbero usare un programma con caratteristiche così pesanti. WordPerfect 5.0 era indubbiamente primitivo per l’editoria elettronica, ma insuperabile per chi voleva solo scrivere. Elegante, privo di difetti, piccolo di dimensioni è stato schiacciato da Word, un programma invadente, obeso, monopolistico e poco affidabile. Se non avessi avuto la piacevole abitudine di raccogliere i vecchi 386 e 486 nel ripostiglio del mio ufficio, non avrei potuto continuare a usare WordPerfect. Ora mi è rimasto un solo 486. E le persone hanno la sfrontatezza di rimproverarmi se non spedisco loro testi in un formato intelligibile al potente e onnipresente Word. Miei cari, ormai viviamo nel mondo di Word e non ci sono scappatoie.

Ma queste sono solo piccole seccature. La conquista tecnologica che ha provocato un danno duraturo rilevante sulla vita sociale – conquista che, malgrado le conseguenze negative che sta provocando, non si può criticare pubblicamente per il rischio di esporsi al ridicolo – è il telefono cellulare.

Solo dieci anni fa, New York City (la città in cui vivo) era popolata di spazi pubblici, apprezzati da tutti, nei quali i cittadini dimostravano il rispetto per la loro comunità non obbligando gli altri ad ascoltare insulse confidenze sulla loro vita quotidiana. Allora il mondo non era stato ancora conquistato dal trionfo della conversazione banale. C’era chi usava il Nokia come segno di ostentazione o simbolo del benessere. O, più generosamente, lo sopportava come una calamità o lo utilizzava per necessità. In realtà, nella città si stava assistendo a un graduale passaggio dalla cultura della nicotina alla cultura del cellulare. Un giorno dal taschino della camicia si intravedeva la scritta Marlboro, il giorno successivo si poteva leggere Motorola. Un giorno una ragazza in giro da sola teneva le mani e la bocca intorno a una sigaretta, il giorno successivo era impegnata in una animata conversazione con una persona lontana. Un giorno ci si aggirava nella sala d’attesa del primo figlio con un pacchetto di Kool, il giorno successivo con uno schermo a colori. Un giorno i viaggiatori si accendevano una sigaretta appena scesi dall’aereo, il giorno successivo accendevano il cellulare. Il tradizionale pacchetto di sigarette al giorno si è trasformato in bollette telefoniche di centinaia di dollari al mese. L’inquinamento da fumo di tabacco è diventato inquinamento sonoro. Malgrado il cambiamento repentino della sostanza inquinante, lo stato di sofferenza di una maggioranza responsabile nella mani di una minoranza compulsiva nei ristoranti, negli aeroporti e negli altri spazi pubblici, rimaneva paradossalmente costante. Mi ricordo che nel 1998, non molto dopo che avevo smesso di fumare, ero seduto in metropolitana e osservavo gli altri viaggiatori che armeggiavano nervosamente sui loro telefonini o mordevano le punte delle antenne che allora tutti i cellulari possedevano o si tenevano stretti al petto i loro apparecchi come mano materna e provavo un sentimento molto vicino alla compassione nei loro confronti. Mi sembrava ancora una questione aperta capire fino a che punto saremmo arrivati: se New York voleva veramente diventare una città di sonnambuli telefono-dipendenti che passeggiavano sui marciapiedi avvolti nelle loro sgradevoli nubi di vita privata o se la coscienza di un sé pubblico rispettoso di alcuni limiti avrebbe prevalso.

Come si è poi visto, era già tutto deciso. Il telefono cellulare non era uno di quegli sviluppi moderni, come il Ritalin o gli ombrelli giganteschi, di fronte ai quali si creano fortunatamente significative sacche di resistenza civile. Il suo trionfo fu rapido e totale. I suoi abusi vennero denunciati e deplorati in saggi, articoli e lettere a vari direttori e criticati in forme ancora più aspre quando gli abusi diventavano più marcati, ma non si è andati oltre. Si è preso atto delle lamentele e si è effettuato qualche piccolo aggiustamento ( la “carrozza tranquilla” dei treni Amtrak; piccoli segnali, fin troppo discreti, per introdurre limitazioni nei ristoranti e nelle palestre), ma la tecnologia dei cellulari è stata libera di continuare a provocare danni senza dover fronteggiare nuove critiche, che sarebbero comunque apparse stantie e fuori moda.

