L’ultima frontiera della fratturazione idraulica si sposta sempre più verso le acque profonde. Anche se l’ostacolo principale rimane il costo proibitivo delle operazioni.
di Paul Betts (Fonte OIL)
Grazie alla rivoluzione del petrolio e del gas di scisto onshore, guidata dai progressi tecnologici che combinano fratturazione idraulica e perforazione orizzontale, gli USA stanno vivendo un’impressionante rinascita energetica.
Alla vigilia della Settimana Internazionale del Petrolio, che si è tenuta a Londra a febbraio, l’Ad di BP, Bob Dudley, ha sottolineato come gli USA abbiano superato lo scorso anno l’Arabia Saudita, affermandosi come principali produttori petroliferi al mondo e annoverandosi tra le fila dei maggiori produttori di gas. Inoltre, per il secondo anno consecutivo, gli USA sono riusciti a registrare il più massiccio incremento della produzione a livello globale. Questo traguardo ha stimolato gli altri Paesi del mondo – non da ultimi Cina, Russia e Regno Unito – a tentare di emulare gli Stati Uniti, attingendo alle proprie risorse di scisto onshore, sebbene molti abbiano finora dovuto fare i conti con un atteggiamento locale recalcitrante e con le obiezioni degli ambientalisti.
Ma se è vero che il boom e la controversa attività di fratturazione onshore hanno dominato le prime pagine dei giornali, il settore gas-petrolifero si sta concentrando sempre più sulla possibilità di estendere la tecnologia del fracking anche offshore in acque profonde. Uno dei motivi principali è l’idea che la fratturazione offshore provochi meno resistenza da parte degli stakeholder locali e ambientali rispetto al medesimo processo sulla terra ferma, considerato il fatto che le operazioni di perforazione in mare non sono soggette a difficili trattative con consigli, comunità e proprietari terrieri locali.
NIENTE DI NUOVO. LA TECNICA ESISTE DAGLI ANNI NOVANTA
La fratturazione idraulica offshore non è una novità, come sottolinea l’American Petroleum Institute (API), spiegando che il processo è comune- mente applicato dai primi anni ’90. Tuttavia, il ricorso a questa tecnica rimane piuttosto limitato rispetto alla fratturazione onshore e rappresenta un mero 5 percento circa del mercato complessivo del fracking. Finora, il processo è stato utilizzato principalmente per incrementare la produttività dei giacimenti gas-petroliferi offshore esistenti, contribuendo a migliorare la durata e l’affidabilità dei pozzi oltre che il recupero del gas e del petrolio. Come spiega l’API in un saggio sulla fratturazione idraulica off- shore, il concetto è simile a quello applicato per lo sviluppo sulla terra ferma di risorse non convenzionali, come le sabbie bituminose di scisto e tight oil. Il fracking offshore nasce dal connubio di due tecnologie gas-petrolifere comprovate – la fratturazione idraulica e il completamento con filtri meccanici (gravel pack) – mentre per i pozzi onshore unisce il processo di fratturazione idraulica e perforazione orizzontale, rendendo economicamente possibile le operazioni di estrazione e produzione da formazioni di sabbie bituminose di scisto e tight oil. In molte aree offshore, le formazioni geologiche che producono gas e petrolio non sono amalgamate, il che significa che la sabbia che le costituisce non è compatta come quella a riva. “Di conseguenza”, si legge nel paper dell’API, “questa sabbia cedevole può finire all’interno dei condotti di produzione del pozzo o di un’attrezzatura in superficie. Eliminare le infiltrazioni di sabbia è stata una delle sfide più ardue mai affrontate dagli ingegneri sin dall’inizio delle attività gas-petrolifere in mare”.
