Perché non funziona il venture capital?

I meccanismi tradizionali per finanziare le nuove tecnologie e le imprese innovative
non riescono a superare la fase di affanno.

di James Surowiecki

Nell’estate del 1996 gli operatori di venture capital a Silicon Valley scommisero qualche milione di dollari su Juniper Networks, una startup di apparecchiature per le telecomunicazioni. Tre anni dopo, dopo altri giri di finanziamento e il rilascio del suo primo prodotto, Juniper lanciò una IPO, un’offerta al pubblico dei suoi titoli. Alla fine del primo giorno di contrattazioni, il suo valore aveva raggiunto la cifra di quasi 5 miliardi di dollari e in soli nove mesi questo valore si decuplicò. Gli investitori iniziali di capitale di rischio avevano portato a casa profitti di oltre il 10.000 per cento.

Più o meno nello stesso periodo in cui Juniper divenne pubblica, gli investitori di rischio di Silicon Valley finanziarono Procket Networks, una startup specializzata in router e nello sviluppo di soluzioni software. Questa volta il capitale iniziale era più grande e nei successivi giri di finanziamento Procket raccolse quasi 300 milioni di dollari di capitale di rischio. Tre anni dopo il suo avvio, però, l’azienda non aveva ancora commercializzato un prodotto e nel 2004 i suoi asset strategici vennero rilevati da Cisco a prezzo di saldo. In questo caso gli operatori finanziari uscirono dall’affare solo con una parte dei loro investimenti originali.

La differenza tra queste due storie è la stessa che passa tra il mondo della bolla dei titoli tecnologici alla fine degli anni 1990 e il mondo post bolla. Ma, per altri versi, rispecchia anche la differenza tra l’immagine storica del capitale di rischio e la dura realtà delle attività economiche attuali. Un decennio fa, i «capitalisti di ventura» ricordavano da vicino gli alchimisti, grazie alla loro capacità di tramutare qualsiasi startup in oro puro. Negli ultimi anni, tuttavia, questo tipo di attività ha perso progressivamente il suo alone magico. A partire dal 2004, il suo utile medio a cinque anni oscilla intorno allo zero. Le IPO ad alti prezzi sono diventate eventi rari, anche se ogni anno gli operatori finanziari hanno continuato a riversare decine di miliardi di dollari in nuove aziende. Come spiega schiettamente Fred Wilson, direttore di Union Square Ventures: «I fondi di capitale di rischio, nel loro insieme, non hanno sostanzialmente realizzato profitti in tutto il decennio».

Ovviamente, gli operatori finanziari non sono rimasti indifferenti agli sviluppi della situazione. Al contrario, l’esame di coscienza ha qualche volta ricordato le riunioni maoiste di autocritica. La parola crisi è diventata ubiquitaria. Nel 2006 Paul Ferri, il fondatore di Matrix Capital, ha dichiarato al «Wall Street Journal» che «l’industria del capitale di rischio non possiede al momento un modello commerciale economicamente valido». A giugno 2005 sullo stesso giornale, Howard Anderson, il fondatore di Yankee Group, ha sostenuto che «il capitale di rischio è arrivato al capolinea». Quando, la scorsa estate, Polachi & Company, un’azienda per la ricerca di personale direttivo, ha chiesto a un migliaio di operatori finanziari se si era rotto qualcosa nel meccanismo del capitale di rischio, oltre la metà ha risposto affermativamente. Se si considera il ruolo chiave che il capitale di rischio ha giocato nel finanziare l’innovazione americana negli ultimi 50 anni, questa conclusione sembra infausta (per conoscere altre prese di posizione sulla situazione del venture capital si veda l’intervento di Steve Jurveston a pag. 25).