Ma il solo fatto che il problema sia ora a noi familiare non significa che non escano gli occhi fuori dalle orbite a un automobilista intrappolato dietro a qualcuno che sta beatamente parlando con il suo telefonino nella corsia di sorpasso, tranquillamente affiancato alla macchina che procede nella corsia per i veicoli lenti. In realtà, la nostra cultura commerciale asseconda l’idea che il guidatore che parla al cellulare sia nel giusto e che tutti noi stiamo sbagliando, in quanto non cogliamo le occasioni offerte dal programma di libertà e mobilità, opportunamente prezzato, e a minutaggio illimitato. La cultura commerciale ci spiega che se siamo arrabbiati nei confronti del guidatore “chiacchierone” è perché, a differenza di lui, non siamo in pace con noi stessi. Cosa c’è di sbagliato in noi, allora? Perché non cerchiamo di rilassarci e non tiriamo fuori i nostri cellulari, con le relative offerte di vantaggiosi sconti per famiglie e per amici, e iniziamo a fare il nostro comodo, magari mentre ci troviamo sulla corsia di sorpasso?

Chi non si comporta socialmente in modo maturo difficilmente sarà portato ad assumere un atteggiamento più responsabile se ogni forma di critica è ridotta al silenzio da un conformismo dilagante. Queste persone diventeranno ancora più aggressive nei loro comportamenti. Al momento, una delle piaghe nazionali è l’acquirente impegnato in una telefonata mentre si trova alla cassa. La combinazione tipica dalle mie parti, a Manhattan, coinvolge una giovane donna bianca, con una laurea presa da poco in qualche costosa università, e una giovane donna locale, nera o ispanica, all’incirca della stessa età, ma socialmente più svantaggiata. Si tratta, probabilmente, di eccesso di vanità liberale aspettarsi che la commessa alla cassa interagisca con la cliente o ne apprezzi la determinazione a interagire con lei. Considerando la ripetitività e la scarsa remunerazione del lavoro che sta svolgendo, è suo diritto manifestare noia o indifferenza; nel caso peggiore, la si può accusare di scarsa professionalità. Ma ciò non autorizza la cliente a trascurare l’obbligo morale di riconoscerne l’esistenza come persona. Anche se è vero che una parte delle commesse sembra non dare peso a questa indifferenza, una buona fetta si irrita e manifesta disappunto o rabbia nel vedere che la cliente non abbandona il telefonino neanche per qualche secondo di interazione diretta. Neanche a dirlo, la cliente, come il guidatore chiacchierone sulla corsia di sorpasso, è totalmente inconsapevole di disturbare chi ha intorno. Nella mia esperienza, più lunga è la fila che ha alle spalle, più facile è che si metta a pagare il suo conto di 1 dollaro e 98 con una carta di credito. E non la carta con il microchip, che passa rapidamente, ma quella che bisogna aspettare la ricevuta stampata e poi (solo a quel punto) con una lentezza da zombie si passerà il cellulare da un orecchio all’altro e goffamente reggerà il telefono tra la spalla e l’orecchio mentre con l’altra mano firmerà la ricevuta e continuerà a manifestare i suoi dubbi se incontrare quel tipo di Morgan Stanley al wine bar al centro.

A essere sinceri, c’è una ricaduta sociale positiva di questi comportamenti deprecabili. La nozione astratta di spazi pubblici governati da regole civili, come valore da difendere, può essere quasi del tutto scomparsa, ma rimane una discreta consolazione a ritrovarsi di volta in volta in quelle microcomunità di vittime che subiscono le conseguenze dei cattivi comportamenti. Guardare fuori dal finestrino della propria macchina e leggere la rabbia sulla faccia di chi si trova in fila dietro il guidatore con il telefonino in corsia di sorpasso o incrociare lo sguardo della commessa alle prese con la cliente al telefonino e scuotere la testa insieme a lei, ci fa sentire meno soli.

Per questa ragione, di tutti i possibili cattivi usi del cellulare, il comportamento che mi irrita più profondamente è quello che sembra, per la mancanza di vittime visibili, non dar fastidio a nessuno. Mi riferisco all’abitudine, del tutto marginale dieci anni fa e ora universale, di porre fine alle conversazioni telefoniche scandendo a voce alta le parole “love you!” O, ancora più opprimente e irritante: “I love you!” Quando lo sento, vorrei andare a vivere in Cina, dove non capisco la lingua. Mi viene voglia di urlare per la rabbia.