Le tecnologie di controllo della sabbia si sono evolute negli anni, prima di tutto con il processo di completamento con gravel pack, che funge da filtro nel pozzo al livello di formazione produttiva per impedire le infiltrazioni di sabbia. Quando gli operatori si sono resi conto che più grande e spesso era il filtro, migliori erano le prestazioni del pozzo, hanno combinato la tecnologia di fratturazione idraulica con il completamento con gravel pack, dando vita a quello che oggi è chiamato processo “Frac Pack” e migliorando così l’efficienza operativa e il recupero del petrolio e del gas. Il fracking offshore è stato impiegato per qualche tempo nel Golfo del Messico, nel Canale di Santa Barbara, in Brasile, nel Golfo Ara- bo, nell’Africa occidentale e nel Mare del Nord, con il sostegno delle cosiddette “navi per la stimolazione dei pozzi”, messe a disposizione da società di servizi leader nel settore petrolifero, come Halliburton, Schlumberger e Baker Hughes. A riprova di come queste attività di fratturazione offshore siano destinate ad aumentare in futuro, Schlumberger ha an-nunciato lo scorso anno l’introduzione di altre cinque navi per la stimolazione dei pozzi, che dovrebbero operare nelle acque profonde del Golfo, del- l’Oceano Indiano e del Mare del Nord.
La tendenza si riflette anche nei crescenti sforzi profusi dalle principali compagnie petrolifere per massimizzare i rendimenti sugli investi- menti nei giacimenti esistenti trami- te tecnologie ottimizzate di recupero del petrolio. David Eyton, responsabile della divisione tecnologia di BP, ha dichiarato in occasione della recente Settimana Internazionale del Petrolio di Londra, che il settore globale ha probabilmente raggiunto un punto in cui il potenziale di miglioramento del recupero di petrolio da giacimenti di idrocarburi conosciuti supera quello delle nuove scoperte. Il CEO di BP, Bob Dudley, ha aggiunto che, quando nel 1968 è stato scoperto Prudhoe Bay in Alaska, si pensava contenesse 9,6 miliardi di barili di petrolio. Finora, ne sono stati estratti già 12 miliardi, “e il giacimento sta continuando a produrre”, ha dichiarato Dudley, che ha spiegato anche come nelle imminenti operazioni a Clair Ridge, nel Mare del Nord, BP dispiegherà la propria tecnologia utilizzando acque a bassa salinità per estrarre il petrolio intrappolato e garantire ulteriori 42 milioni di barili a un costo extra di $120 milioni, ovvero a $3 al barile.
IL CASO ENI: LA TECNOLOGIA MULTISTADIO
Uno degli esempi forse più lampanti di come la tecnologia di fratturazione idraulica possa infondere nuova vita nei reservoir offshore, le cui prestazioni sono inevitabilmente in declino, è la campagna su ampia scala intrapresa da Eni a sostegno del fracking fra l’aprile e il giugno 2007 nel giacimento Kitina 3A al largo delle coste congolesi. Eni ha optato per una tecnologia di fratturazione idraulica multistadio, che ha prodotto risultati sorprendenti, con un incremento della produzione in questo sito nell’ordine del 230 percento. Come dimostra un case study condotto da Schlumberger – che ha fornito ad Eni i servizi per questo progetto – la produzione del giacimento Kitina prima dell’adozione delle tecniche di fratturazione era di circa 590 barili al giorno (bpd).
Novanta giorni dopo il trattamento, la produzione ha regi- strato un incremento complessivo costante a 1950 bpd. Eni ha utilizzato la medesima tecnologia anche in un reservoir petrolifero vergine nel vicino giacimento offshore di Foukanda. Qui i pozzi garantivano una produzione iniziale di 3000 bpd, stabiliz- zatasi a 2000 bpd.
