Qualità come relazione

Intervista con Alessio Tola
a cura di Massimiliano Cannata

Da Aristotele a Kant la qualità è una categoria che si innesta nella duplice dimensione individuale e socio-organizzativa. La prospettiva individuale è orientata allo sviluppo della conoscenza. La domanda di fondo riguarda il «come è, cioè lo statuto degli oggetti e della realtà che ci circonda. Se pensiamo poi alla qualità in relazione al soggetto, entriamo nelle attribuzioni che ne costituiscono il profilo: la competenza, il know-how di cui ciascuno è portatore, il sapere, accumulato e maturato nel confronto con le agenzie di senso. Tradotta nella visione organizzativa, l’idea della qualità si sposta, in particolare, sui processi, divenendo un parametro dell’efficienza di reti e servizi, in una logica sempre più network centric che pone in primo piano l’innovazione e la funzionalità delle infrastrutture immateriali, il grado di evoluzione della società. L’insieme di questi fattori alimenta il dibattito, riportando questo concetto, presente nel pensiero classico fin dalle origini, a una prospettiva attuale e problematica. Al centro delle politiche riformiste a vari livelli, troviamo la qualità, da cui sembra dipendere il futuro della amministrazione pubblica (basta scorrere il decreto legislativo di riforma della PA per rendersene conto), il nuovo volto delle imprese hi-tech nel contesto della globalizzazione, il destino della convivenza nelle città multipolari. Assistiamo però a un paradosso: nella facile retorica la qualità è auspicata come obiettivo prioritario, nei fatti risulta negata e mortificata in questa età invasa dai «neo barbari», per usare una definizione di Baricco. Compromessa e conculcata dalle «cattive» pratiche, da sistemi di valutazione obsoleti, da una scarsa attenzione al capitale dell’intelligenza e dall’esercizio costante di prevaricazioni e condizionamenti, la qualità è stata, infine, rimossa.

Alessio Tola, docente di analisi e controllo dei processi produttivi all’Università di Sassari ed esperto di certificazione ISO, si è occupato, viaggiando da Roma a Boston, di testare la qualità di 300 strutture nel settore dei servizi e del manifatturiero. Vanta oltre 40 pubblicazioni scientifiche nei settori disciplinari pertinenti alla qualità e al controllo dei processi. Lo abbiamo sollecitato su questi temi.

Professore, lei è autore di numerose pubblicazioni scientifiche sul controllo dei processi. Come si può declinare il concetto di qualità nell’information society?

Nella società della conoscenza la qualità è legata alla capacità di rispondere alle domande, a volte inespresse, del consumatore. Qualità e società della conoscenza sono un binomio inscindibile. Partirei da una distinzione essenziale: vi è una qualità percepita e una qualità intrinseca del prodotto-servizio. La qualità intrinseca è misurabile in maniera oggettiva, attraverso dei parametri. Le norme ISO vengono implementate con questa finalità, sviluppando un percorso di standardizzazione riconosciuto da tutti i paesi membri dell’organizzazione, codificato nelle diverse versioni, che nasce a Londra già a metà del 1900. Molto chiara l’esigenza: occorreva creare un linguaggio comune tra gli stati per definire un terreno condiviso di analisi.

Qualità e società post-crescita

Quando parliamo di domanda inespressa, apriamo il campo degli assets intangibili, connotato essenziale dell’universo digitale in cui siamo immersi. Qualità e intangibilità hanno dei punti di contatto?

L’intangibilità nella digital society è un termine critico che viene associato più al servizio che al prodotto. Nel passato il valore dei prodotti era misurato attraverso il calcolo di dati fisici. Pensiamo alla rivoluzione portata dalla lavatrice negli anni del boom economico. Maggiore era il peso dell’elettrodomestico, più grande risultava la disponibilità del consumatore a pagare un prezzo elevato. Oggi compriamo un prodotto per fruire soprattutto dei servizi che ci assicura. Questa trasformazione è fondamentale e si muove parallelamente alla centralità della percezione del servizio che connota il sentimento di soddisfazione del consumatore. Giampaolo Fabris in un suo bellissimo lavoro, Societing, spiega molto bene questo passaggio evolutivo. «La centralità del consumo», afferma, «sostituisce la centralità della produzione che caratterizzava l’epoca che ci stiamo lasciando alle spalle. Nella nuova realtà che viviamo, il consumo assume un protagonismo del tutto inedito. Alla dimensione economica si affianca un impetuoso crescendo di valenze sociali, semiotiche, antropologiche. La fisicità delle merci va dissolvendosi nelle marche, nei valori intangibili, nei tratti segnici, che alimentano la comunicazione». Sottoscrivo questa affermazione, perché dobbiamo comprendere che stiamo andando oltre il vecchio concetto edonistico di soddisfazione, per toccare un ambito sociopsicologico, che è la cifra essenziale della società «post crescita».

Serduits, il neologismo coniato da Alain Dumont (si veda «Technology Review», n. 3, 2009), esprime molto bene la trasformazione in essere che implica la centralità dell’esperienza del consumatore e l’importanza della conoscenza che diviene un fattore della produzione. L’incrocio tra prodotto e servizio quali conseguenze pratiche comporta?

Pensiamo all’automobile, al concentrato di materiali che devono rispondere a dei parametri di qualità. Questo è solo un aspetto, perché l’anima del veicolo è data dal confort, dall’idea di sfida che contiene, dalla bellezza che mi trasmette, dall’emozione che mi dà sul piano estetico. Il veicolo predisposto per un certo target di utenza, invariato nel tempo, è concepito con una serie di materiali biodegradabili, riconvertibili, sicuramente riusabili, ottenuti con delle variabili in termini di flessibilità produttiva, consentiti dalle tecnologie. Servizio e prodotto si toccano, quale frutto di una strategia di approccio al mercato che consente una valutazione della performance che va oltre i materiali, per toccare l’immaginario e le aspettative del cliente.