La mia irritazione nei confronti dell’invadenza dei cellulari è semplice. Non voglio che, mentre sto comprando i calzini ai grandi magazzini o facendo la fila per comprare un biglietto assorto nei miei pensieri o provando a leggere un romanzo su un aereo in attesa di partire, la mia immaginazione venga a forza trascinata nella banale quotidianità della vita della persona che si trova vicino a me. La vera essenza della volgarità dei telefoni cellulari, come fenomeno sociale – le cattive notizie che portano altre cattive notizie – è che consente e incoraggia l’imposizione di ciò che è personale e individuale su ciò che è pubblico e comunitario. E non ci sono espressioni più significative di “ti voglio bene”, pena più pesante che una persona può infliggere a chi lo circonda in uno spazio pubblico. Persino una frase come “vaffanculo, testa di cazzo” è meno invadente, perché sono le parole che chi è arrabbiato talvolta dice in pubblico e che può essere facilmente riferito a un estraneo.

La mia amica Elisabetta mi rassicura che questa nuova piaga nazionale del “ti voglio bene” ha il suo aspetto positivo: una sana reazione contro le dinamiche familiari repressive della nostra giovinezza protestante di qualche decennio fa. Cosa mai ci sarebbe di sbagliato, mi chiede retoricamente Elisabetta, nel dire a tua madre che le vuoi bene o a sentirti dire che lei ti vuole bene? Se uno dei due morisse prima di poterlo dire ancora? Non è positivo che ci si possa scambiare queste tenerezze così liberamente?

Riconosco la possibilità che, se messo a confronto con una qualsiasi altra persona in una sala d’attesa dell’aeroporto, io possa essere definita una persona straordinariamente fredda e distaccata; è possibile che l’impellente e repentina sensazione di amare qualcuno (un amico, un coniuge, un familiare), che per me rappresenta una condizione talmente importante e particolare da voler centellinare la frase che la esprime pienamente, è per le altre persone così comune e sperimentata in continuazione da poter essere provata ed espressa più volte in una unica giornata senza che perda minimamente il suo valore. è anche possibile, però, che le frequenti ripetizioni facciano perdere alle frasi il loro significato. Joni Mitchell, nell’ultimo verso di Both Sides Now testimoniava il solenne stupore di dire ti amo “a voce alta”: di servirsi della vocalità per un sentimento così intenso. Stevie Wonder, in un testo scritto diciassette anni dopo, ci racconta di una telefonata in un pomeriggio qualsiasi solo per dire “ti amo” e trattandosi di Stevie Wonder (che probabilmente è una persona più espansiva di quanto lo sia io) mi ha quasi convinto della sua sincerità, almeno fino all’ultima strofa del ritornello, in cui aggiunge: “e te lo dico dal profondo del mio cuore”. Una simile dichiarazione non è credibile per una persona che realmente dice qualcosa dal profondo del cuore.

In effetti, se sto acquistando dei calzini ai grandi magazzini e una mamma dietro di me urla “ti voglio bene” nel suo telefonino, non posso fare altro che pensare di trovarmi di fronte a una rappresentazione, una recita raffinata realizzata pubblicamente, spavaldamente imposta agli altri. è vero che una varietà di situazioni domestiche vengono scaraventate nell’arena pubblica anche se non erano destinate a un consumo pubblico; è vero che le persone si liberano dei propri pesi. Ma la frase “ti voglio bene” è talmente carica di significato e il suo uso è una manifestazione così palese di consapevolezza che per me è difficile credere che mi venga fatta ascoltare accidentalmente. Se la dichiarazione d’amore della madre fosse spontanea e tradisse un carico emotivo privato, la donna non sarebbe stata attenta a preservarla dall’ascolto delle persone intorno a lei? Se veramente ciò che ha detto le veniva dal fondo del cuore, non avrebbe pronunciato quelle parole in modo riservato? Ascoltandola di sfuggita, da estraneo, ho la sensazione di essere messo di fronte a una aggressiva dichiarazione di un diritto acquisito. Nella migliore delle ipotesi la persona sta dicendo a me e a chiunque sia presente: “Per me, le mie emozioni e la mia famiglia sono più importanti del tuo benessere sociale”. E anche, abbastanza di frequente, sospetto che sottintenda: “Voglio che sappiate che a differenza di molti altri, incluso quel gelido bastardo di mio padre, io sono quel tipo di persona che dice sempre ai suoi cari di amarli”.