La Petroleum Oil and Gas Corpora- tion of South Africa (PetroSA) considera il fracking un modo per incrementare la produttività di tre dei pozzi di sviluppo del giacimento FO, situato a 110 km al largo di Mossel Bay. Se dovesse ottenere le autorizzazioni normative necessarie, grazie alla fratturazione idraulica la società dovrebbe riuscire ad estendere la durata prevista della sua raffineria GTL di Mossel Bay, aumentando la produttività dei pozzi. Negli USA, il governo federale ha appena approvato tre nuove operazioni di fratturazione in pozzi esistenti nel Canale di Santa Barbara, al largo delle coste della California, nonostante la crescente opposizione della comunità locale e degli ambientalisti a questo tipo di approccio. Dalle disastrose fuoriuscite di petrolio che hanno colpito il Canale di Santa Barbara nel 1969, la questione si è fatta sempre più dibattuta e controversa. Sebbene il disastro sia sfociato in una moratoria sulle nuove concessioni di perforazione e abbia ispirato le leggi federali sulle acque pulite e la costituzione dell’attuale movimento ambientale, le società petrolifere sono state autorizzate ad adottare la tecnica di fratturazione per stimolare una ripresa della produzione nei vecchi pozzi esistenti. Sembra che finora le attività si siano svolte in sordina, lontane dallo sguardo pubblico, finché l’Associated Press non ha pubblicato l’anno scorso la notizia che il governo federale aveva acconsentito alle operazioni di fracking nell’Oceano Pacifico almeno 12 volte dalla fine degli anni ’90 e stava continuando a concedere approvazioni per la fratturazione a piattaforme soggette alla cosiddetta “clausola del nonno”.
PROGETTI DI ESPLORAZIONE TOTALMENTE NUOVI
Se il fracking è stato utilizzato con un certo successo soprattutto per prolungare la durata degli impianti e sti- molare la produzione in giacimenti offshore maturi, alcune società di perforazione pionieristiche stanno ora pensando di compiere un ulteriore passo avanti e di applicare la tecnologia per progetti di esplorazione offshore del tutto nuovi.
A febbraio, il veterano dello scisto Chris Cornelius ha annunciato di voler utilizzare la fratturazione per perforazioni al largo del Mare d’Irlanda, dopo che la sua azienda di recente costituzione, Nebula Resources, ha ottenuto tre licenze dal dipartimento britannico per l’Energia e i Cambiamenti climatici. Chris Cornelius è stato uno dei fondatori della società britannica di estrazione del gas di scisto, Cuadrilla, ora presieduta dall’ex Ad di BP, Lord Browne. L’area coperta da tali licenze nel Mare d’Irlanda si estende da Blackpool verso ovest fino a Morecambe Bay, quindi non molto lonta- no dal sito in cui Cuadrilla intende perforare e fratturare due nuovi pozzi di gas onshore.
Tuttavia, la società deve prima fare i conti con un’agguerrita opposizione locale, soprattutto da quando, nel 2011, è stata costretta a interrompe- re la primissima fratturazione mai ese- guita nel Regno Unito, dopo che l’operazione aveva generato un ter- remoto. Cornelius ha ammesso che negli ultimi cinque anni, probabil- mente, la strada dell’onshore non ha rappresentato la soluzione più van- taggiosa per il Regno Unito”. Ecco perché, due anni fa, ha cominciato a ricercare opportunità in vari ambiti del settore offshore e, quando vicino al giacimento di Cuadrilla sulla ter- raferma sono stati aperti dei blocchi offshore, la sua società non ha perso tempo e a gennaio si è aggiudicata le licenze necessarie. “Senza dubbio, il gas offshore è un nuovo concetto”, ha dichiarato Cornelius in un’intervista alla BBC, aggiungendo, “non esisto- no motivi validi nella storia britannica dello sviluppo offshore per cui non dovremmo attingere a queste risorse disponibili in mare”. Sulla base dei dati geologici attuali, Cornelius ritiene che in quest’area del Mare d’Irlanda vi sia una quantità notevole di gas in place, equivalente addirittura a 7.000 miliardi di metri cubi: molto di più delle stime di Cuadrilla per le riserve onshore. In effetti, dal British Geological Survey è emerso che le risorse di scisto offshore del Regno Unito potrebbero ammontare, nel complesso, anche a 5-10 volte la quantità delle risorse disponibili sulla terra ferma. Cornelius non è il solo ad aver puntato gli occhi sul potenziale del fracking nei depositi di scisto offshore.
