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Oggi, più che mai, si sente il bisogno di aggiornare i concetti di scuola e di insegnamento. Tanto da trovarci di fronte a due alternative, a due prospettive radicalmente diverse di intendere il processo che più connota il funzionamento delle comunità umane, e cioè la trasmissione istituzionalizzata dell’eredità sociale e culturale attraverso le reti della formazione.

In una prima accezione, la scuola si presenta come una sorta di centro di resistenza alla modernità e, quindi, come un luogo a elevata densità simbolica e valoriale, funzionale per il forte contrasto con la leggerezza etica imposta dal cambiamento sociale contemporaneo. è il volto conservatore dell’insegnamento, che gioca tutte le sue carte nell’antagonismo alla «cultura dello zapping» e ai risvolti più negativi di quest’ultima: il facilismo, l’allentamento di qualsiasi disciplina e la socializzazione omologatrice dei media e della cultura di massa. Una scuola, quindi, che trova nel ripiegamento sul passato la garanzia per la salvaguardia e la trasmissione della tradizione: aggrappandosi alle sue certezze, l’istituzione scolastica diventa così una sorta di cittadella assediata, che lotta per conservare i propri linguaggi e tratti identitari. Questo il problema descritto da più parti in termini di «crisi della scuola».

Ma, nella maggior parte dei casi, è nel conflitto con i grandi assediatori che le piccole culture si ridefiniscono, rinvigorendosi. E qui comincia ad apparire una seconda interpretazione della scuola e dell’insegnamento, che si sottopone alle logiche dell’apertura culturale: ciò grazie a un giudizio critico – ma non ultimativo e liquidatorio – sulle tecnologie comunicative; a un’interpretazione della modernità non come ideologia da rifiutare, ma come campo di battaglia in cui l’esito è aperto e decretato dalla ricchezza culturale dei protagonisti.

In questa prospettiva, l’educazione tende ad avvicinarsi sempre di più al pensiero strategico sulla comunicazione. A farsi strada è un modello formativo alto (paideia) che consideri, nella coltivazione delle virtù dei giovani, non solo la cultura degli insegnanti, di coloro che trasmettono le conoscenze; bensì il punto in cui i saperi incontrano gli utenti, traducendosi in un’esperienza formativa e di vita che è frutto di continui negoziati tra tutti i soggetti partecipanti al processo formativo. La scuola viene così a riposizionarsi quale luogo dinamico di intersezioni e attraversamenti culturali: non più trasmissione dall’alto di «pacchetti» di conoscenze e valori, ma luogo di interazione paritario. è l’inizio per rivendicare una più moderna qualità dei processi formativi: quella di una scuola «restaurata», in cui la cooperazione diventa complicità del processo formativo e l’attivismo dei discenti impedisce l’accettazione dell’istituzione scolastica come «parcheggio» in attesa dell’età adulta. E, fatto il punto sui due modelli interpretativi sopra segnalati, è normale interrogarsi sui beneficiari delle singole prospettive.

Il primo modello culturale, sostanzialmente autoreferenziale, tendenzialmente corporativo, privilegia naturalmente gli insegnanti: consente loro di vivere meno tumultosamente il cambiamento di ruolo e di status. Sterilizzando il peso delle trasformazioni sociali, i «gestori» dei processi formativi possono continuare a far riferimento alle routines e alle certezze della tradizione pedagogica, garanzia apparente per il raggiungimento degli obiettivi. è il modello delle «verità assolute» per gli insegnanti e della «resistenza» per gli allievi. Allora, è comprensibile scoprire che spesso i ragazzi non stanno bene a scuola: prevale la noia, aumenta l’indisponibilità alla formazione e l’apprendimento scolastico finisce per diventare un «esercizio muscolare» di reciproco antagonismo tra le culture degli adulti e quelle degli allievi.

Nel secondo modello, invece, l’insegnante è costretto a mettersi continuamente in discussione, ma proprio per questo finisce automaticamente per avvicinarsi ai suoi utenti. Anche in questo caso, non possiamo dare per scontato che i ragazzi siano più soddisfatti, ma è più probabile che si superi il disagio provocato dalle nette separazioni tra le generazioni e dallo scontro di status. Questo progressivo avvicendamento nel ruolo di guida formativa viene reso più naturale in contesti di avvicinamento alle tecnologie. Se si assiste a una tendenziale contaminazione tra le enclave tecnologiche e culturali dei giovani e quelle degli adulti, anche l’istituzione scolastica si prepara infatti a entrare in un mondo nuovo, basato sulla qualità dello scambio e delle interazioni tra le persone, nel momento in cui le reti tecnologiche diventano risorse fondamentali per costruire «sintesi» dinamiche di saperi, valori e relazioni.

Inutile dire che la scuola della modernità deve allinearsi sempre più alla seconda prospettiva culturale, trasformandosi in un vero e proprio «ambiente», caratterizzato da ridondanza formativa (un sistema di volta in volta definito come «policentrico» o «allargato») e, dunque, da un fondamentale aumento della competenza individuale. Se la scuola diventa anzitutto ambiente, il suo compito non è allora incernierare i saperi, ma contestualizzarli, superando la tradizionale autoreferenzialità del passato a favore di un nuovo interazionismo formativo. Di fatto, il tipo di sapere che essa deve impartire nella «società della conoscenza» non è più la nozione, ma il metodo: il saper imparare, il saper finalizzare la pluralità delle fonti di conoscenza nell’ambito di un moderno e più integrato modello di apprendimento, maturazione e auto-formazione della personalità culturale. Ciò significa una funzione tutt’altro che labile, ma anzi di rinnovato vigore formativo della scuola: quella di orientamento e «commutazione» culturale dei crescenti stimoli provenienti dai tempi e dai luoghi dell’esperienza extra-scolastica e, in particolare, dalle reti tecnologiche a cui le giovani generazioni appaiono ormai naturalizzate.

La sfida è aperta, e spetta soprattutto ai docenti. Alla capacità degli insegnanti di comprendere e adattarsi a questa emergente cultura post-alfabetica, accettando di abbandonare logiche corporative per diventare veri e propri «imprenditori culturali» di una formazione al passo con i tempi.