O forse sono io, con il mio carattere profondamente irritabile e lunatico, a proiettare i miei sentimenti? L’affermazione del telefono cellulare è legata all’11 settembre del 2001. Sulla nostra coscienza collettiva è segnato quel giorno con l’immagine dei cellulari come canali confidenziali per persone in situazioni disperate. In ogni ti amo gridato che oggi ascolto, come nella generale frenesia nazionale di comunicazione – è d’obbligo tra genitori e figli sentirsi per telefono una, due, cinque, dieci volte al giorno – non è difficile rintracciare l’eco di quei laceranti e terribili ti amo, peraltro del tutto giustificati, pronunciati nei quattro sciagurati aerei e nelle due sventurate torri. Ed è precisamente quest’eco, il fatto che si tratti di un’eco, la retorica sentimentale di questo meccanismo a irritarmi.

La mia esperienza dell’11 settembre è anomala per l’assenza della televisione. Alle nove del mattino, ricevetti una telefonata dal redattore del mio libro che, dalla finestra del suo ufficio, aveva appena visto il secondo aeroplano colpire le torri. Mi precipitai immediatamente all’apparecchio televisivo più vicino, nella sala conferenze dell’agenzia immobiliare al piano di sotto del mio appartamento, e insieme a un gruppo di agenti vidi crollare la prima e la seconda torre. Poi arrivò la mia fidanzata e passammo il resto del giorno ad ascoltare la radio, collegarci a Internet, rassicurare i nostri familiari e a guardare dalla nostra terrazza e dalla parte centrale di Lexington Avenue (che era piena di persone che si riversavano verso i quartieri alti della città) come la polvere e il fumo nella parte inferiore di Manhattan si propagassero in una disgustosa palla. La sera, mentre stavamo passeggiando nei dintorni della 42sima strada, incontrammo un amico che veniva da fuori città e trovammo un anonimo ristorante italiano sulla 40sima aperto per cena. A ogni tavolo si trovavano persone che stavano bevendo smodatamente; l’atmosfera era quella del periodo di guerra. Diedi una breve occhiata allo schermo televisivo, su cui troneggiava la faccia di George W. Bush, mentre stavamo attraversando il bar del ristorante. “Sembra un topo spaventato”, disse qualcuno. Seduti in un treno fermo alla Grand Central, in attesa che partisse, guardammo un pendolare che protestava vivacemente con un capotreno per la mancanza di un servizio espresso per il Bronx.

Tre notti dopo, dalla 11 di sera alle 3 di mattina, ero seduto in una gelida stanza di ABC News da cui potevo vedere il mio collega David Halberstam, di New York, e parlare in collegamento video con Maya Angelou e una coppia di scrittori di un’altra città mentre aspettavamo di offrire a Ted Koppel una opinione da letterati sugli attacchi del martedì mattina. L’attesa non fu breve. Sequenze degli attentati e dei successivi crolli e incendi vennero mostrate più volte, intervallate con lunghi servizi sulle ricadute emotive sui normali cittadini e i loro figli, ancora più impressionabili. A turno, uno o due di noi scrittori avevamo a disposizione 60 secondi per dire qualcosa dal nostro punto di vista prima che i servizi tornassero a occuparsi di drammatiche interviste con amici e familiari delle persone decedute e scomparse. In tre ore e mezzo di trasmissione presi la parola quattro volte. Nel secondo intervento, mi venne chiesto di confermare la sensazione diffusa dai servizi giornalistici che gli attacchi terroristici del martedì avevano profondamente cambiato la personalità degli abitanti di New York. Non potevo confermare questa idea. Dissi che i volti che avevo visto esprimevano tristezza, non rabbia, e descrissi alcune persone che il mercoledì pomeriggio facevano shopping nei negozi intorno a casa mia. Ted Koppel, nella sua risposta, fece chiaramente capire che non avevo adempiuto al compito che ero stato chiamato a svolgere in quella trasmissione. Con un’aria di disapprovazione, sostenne che la sua impressione era molto differente: gli attacchi avevano profondamente cambiato la personalità degli abitanti di New York.