Lo scorso anno, Trapoil – una piccola società di estrazione petrolifera – ha annunciato di voler sviluppare le procedure di fratturazione nella zona centrale del Mare del Nord. A detta della società, questi fondali potrebbero offrire più petrolio e gas estratti con tecnologie non convenzionali rispetto all’output complessivo prodotto finora nel Mare del Nord, in un periodo in cui i processi convenzionali nelle acque di competenza britannica hanno toccato il picco massimo e il governo è ansioso di sostenere nuove imprese per far fronte al declino. I fondali del Mare del Nord assegnati a Trapoil sono vicini agli enormi giacimenti Brent e Ninian. Perciò, se il tentativo dovesse dare esito positivo, questa zona potrebbe essere collegata alle infrastrutture esistenti, prolungando la durata degli impianti e rendendo commercialmente fattibile l’estrazione. Più a sud, la tedesca RWE Dea ha già avviato la produzione di gas dal giacimento Clip- per South nelle acque meridionali del Mare del Nord.
La società ritiene che il sito possa con- tenere circa 13,4 miliardi di metri cubi di gas in place. RWE Dea ha utilizzato la tecnologia di fracking multiplo per perforare cinque pozzi orizzontali multifratturati.
UN OSTACOLO PROIBITIVO: IL COSTO DELLE OPERAZIONI
Tuttavia, gli esperti di queste procedure avvertono che è bene non lasciarsi prendere troppo dall’entusiasmo quando si tratta di applicare la tecnologia in nuovi depositi di scisto off- shore. Infatti, sebbene non vi siano evidenti motivi tecnici per cui il fracking non sia idoneo allo scisto in mare, l’ostacolo principale è il costo proibitivo delle operazioni offshore, che le piccole società di perforazione in- dipendenti non possono ovviamente permettersi senza il sostegno dei colossi petroliferi, che dispongono del necessario “portafoglio a fisarmonica” e di anni di esperienza nella gestione di grandi impianti gas-petroliferi e delle relative infrastrutture offshore. Tuttavia, molte di queste importanti compagnie petrolifere stanno tentando di massimizzare i rendimenti degli investimenti già effettuati e sono restie ad allocare nuovi capitali. Al contempo, il fracking di depositi di scisto offshore è tuttora considerato poco redditizio dai pesi massimi del settore, alla luce dei costi elevati e delle riserve relativamente limitate di questi reservoir rispetto ai depositi gas-petroliferi convenzionali. In poche parole, è possibile che esistano ingenti riserve di scisto offshore, ma la loro estrazione è e rimane alquanto dispendiosa. Per creare pozzi di scisto offshore sarebbe necessario un notevole miglioramento delle attuali capacità di fratturazione. E sebbene le piccole società di estrazione indipendenti, come quella di Chris Cornelius, siano “assolutamente certe” che le risorse ci sono e in quantità notevole, rimane da capire se e come siano effettivamente sfruttabili. La questione è destinata a restare irrisolta per i prossimi anni a venire. A tale proposito, il Prof. Dieter Helm dell’Università di Oxford, ha dichiarato in un’intervista alla BBC: “è assolutamente plausibile che fra 20, 30 o 40 anni, la tecnologia di fratturazione e le modalità di gestione dell’ambiente offshore sa- ranno talmente avanzate da rappresentare a tutti gli effetti un settore cruciale. Il compito per il prossimo decennio è sperimentare queste possibilità e vedere se funzionano”. Un altro esperto si è detto lieto di sapere che una società si è lanciata nell’impresa nel Mare d’Irlanda, ma ha anche aggiunto che “sebbene i potenziali rendimenti siano immensi, altrettanto ardua è la sfida per estrarre tali risorse”.
Chi è Paul Betts: lavora da 36 anni per il Financial Times ed è stato per 28 anni corrispondente estero del quotidiano a Roma, Parigi, New York e Milano. Attualmente scriveda Londra come editorialista di economia internazionale.
(sa)