Perché un computer non può essere consapevole

Federico Faggin, “il fisico inventore del microprocessore”, in una recente autobiografia si sofferma non soltanto sulle sue straordinarie realizzazioni tecnologiche, ma anche su alcune più recenti riflessioni in merito alla possibilità di una ”scienza della coscienza”.

di Angelo Gallippi

Ci sono diversi motivi per considerare importante l’autobiografia atipica di Federico Faggin appena uscita in Italia (Silicio. Dall’invenzione del microprocessore alla nuova scienza della consapevolezza, Mondadori, 2019). Atipica per quelle che potrebbero sembrare clamorose omissioni e sono invece indizi della genuina modestia del fisico vicentino, come le otto lauree da prestigiose università italiane e straniere, i cospicui finanziamenti a decine di startup poi diventate imprese di successo, la generosa attività di promozione sociale e culturale dei giovani del Burundi (appena accennata nella didascalia di una foto). E dei venticinque brevetti ne sono citati solo alcuni. Faggin preferisce invece seguire due diverse linee narrative.

Nella prima sottolinea la paternità di tecnologie poco conosciute e raramente discusse anche in testi specializzati (“silicon gate”, “contatto sepolto”, “carico bootstrap”), che gli avrebbero consentito, nel 1971, di realizzare il primo microprocessore, l’Intel 4004 (seguito a breve dall’8080), e sarebbero state adottate dall’intera industria mondiale dei semiconduttori nell’arco di un lustro. Invenzioni che gli vennero scaltramente scippate dai suoi superiori aziendali, i quali dapprima le brevettarono a proprio nome non appena ne furono chiare le potenzialità, poi cercarono di cancellare il nome di Faggin dalla storia del microprocessore. Tentativo fallito soprattutto grazie alla puntigliosa lotta per la verità portata avanti dalla moglie Elvia.

Il racconto prosegue con le famose imprese di successo guidate da Faggin: Zilog (microprocessori Z80, Z8, Z8000), Cygnet Technologies (communication cosystem), Synaptics (touchpad e touchscreen), Foveon (sensore Z3).

Ma progressivamente la narrazione s’intreccia e cede il passo a quella del radicale mutamento interiore che si verificò in Faggin dopo i 40 anni, proprio all’apice del successo. Dapprima una profonda introspezione sui propri comportamenti, poi la convinzione dei limiti delle reti neurali artificiali e perciò dell’impossibilità “concettuale” di realizzare un computer “consapevole”: convinzione raggiunta proprio a seguito dei progressi da lui realizzati nel settore (chip I-1000). Da ultime, alcune percezioni fuori dell’ordinario, inspiegabili razionalmente, che lo spinsero a interrogarsi sulle relazioni tra mente e materia e sui rapporti tra attività elettrica del cervello e coscienza.

Ebbe così inizio un progressivo distacco di Faggin dall’«assunto materialista dei fisici, secondo cui tutto ciò che esiste deve essere prodotto dalle interazioni di particelle elementari». In particolare, l’impossibilità di spiegare come la coscienza possa emergere dall’attività del cervello, lo indusse a escludere che possa mai emergere da un computer, per quanto complesso. Essa dev’essere invece un aspetto fondamentale della natura, «già contenuta in qualche forma nelle particelle elementari», esistente addirittura prima del Big Bang che le originò. Quindi una ripresa in chiave moderna dell’antico panpsichismo, il cui testimone passa da Platone a Leibniz, a Leopardi.

Ma allora come mai il computer non può essere “consapevole”, pur essendo costituito da atomi “consapevoli”? Faggin risponde che il computer è un «simbolo vivo incoerente», perché costituito da un’accozzaglia di atomi che sono «simboli vivi coerenti», ma non integrati in modo da costituire «un unico sé», come invece avviene in un organismo vivente.

Prende così corpo un originalissimo modello della realtà che Faggin affina dal 2010 tramite la fondazione senza scopo di lucro “Federico and Elvia Faggin Foundation”, finalizzata a sviluppare l’emergente “scienza della coscienza”. Impresa senza dubbio ardua, per la grande sfida di una “scienza” che ha un oggetto, la “conoscenza”, che «può essere studiato solo attraverso l’esperienza in prima persona» e non attraverso esperimenti ripetibili da chiunque in un secondo momento.

Il modello, che non indica ancora un esperimento che ne possa confermare o confutare la fondatezza, si basa sulla teoria dei campi quantistici e sull’ipotesi che non solo la realtà esterna possa influenzare quella interna, ma che sia possibile anche il viceversa. La realtà interiore avrebbe cioè un potere causale, dato che, secondo la meccanica quantistica, «l’atto di osservare il mondo cambia sia l’osservatore sia l’osservato».

Nei libri di storia della scienza oggi Faggin è definito “il fisico inventore del microprocessore”; il tempo ci dirà se domani sarà definito “il filosofo teorico della consapevolezza”.

(gv)

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