Naturalmente, pensai allora di essere nel giusto e che Koppel si limitasse a riferire un’opinione ricevuta. Ma Koppel aveva guardato la televisione e io no. Non possedendo un apparecchio televisivo, non potevo capire che il peggior danno al paese era stato provocato non dagli agenti patogeni, ma dalla imponente risposta del sistema immunitario. Stavo mentalmente confrontando il numero di morti del martedì con altre cifre relative a decessi violenti – 3.000 americani deceduti in incidenti automobilistici nei 30 giorni precedenti all’11 settembre – perché, non vedendo le immagini, ritenevo che i numeri contassero. Stavo dedicando la mia energia a immaginare, o a resistere a questo tipo di pensiero, l’orrore di sedere su un aereo che sta precipitando lungo la West Side Highway o di essere intrappolato al 95 piano sentendo al di sotto le strutture in acciaio che cominciano a cedere, mentre il resto del paese aveva vissuto lo stesso trauma in tempo reale vedendo ripetutamente le stesse immagini. Pertanto non presi parte – e per un periodo non ne sono stato neanche consapevole – alla sessione di terapia di gruppo della televisione nazionale, alla tecnomaratona di solidarietà che si mise in moto nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi in risposta al trauma della visione delle immagini televisive.

Ciò che riuscivo a vedere era la repentina, oscura, sventurata retorica sentimentale che dominava i discorsi pubblici americani. E come non posso fare a meno di biasimare la tecnologia dei cellulari quando le persone riversano i loro sentimenti filiali o parentali nei loro telefonini, senza rispetto per chi hanno intorno, allo stesso modo non posso perdonare alla tecnologia dei media la spettacolarizzazione del personale a livello nazionale. A differenza, per esempio, del 1941 quando gli Stati Uniti hanno risposto a un terribile attacco con la fermezza, la disciplina e il sacrificio collettivi, nel 2001 abbiamo visto immagini terribili. Abbiamo sezionato filmati amatoriali frame per frame; i nostri schermi televisivi hanno portato le testimonianze della violenza dentro ogni casa, con i messaggi registrati delle telefonate disperate delle vittime e gli interventi di esperti di psicologia per spiegare e sanare i nostri traumi. Ma per quanto riguarda il significato reale degli attacchi e la risposta più assennata da fornire, le opinioni si sono diversificate. Questo è stato l’aspetto positivo della tecnologia digitale; nessuna censura dei sentimenti delle persone! Ognuno autorizzato a esprimere la sua opinione! Se Saddam Hussein avesse personalmente comprato i biglietti aerei per i dirottatori è rimasto un quesito non risolto. Ciò su cui tutti sono stati d’accordo, invece, era che le famiglie delle vittime dell’11 settembre avessero il diritto di approvare o mettere il veto ai lavori per il monumento commemorativo al Ground Zero. Tutti hanno potuto condividere il dolore provato dai familiari dei poliziotti e dei pompieri deceduti. Tutti hanno concordato sul fatto che l’ironia era morta. La sterile e vuota ironia degli anni 1990 non era semplicemente “più possibile” dopo l’11 settembre; eravamo entrati nella nuova era della sincerità.

Indubbiamente, gli americani nel 2001 erano più bravi a dire “ti voglio bene” ai loro figli di quanto lo fossero stati i loro padri e nonni. Ma nella competizione economica? A sentirsi un’unica nazione? A combattere i nemici? A stringere efficaci alleanze internazionali? Forse avevano qualche problema in più in questi campi.

I miei genitori si incontrarono due anni dopo Pearl Harbor, nell’autunno del 1943, e per qualche mese si scambiarono cartoline e lettere. Mio padre lavorava per la Great Northern Railway e si trovava spesso fuori, in piccole cittadine, a ispezionare o riparare ponti, mentre mia madre faceva la receptionist a Minneapolis. Delle lettere in mio possesso che mio padre le spediva la più vecchia è per il giorno di San Valentino del 1944. Lui si trovava a Fairview, in Montana, e mia madre gli aveva spedito un biglietto d’auguri per San Valentino nello stile di tutte le cartoline spedite negli anni precedenti il loro matrimonio: amabili bambini o cuccioli di animali che davano voce a dolci sentimenti. La facciata del suo biglietto (che mio padre ha conservato) mostra una bambina con la treccia e un bambino dal colorito roseo, uno accanto all’altro con gli occhi timidamente abbassati e le rispettive mani ripiegate dietro le loro schiene.