Alcuni di questi lamenti appaiono scontati. Successi e fallimenti si sono alternati nell’industria del capitale di rischio sin dal momento della sua fondazione, alla fine degli anni 1950. Come spiega Josh Lerner, dell’Università di Harvard, in Boulevard of Broken Dreams, il suo ultimo libro sulla storia delle iniziative pubbliche per incrementare il capitale di rischio, ripetutamente «i gruppi raccolsero grandi quantità di capitali che investirono in modo insensato, sia finanziando imprenditori che non avrebbero altrimenti trovato capitali, sia concedendo troppi soldi a imprenditori promettenti (si veda Fondi pubblici: basta con le ingerenze politiche!, di Josh Lerner, sui recenti tentativi governativi di stimolare l’innovazione, a pag. 26). Le depressioni che seguono questi picchi inducono a un profondo pessimismo; nel 1994, poco prima del boom della fine degli anni 1990, Paul Gompers, allora alla Università di Chicago, pubblicò un autorevole studio sullo stato dell’industria del capitale di rischio dal titolo The Rise and Fall of Venture Capital. Considerando che abbiamo già assistito allo scoppio di due bolle e che il mercato azionario – lo sbocco tradizionale degli operatori finanziari – è rimasto pressoché fermo negli ultimi dieci anni, sarebbe sorprendente che la gente non fosse scoraggiata.

In ogni caso, sarebbe un errore ritenere che i problemi del settore svaniranno appena l’economia ricomincerà a girare a pieni giri. Appare evidente, infatti, che almeno alcuni dei fattori che hanno reso sempre più rari i casi di alti profitti sono il risultato di cambiamenti strutturali – non ciclici – e che gli operatori finanziari dovranno prendere le giuste contromisure.

In primo luogo, i costi di avvio delle aziende e quelli legati al fare profitti in settori come la tecnologia dell’informazione sono drasticamente caduti grazie al software a sorgente aperto, alla globalizzazione delle tecniche di produzione, alla commercializzazione della banda larga e delle componenti infrastrutturali e ad altri fattori. Wilson stima, per esempio, che i costi si sono abbattuti di «almeno un ordine di grandezza« nel decennio trascorso. Questa riduzione di costi ha garantito agli imprenditori più spazio d’azione in quanto non devono andare alla ricerca disperata di capitali. Allo stesso tempo, settori nei quali i «capitalisti di ventura» avevano tradizionalmente un grande impatto, come l’IT e le telecomunicazioni, non stanno più crescendo rapidamente come una volta. Inoltre, una buona fetta del valore che le nuove aziende stanno creando nelle reti sociali rimane, almeno per il momento, non monetizzabile, perché i servizi di cui usufruiscono gli utenti non si traducono in dollari. Il presupposto condiviso dalla generazione attuale di frequentatori della rete è, infatti, la completa gratuità di questi servizi. Qualsiasi ipotesi di attività remunerative potrebbe mostrare la corda.

Infine, non è affatto chiaro se le IPO saranno ancora la miniera d’oro che hanno rappresentato nel passato per gli operatori finanziari. Solo 13 aziende finanziate con capitale di rischio sono diventate pubbliche nel 2009, rispetto alle 94 del 2004 e alle 271 del 1999, l’anno del boom. In passato, Facebook e probabilmente anche Twitter sarebbero diventate quasi certamente pubbliche. Ora nessuna azienda preme per farlo. Il problema è su entrambi i fronti: gli imprenditori non spingono per rendere pubbliche le loro aziende come accadeva in precedenza e gli investitori non richiedono nuove IPO. La gestione di un’azienda pubblica è sempre più complessa: molte più regole da rispettare, maggiori pressioni da parte degli azionisti e, almeno ultimamente, più volatilità. Un fattore ancora più importante è che i prezzi delle IPO sono più equilibrati rispetto al passato. La novità è cruciale perché la trasformazione delle startup in società pubbliche è stato il modo in cui gli operatori finanziari hanno realizzato buona parte dei loro profitti. Anderson, tra gli altri, ritiene che le valutazioni più razionali siano il nodo del problema del settore del capitale di rischio. «L’intero mercato è diventato più maturo», afferma Anderson. «In generale non è un evento negativo, ma non è un vantaggio per gli operatori finanziari che preferiscono i mercati irrazionali. In questo modo è più facile la comparsa di quei guadagni smisurati che giustificano il ritorno economico del rischio assunto dalle società di venture capital». Le eccezioni esistono – il produttore di batterie A123 Systems (un’azienda in cui ha investito Anderson) ha raccolto 380 milioni di dollari durante la sua offerta pubblica nello scorso autunno – ma sono rare. Comunque qualche segno di miglioramento si vede. Tim Draper di Draper Fisher Jurvetson (DFJ), per esempio, sostiene che «i prossimi 8-10 anni saranno il periodo più esaltante nella storia del capitale di rischio». A suo parere, però, gli elementi trainanti dell’innovazione futura non si trovano nei soliti posti. Oltre a Silicon Valley, DFJ sta investendo in Cina, India e Vietnam. Allo stesso tempo, afferma Paul Kedrosky della Ewing Kauffman Foundation, «anche se troppe società di capitale di rischio continuano a investire nella tecnologia dell’informazione perché lo hanno fatto in passato», molti operatori finanziari intervengono nei settori dei media, della formazione e persino in quello finanziario, nei quali il cambiamento tecnologico sta introducendo innovazioni dirompenti e, di conseguenza, ottime opportunità di profitto.