L’automobile è stato il simbolo della modernità industriale. L’auto è stata una conquista, un’espressione di indipendenza e di libertà, oltre che una metafora del rapporto tra uomo e macchina. Psiche e techné si toccano in un’idea della qualità che fino agli anni Ottanta aveva ancora molto a che fare con il benessere, che significava possibilità di muoversi, di scoprire nuove realtà. Nell’era del virtuale le vetture collegate al Web si parleranno per metterci in guardia dal traffico. Quale prospettiva si apre?

Partirei dal concetto di proprietà legato all’auto, che è stato importante e decisivo fino all’inizio degli anni Ottanta. Alla proprietà si è sostituita l’idea di utilizzo del mezzo, che cambia la partita anche sul fronte della qualità percepita. Di pari passo è mutata la concezione della mobilità. La mobilità oggi implica responsabilità, sviluppo sostenibile, logica di inclusione, adattamento alla fluidità dei soggetti nel contesto della società liquida, come ci insegna Bauman. La responsabilità è poi una categoria che richiede la messa in esercizio di servizi di sicurezza, che vanno progettati nella ricerca di una razionalità globale, che deve rispondere alle esigenze di una collettività sempre più vasta.

La qualità percepita non viene più misurata sulla singola valutazione del bene, quanto sugli equilibri del sistema generale di sviluppo della società. Anche qui c’è un salto di paradigma essenziale. Dalla visione parcellizzata e romantica della soddisfazione, che ha caratterizzato gli anni in cui si è formata la società industriale evoluta e la generazione del consumismo, siamo entrati nella visione più attuale del capitalismo basato sulla qualità, sulla possibilità di far valere lo spirito immaginativo che può temperare la competizione esasperata. L’attenzione al risultato da parte del soggetto impresa rimane, ma nel rispetto delle condizioni di equilibrio ecologico. Il risultato assume una veste qualitativa, «non in termini di quantità da sottrarre», come suggerisce molto bene Giorgio Ruffolo nel suo Il capitalismo ha i secoli contati, «ma qualità da aggiungere al fine di soddisfare non tanto bisogni materiali limitati, quanto esigenze culturali illimitate».

La civiltà dell’empatia

La terza rivoluzione industriale, sostiene Jeremy Rifkin nel suo recente saggio La Civiltà dell’empatia, sarà trainata dalla convergenza tra le nuove tecnologie della comunicazione e dell’energia. «Un contesto in cui all’energia viene applicato il modello Internet, nel senso di una rivoluzione dal basso, un sistema di produzione e di consumo diffuso, capillare, decentrato e flessibile, non gerarchico, un capitalismo ibridato dal socialismo». In sintesi: accesso invece di possesso, bit al posto degli atomi, come è già stato sostenuto da Negroponte. La qualità che posto occupa in questa nuova dimensione?

L’empatia di cui parla Rifkin è l’antidoto dell’alienazione. Una prospettiva importante che riassume il trascolorare della modernità, del taylorismo inteso sia come logica organizzativa che di processo. L’alienazione è, infatti, un concetto forte che ha a che fare con la storia e la cultura che hanno permeato la prima rivoluzione industriale. La metafora cui possiamo fare ricorso è quella di Thomas Friedman, che attribuisce al nostro pianeta tre aggettivi: «caldo, piatto e affollato», inducendoci a superare la logica illuminista che, da Locke a Smith, tendeva a esasperare la dimensione individualista e materialista dell’esistenza. Responsabilità, innovazione e accoglienza saranno le nuove parole chiave, in un contesto in cui qualità, innovazione e tecnologia saranno sempre più sinonimi. Pensiamo al settore della telefonia, emblematica dei trend di sviluppo dell’ICT. Ogni barriera è stata abbattuta. L’attenzione è puntata sul software dei servizi. La tecnologia ha mostrato una reattività straordinaria. Maestri quali Maurizio Rispoli o Pasquale Saraceno parlerebbero a questo proposito di discontinuità tecnologica, nel nostro caso generata dalla flessibilità delle applicazioni hi-tech, rimodellate in coerenza alle nuove esigenze, come risulta visibile nel mondo dell’on demand, in cui ciascun attore configura le proprie esigenze in funzione diretta con i processi della produzione.

I social networks e il Web 2.0 entrano nella valutazione dei processi?

Oggi, in cui soprattutto i giovani si incontrano nella piazza virtuale, la fenomenologia dei social networks non può essere ignorata. Allo stesso termine «marketing» deve essere sostituita una definizione più complessa, che deve tenere conto dei sistemi di valori della società. La tecnologia ha aperto strade nel passato non immaginabili. Mi chiedo: se George Orwell fosse stato vivo, cosa avrebbe scritto sulla grande esplosione della digitalizzazione della comunicazione? La cosa forse più difficile, nel ragionamento che stiamo facendo, rimane quella di valutare i bisogni di qualità in un mercato complesso e internazionalizzato. Un mercato che, mi rifaccio sempre a Fabris, è un «epifenomeno del sociale». Se l’ICT è riuscita a indurre una modificazione radicale delle forme comportamentali, le conseguenze sulla qualità della relazione devono essere materia importante di analisi, per studiosi e manager. Si tratta di un esercizio non accademico, decisivo per il futuro delle imprese che, soprattutto nel periodo della crisi, dovranno riorientare gli investimenti, anticipando i trend di trasformazione storica e culturale che segnano la nostra epoca.

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