Vorrei essere una piccola pietra,

perché quando diventerò grande,

forse un giorno scoprirò

di essere diventata una piccola “roccia”.

All’interno del biglietto c’è un disegno degli stessi due bambini, che ora si tengono le mani, con la firma in corsivo di mia madre (Irene) ai piedi della bambina. Una seconda strofa dice:

Tutto ciò mi aiuterebbe molto

a farmi sentire sicura di me

ed essere abbastanza forte da dire:

“ti prego, sii il mio Valentino”.

La lettera di risposta di mio padre venne spedita il 14 febbraio da Fairview, in Montana.

Martedì sera

Cara Irene,

mi dispiace di averti dato una delusione nel giorno di San Valentino; mi ricordavo della data, ma non sono riuscito a trovare un biglietto all’emporio e mi sentivo sciocco a chiederlo in drogheria o dal ferramenta. Eppure dovrebbero averne sentito parlare anche qui di San Valentino. Il tuo biglietto si adatta perfettamente alla situazione di qui; non so se per caso o intenzionalmente, ma hai anticipato quelli che sono i nostri problemi con le rocce. Oggi abbiamo esaurito le scorte di pietre e desidero ardentemente di trovarne qualcuna di qualsiasi tipo, piccola o grande che sia, perché senza non possiamo muoverci in alcun modo. Quando il fornitore sta lavorando, ho qualcosa da fare, ma ora sto con le mani in mano. Stamattina, per mantenermi in esercizio, mi sono recato al ponte, dove stiamo lavorando tanto per passare il tempo; sono circa 6 km, abbastanza impegnativi con un vento che soffia forte. A meno che non troviamo roccia da trasportare durante la mattina, me ne rimarrò seduto qui a leggere qualche testo di filosofia; sembra strano essere pagati per passare giornate simili. Il passatempo principale in questo luogo consiste nel sedere nella sala dell’albergo e fare pettegolezzi sulla vita cittadina, con i più anziani che la fanno da padrone. Dovrei apprezzarne i lati positivi dal momento che qui è rappresentata gran parte della fauna umana, dal dottore locale all’ubriaco cronico. E l’ultimo probabilmente è il più interessante; ho sentito dire che una volta insegnava all’Università del North Dakota e in effetti sembra una persona intelligente, persino quando ha bevuto. In genere la conversazione è abbastanza rozza (potrebbe avere ispirato i dialoghi di Steinbeck), ma questa sera è arrivata una donna molto divertente che ha acceso la discussione. Tutto ciò mi ha fatto riflettere su quanto sia più protetta la vita che viviamo in città. Sono cresciuto in una piccola cittadina e sto a mio agio a casa, ma ora vedo le cose in modo differente. Te ne parlerò quando ti vedo.

Spero di tornare a St. Paul per sabato notte, ma non ne sono ancora sicuro. Ti chiamo appena arrivo.

Con tutto il mio amore,

Earl

Mio padre aveva da poco compiuto 29 anni. è impossibile sapere come mia madre, nella sua innocenza e nel suo ottimismo, abbia preso allora questa lettera, ma in generale, considerando la donna che mi ha cresciuto, posso dire che non era assolutamente il tipo di lettera che avrebbe voluto ricevere dal suo innamorato. Lo spiritoso gioco di parole del suo biglietto di San Valentino preso letteralmente come un riferimento alla massicciata dei binari? E lei, che ha trascorso tutta la sua vita preoccupandosi costantemente per il padre che lavorava al bar dell’hotel come barista, che apprezza la “rozza parlata” dell’ubriaco di turno? Dov’è la tenerezza? Dove sono le parole che evocano l’amore? Mi sembra ovvio che mio padre doveva ancora capire molto di lei.