Ma per gli operatori finanziari non sarà sufficiente cambiare il modo e il luogo dei loro investimenti. Il problema reale non è difficile da vedere: c’è troppo capitale di rischio e ci sono troppi «capitalisti di ventura». Non c’è spazio per i profitti. Complessivamente il settore gestisce circa 200 miliardi di dollari, più del doppio della cifra amministrata nel 1998, e i fondi di venture capital hanno investito dai 20 ai 30 miliardi di dollari l’anno per buona parte del passato decennio. A livello di singoli fondi, la grande disponibilità di capitali insieme ai costi in caduta per l’avvio delle startup hanno, con le parole di Anderson, «irrobustito» questi fondi. In effetti un fondo con una disponibilità di 500 milioni di dollari non può fare tanti piccoli investimenti, anche se questo tipo di operazione avesse un senso economico, perché i soci non hanno il tempo di supervisionare centinaia di aziende (per questa ragione, oltre al desiderio di limitare i rischi, molte società di venture capital hanno iniziato ad attendere l’ultimo giro di incontri prima di investire). In assenza di una nuova bolla, non c’è modo per le nuove aziende di generare profitti abbastanza alti da garantire un ritorno ragionevole all’investimento di 20-30 miliardi di dollari l’anno. Kedrosky, per esempio, ritiene che per ottenere ritorni economici soddisfacenti gli investimenti annuali e il denaro gestito dalle società di venture capital dovrebbero più che dimezzarsi. E anche se Wilson si definisce «molto fiducioso» sul decennio a venire, spiega che il giro d’affari del settore «deve ritornare alle dimensioni e alla forma che aveva alla fine degli anni 1980 e all’inizio degli anni 1990».

L’aspetto più interessante è che questa diagnosi suscita più consensi che critiche. Sono in molti a ritenere che circoli troppo denaro. Il problema ricorda in parte il nodo del traffico: tutti pensano che ci siano troppe macchine, ma nessuno vuole prendere i trasporti pubblici. In molte attività commerciali la questione si affronta mandando a casa i perdenti. Nel caso degli operatori finanziari l’operazione di sfoltimento richiede molto più tempo, perché il capitale di rischio non è come il mercato azionario: se si è rimasti delusi, non si può ritirare il denaro. Il socio accomandante, che ha una responsabilità limitata, investe nei fondi di venture capital assumendo un impegno vincolante, a lungo termine, per venire incontro alle «chiamate» di quote di capitale del socio accomandatario che gestisce amministrativamente il fondo e decide gli investimenti. Questo meccanismo, dal punto di vista dell’innovazione, è il punto di forza del capitale di rischio: invece di avere un ritorno immediato, aiuta a costruire il futuro dell’azienda. Tuttavia, in questo modo si crea ciò che Wilson definisce «un aumento esponenziale della latenza del sistema». Così anche quando il settore del venture capital si muove verso un equilibrio più avanzato tra la gestione del denaro e i potenziali rendimenti, è necessario molto tempo per liberarsi di chi ottiene scarse prestazioni.

Appare quindi probabile che i risultati saranno ancora di basso livello per qualche anno. Anche se non si tratta di una buona notizia per gli investitori in capitale di rischio, non è chiaro quali potranno essere le reali conseguenza sull’economia. La peculiarità del dibattito sulla rottura del modello di venture capital è che non si sta mettendo in discussione l’importanza dei finanziamenti nelle fasi di decollo delle aziende innovative. Tutti sono convinti della loro utilità. Neanche si mette in dubbio che gli operatori finanziari creino valore; malgrado le critiche di numerosi imprenditori, la storia insegna che il capitale di rischio ha giocato un ruolo chiave nel favorire l’innovazione. In una ricerca sulle aziende di Silicon Valley, per esempio, gli studiosi Thomas Hellmann e Manju Puri hanno scoperto che le aziende finanziate con capitale di rischio si mostravano significativamente più rapide delle altre a commercializzare un prodotto e a intraprendere quella che loro definiscono una «strategia innovativa». In uno studio sui dati dei brevetti, Josh Lerner ha sostenuto che il capitale di rischio era «tre o quattro volte più efficace» della R&S aziendale nel favorire l’innovazione.