A me, comunque, sembra una lettera piena d’amore. Amore per mia madre, ovviamente: mio padre ha provato a comprarle un biglietto d’auguri, ha letto con attenzione il biglietto di mia madre, vuole condividere con lei i suoi pensieri, le dichiara tutto il suo amore, la chiamerà appena arriva. Ma amore anche per il resto del mondo: per la varietà del genere umano, per le piccole cittadine e le grandi città, per la filosofia e la letteratura, per il lavoro duro e per il giusto salario, per la conversazione, per il pensiero, per le lunghe passeggiata con il vento tagliente, per le parole accuratamente scelte e per l’ortografia perfetta. La lettera mi ricorda molte delle qualità che ho amato in mio padre: la modestia, l’intelligenza, la battuta spiritosa, la curiosità, la scrupolosità, la discrezione e la dignità. Solo quando ripongo la lettera accanto al biglietto di San Valentino di mia madre, con quei bambini dagli occhi grandi e il trionfo del sentimento puro, la mia memoria torna ai decenni di reciproca insoddisfazione che seguirono i primi anni di felicità pressoché totale dei miei genitori.

Avanti nella vita, mia madre si lamentò con me che mio padre non le aveva mai detto di amarla. Potrebbe anche essere vero che lui non abbia mai pronunciato quelle tre parole magiche e, in effetti, non gliele ho mai sentite dire. Ma è indubbiamente falso che non le abbia scritte. Una delle ragioni per cui mi sono occorsi alcuni anni prima di trovare il coraggio di leggere la loro corrispondenza è che la prima lettera di mio padre che presi in mano, dopo la morte di mia madre, cominciava con una parola affettuosa (“Irenie”) che non gli avevo mai sentito pronunciare nei 35 anni che lo avevo conosciuto e terminava con una dichiarazione (“ti amo, Irene”) che andava oltre ciò che potevo sopportare di vedere. Non lo riconoscevo in quelle parole e così gettai le lettere in un baule nell’attico di mio fratello. Più recentemente, quando ho ritrovato le lettere e deciso di leggerle tutte, ho scoperto che mio padre aveva in realtà dichiarato il suo amore almeno una dozzina di volte, usando le tre parole magiche, sia prima sia dopo il matrimonio con mia madre. Ma forse, anche allora, era stato incapace a pronunciare quelle parole a voce alta e forse per questa ragione, nella memoria di mia madre, non le aveva mai “dette”. è anche possibile che le sue dichiarazioni scritte degli anni 1940 siano apparse allora strane e insincere per il suo modo di essere, come appaiono ora a me, e che mia madre, nelle sue rimostranze, stesse rievocando una verità più profonda ora celata dalle sue parole apparentemente appassionate. Non è da escludere che, moralmente obbligato dalla passione sentimentale delle parole di mia madre (“ti amo con tutto il cuore”, “piena d’amore per te”, eccetera), mio padre si sia sentito obbligato a dichiarazioni altrettanto romantiche, o almeno a provare a farle, nello stesso modo in cui aveva tentato di comprare un biglietto di San Valentino a Fairview, in Montana.

Both Sides Now, nella versione di Judy Collins, è stata la prima canzone pop a riecheggiarmi nella testa. La ascoltavo a tutto volume alla radio quando avevo 8 o 9 anni e il suo invito a dichiarare l’amore “a voce alta” insieme alla cotta che avevo per la voce di Judy Collins fecero sì che per me il significato fondamentale della frase “ti amo” era sessuale. Nel corso degli anni 1970 riuscii, in rari eccessi emotivi, a dire ai miei fratelli e a gran parte dei miei migliori amici che volevo loro bene. Ma durante la scuola elementare e media inferiore, le parole avevano un solo significato per me. “Ti amo” era la frase che volevo mi venisse scritta su un biglietto dalla ragazza più bella della classe o sentirmi sussurrare durante una gita scolastica. Accadde solo un paio di volte in quegli anni che una ragazza per cui avevo perso la testa me lo dicesse o me lo scrivesse. Ma quando si verificò, fu una scarica di adrenalina pura. Anche quando andai all’università e cominciai a leggere Wallace Stevens, in particolare Le Monocle de Mon Oncle, in cui si prende gioco delle persone, come me, alla ricerca indiscriminata dell’amore –

Se il sesso fosse tutto, allora ogni mano fremente

Potrebbe farci sussurrare, come bambole, le parole desiderate

− queste parole desiderate continuarono a significare il dischiudersi di una bocca, l’offerta di un corpo, la promessa di un’intimità inebriante.

In realtà la persona da cui mi arrivarono costantemente queste parole fu, con mio grande imbarazzo, mia madre. Era l’unica donna in una casa di maschi e viveva con un eccesso di sentimentalismo che cercava di colmare con espressioni romantiche. Le tenerezze e le attenzioni che dedicava a me erano identiche, in spirito, a quelle che una volta aveva dedicato a mio padre. Molto prima che nascessi, le sue effusioni erano considerate da mio padre intollerabili manifestazioni puerili. Per me, invece, non erano per niente infantili. Iniziai a tenermi a distanza, per evitare di contraccambiarle. Sono sopravvissuto a lunghi periodi della mia fanciullezza, le interminabili settimane in cui eravamo soli in casa, aggrappandomi alle sottili distinzioni d’intensità tra le frasi “ti amo”; “ti amo anch’io” e “ti voglio bene”. La cosa più importante era non dire in alcun modo “ti amo” o “ti amo, mamma”. L’alternativa meno dolorosa era mormorare un “ti voglio bene” praticamente impercettibile. Ma “ti amo anch’io”, se pronunciato abbastanza rapidamente e con una sufficiente enfasi su “anche”, che implicava una complicità, poteva significare momenti difficili. Non ricordo che mi abbia mai esplicitamente richiamato o mi abbia messo alle strette se (come talvolta è successo) non rispondevo altro che con un evasivo grugnito alle sue manifestazioni d’affetto. Ma non mi disse mai che quelle parole “ti amo” erano semplicemente espressione del suo sentimento traboccante e che non dovevo sentirmi obbligato a rispondere “ti amo anch’io” ogni volta. Questa lunga storia spiega perché, ancora oggi, sento come una coercizione il riecheggiare nei cellulari della frase “ti amo”.

Mio padre, anche se scriveva lettere piene di vita e curiosità, non vide nulla di sbagliato nel riservare a mia madre un destino di quaranta anni di vita domestica, mentre lui esplicava la sua capacità di azione in un mondo di uomini. Sembra che sia una regola, sia nel piccolo universo familiare sia nel più vasto mondo dell’american life, che chi non agisce è preda dei sentimenti e viceversa. Le varie forme di nevrosi post 11 settembre, dalla piaga dei “ti amo” alla paura generalizzata e all’odio verso i possibili terroristi, sono espressioni dell’impotenza e del senso di oppressione. Se mia madre avesse avuto uno scopo più grande da raggiungere, avrebbe adattato più realisticamente i suoi sentimenti al risultato da conseguire.

Per quanto freddo o represso o sessista possa apparire mio padre per gli standard attuali, gli sono grato di non avermi mai detto, con quelle tre parole, che mi amava. Lui amava la privacy, nel senso che rispettava la sfera pubblica. Credeva nelle limitazioni, nel protocollo e nella ragione, perché senza questi elementi, a suo parere, sarebbe stato impossibile per una società discutere e prendere le decisioni più opportune. Sarebbe stato bello, soprattutto per me, se avesse capito come dimostrare in modo più esplicito il suo amore a mio madre. Ma ogni volta che sento risuonare nei cellulari la fatale espressione, mi sento fortunato ad avere avuto un genitore che non l’ha fatto. Mio padre amava i suoi figli più di ogni altra cosa. E sapere che provava questo sentimento senza esprimerlo; sapere che poteva fidarsi di me che avevo capito che lui mi voleva bene e non pretendevo che me lo dicesse: questa è la sostanza vera dell’amore che ho provato per lui. Un amore che a mia volta non gli ho mai dichiarato a voce alta.

Comunque, questa era la parte più facile. Tra me e il luogo dove ora si trova mio padre – deceduto – non c’è altro che silenzio. La morte è l’esaltazione della privacy. Mio padre e io non ci stiamo dicendo ora molto di meno di quanto abbiamo fatto in tutti gli anni in cui era vivo. La persona che mi manca concretamente – vederla nel mio appartamento, provare rimorso nei suoi confronti, discuterci mentalmente, prenderla in giro, mostrarle le cose – è mia madre. La parte di me che si irrita per le intrusioni dei cellulari proviene da mio padre. La parte di me che ama il mio BlackBerry e si apre al mondo circostante arriva da mia madre. Lei era la più moderna tra i due e, anche se era mio padre quello che lavorava, è mia madre a essere finita dalla parte dei vincitori. Se lei fosse ancora viva e si trovasse a St. Louis e se vi accadesse di sedermi accanto al Lambert Airport, aspettando il volo per New York, non riuscireste a sentirmi mentre le dico che la amo. Sussurrerei queste parole a voce bassa.

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