Una volta stabilito che il venture capital è necessario e utile, che importanza ha, dal punto di vista sociale, se l’offerta è eccessiva? Ciò di cui ci si deve preoccupare, in fin dei conti, non sono né i rendimenti degli investitori né i profitti della società di venture capital. Il dato essenziale è che le nuove aziende possano essere avviate e che l’innovazione venga finanziata. Una delle verità inoppugnabili dell’innovazione redditizia è la difficoltà, se non l’impossibilità, di identificarla in anticipo (per questa ragione il modello familiare di venture capital prevede almeno un paio di colpi di grande successo nel portafoglio per sopperire a tutti gli altri risultati mediocri e ai fallimenti totali). Il possibile ridimensionamento sarà quindi più importante per l’industria del capitale di rischio che per il resto della società. Come sostiene Tim Draper: «Non ci sono mai abbastanza capitali di rischio o imprenditori o soldi per nuove iniziative». D’altra parte, anche se gli investitori di capitale di rischio hanno messo troppo denaro in società di software non innovativo e in aziende di tecnologie pulite che sono rimaste al palo, sarebbe forse stato meglio che questo denaro fosse finito in obbligazioni collaterali di debito di qualche banca?

Probabilmente no. Ma ci sono una serie di motivi per pensare che un’industria di venture capital con troppa liquidità non sia una buona cosa. Innanzitutto, poiché le società di venture capital gestiscono una parte di asset industriali, il possesso di decine di miliardi di dollari da investire ogni anno permette all’operatore finanziario di avere dei vantaggi anche da investimenti errati. Non è questa la ricetta giusta per creare un sistema di investimenti mirati da parte del capitale di rischio. Inoltre, il problema dell’«ipertrofismo» è reale: avendo troppi soldi a disposizione, il capitale di rischio aspetta a entrare nelle aziende fino all’ultimo giro di finanziamento, apportando un valore ridotto. è anche probabile che le maggiori dimensioni di questi fondi, costringendo le società di venture capital a spalmare i loro investimenti su più aziende, abbiano diminuito la capacità di controllo sulle prestazioni aziendali. Per molti imprenditori potrebbe essere una buona notizia, ma la ricerca di Lerner indica che il controllo e l’opera di consulenza delle società di venture capital hanno rappresentato una buona parte della spiegazione del successo, storicamente comprovato, delle aziende sostenute dal capitale di rischio nel favorire l’innovazione. Potrebbe anche essere una coincidenza che l’offerta eccessiva di capitale di rischio abbia coinciso con un periodo che ha prodotto solo due startup innovative finanziate con venture capital: Facebook e Twitter (per una analisi del giro d’affari di Twitter si veda Twitter cinguetta perché può diventare ricco, a pag. 50). Ma potrebbe anche essere il segno di un settore ripiegato su se stesso.

La situazione sta cambiando in meglio: l’anno scorso i fondi di capitale di rischio ammontavano a 17,7 miliardi di dollari, circa il 40 per cento in meno dell’anno precedente. E anche se è un processo doloroso, l’industria del venture capital deve perdere i suoi investitori per ritornare ad assicurare dimensioni più razionali. Appare infatti altamente improbabile che il pendolo oscilli troppo dalla parte opposta e che il venture capital corra il rischio di trovarsi con fondi insufficienti. Le sirene dei grandi profitti non si sono dileguate. Le attività del capitale di rischio sono ancora associate più a investimenti altamente remunerativi come Juniper (e prima ancora Cisco, Apple e Digital Equipment Corporation) che con flop come Procket.

Gli operatori finanziari, come gli imprenditori, hanno un ego smisurato: credono di saper identificare e sfruttare opportunità di profitti che gli altri non vedono. Ciò rappresenta forse un difetto per loro o per i loro investitori, ma è positivo per il resto della comunità in quanto garantisce un flusso costante di denaro fresco per le nuove aziende. Il venture capital deve diventare più razionale, ma non troppo.

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