Il giornalismo oggi, o meglio il neogiornalismo, deve scegliere se essere il cagnolino dei potenti o il cane da guardia dell’opinione pubblica.
di Mario Morcellini
Definire una nuova categoria come quella di neogiornalismo significa tentare di dare risposta a un problema di conoscenza: cosa è il giornalismo oggi? Come può esser aggiornata la sua definizione, in un contesto in cui le formule del passato non ce la fanno più a rendere conto dell’impatto in termini valoriali e professionali del termine «giornalismo»? Dobbiamo domandarci se questa parola-contenitore è ancora efficace per descrivere il bisogno degli uomini di essere al corrente dei cambiamenti della realtà.
Il giornalismo, per come lo conosciamo in termini di reputazione sociale e di definizioni scontate, seppure in termini terribilmente semplificati, è essenzialmente questo: partecipare al proprio tempo, essere «in linea» con i cambiamenti, alzare gli occhi rispetto alla soggezione ai fatti. L’ipotesi che è possibile avanzare oggi è coraggiosa e avanzata: le contaminazioni che il giornalismo ha conosciuto a causa dell’exploit della comunicazione, e dell’espansione ipertrofica dei suoi territori sempre nuovi, hanno finito per insidiare una percezione chiara e distinta del suo posizionamento, smaterializzandone i confini e rendendo più complesso uno sforzo rigoroso di definizione e interpretazione. Perché è vero che sia la comunicazione sia l’informazione aiutano gli uomini a sentirsi parte della modernità, a essere o almeno a sentirsi moderni, ed è altrettanto vero che la fortuna della comunicazione e dell’informazione ha ampliato l’enciclopedia dei moderni. Ma è venuto il momento di chiederci se a questo aumento delle tastiere espressive sia corrisposto, nei fatti, un aumento delle competenze dei soggetti avanti ai quali si distende questa inedita moltiplicazione dell’offerta.
Stiamo parlando di un mondo e di un’esperienza percettiva che si sono costituiti nell’epoca gutenberghiana essenzialmente per sostenere l’uomo «moderno» nel suo bisogno di non essere escluso, di sentirsi dentro la corrente degli eventi nuovi o rilevanti, con la radicale presa d’atto, caratteristica dei nostri anni, che nell’assetto dei bisogni del pubblico tardo-moderno si modifica bruscamente l’equilibrio tra ciò che è nuovo e ciò che è rilevante a beneficio di una insaziabile sete di novità e di scoop. Tutto ciò, ovviamente, arreca un grave pregiudizio alla percezione dell’importanza del giornalismo nell’improvvisata «catena» del valore dell’uomo moderno, e non è dunque un caso che la definizione di crisi accompagni ormai stancamente il termine giornalismo.
In questo come in molti altri campi, la crisi rappresenta una sfida intellettuale: entro un concetto così forte sul piano semantico, e paradossalmente così facile da spendere al punto da risultare logoro e inflazionato, c’è sempre qualcosa che spinge a cercare nuovi significati, a leggere in profondità, ad andare al di là di ciò che appare come scontato. In una realtà sociale sempre più pervasivamente mediatizzata, il campo giornalistico rappresenta quasi per definizione un terreno privilegiato, in cui gli incerti segni della crisi si anticipano e cominciano a definirsi. Quando nel sistema dell’informazione viene a mancare la propensione a leggere il mutamento, s’innesca un cortocircuito comunicativo che, inevitabilmente, volge lo sguardo al passato, idealizzandolo, e rende ancor più difficoltoso misurarsi con il futuro. La forza e la sensibilità nel recensire il mobile perimetro del mutamento rende quindi indispensabile un affinamento degli strumenti culturali e degli indicatori analitici.
La crisi appare come uno stato temporaneo di squilibrio di un sistema, accompagnato a una grave incertezza e difficoltà, che non può essere risolto attraverso le risorse normalmente disponibili. Ma questo concetto nasconde due dimensioni apparentemente inconciliabili, eppure complementari: la crisi come rischio, ma anche opportunità virtuosa. Adattare il concetto di crisi al giornalismo implica la presa d’atto che in questo territorio si può evidenziare un caso particolare, ma lampante di un più ampio deficit della mediazione, che rappresenta una delle cifre distintive della modernità. Di fronte alla crescente opacità dei processi sociali diventa obbligatorio rivendicare un ruolo di selezione ben più sofisticato dei fatti del mondo. Del resto, l’attuale congiuntura sociale ed economica si caratterizza sempre più come una riduzione della speranza nel futuro e della relazione con l’altro, cui si aggiunge una generalizzata sfiducia nella capacità della politica di difendere lo spazio particolare del soggetto, armonizzando gli interessi e i diritti degli individui.
Oggi, il sistema dell’informazione e la politica, di fronte alle tendenze al ripiegamento dell’individuo e all’esclusione dell’altro dal proprio orizzonte cognitivo, si contraddistinguono per la sostanziale contiguità di linguaggi, metafore, strategie e salotti frequentati. Ciò che attualmente esprimono politica e media, più che un progetto di società fondato sulla giustizia e sull’equità, appare quasi come un progetto contro la società, a tutela dei particolarismi e delle rendite di posizione.
Le molte dimensioni della crisi del giornalismo sono riconducibili ad almeno quattro nuclei tematici.
La desacralizzazione della società
Così come l’approvvigionamento di notizie ha costituito per i moderni uno dei cardini attorno a cui andava fondandosi un nuovo nucleo sociale, la crisi della mediazione giornalistica è in primo luogo un lascito della perdita di peso della società nella vita degli individui nel contesto tardo-moderno. Ma è anche il portato del processo di svuotamento delle relazioni significative con istituzioni, politica e vita pubblica, che in qualche modo facevano da interfaccia ai bisogni dei soggetti di costituirsi come personalità e identità. In una battuta, al disincanto del mondo è corrisposto il disincanto del giornalismo in quanto racconto del mondo.
La crisi delle rappresentazioni sociali.
Uno dei segnali più evidenti della perdita di valore della società è leggibile nella mutazione degli immaginari sociali e linguistici che hanno dominato la cultura del nostro paese fino alla metà degli anni Novanta, ridotti alla dimensione più vaga e imprecisa del racconto del mondo in poche battute, del riduzionismo di contenuti e linguaggi tipico del racconto televisivo. Laddove infatti il giornalismo è elaborazione alta della spiegazione del mondo, restituzione non annacquata della complessità del reale, gli stili di consumo dell’exploit della comunicazione hanno abituato i lettori ad accedere superficialmente a un ampio numero di beni culturali, allargando il loro sguardo sul mondo, ma riducendo la loro capacità di approfondimento.
La rivoluzione negli stili narrativi.
è in corso da anni una profonda mutazione della narrazione, nella presunzione di intercettare meglio l’attenzione dei pubblici. Inseguendo gli stilemi del racconto fictional, che sembrano stimolare in modo più proficuo la «pancia» degli uomini, il giornalismo ha rinunciato a essere costruzione sapientemente narrativa del reale, appiattendosi a cronaca. Rinunciando a quell’opera di racconto del cambiamento che lo accomunava alle scienze sociali, ha preferito investire su un racconto stereotipato e autoreferenziale della società, condito ove possibile di elementi «pulp»; la risposta alla crisi della lettura è stata ricercata quindi nell’esasperato aumento dell’attenzione verso il genere costituito dal male e dalla devianza. In altre parole, è il trionfo della «nera». Non che un processo di rinnovamento dei linguaggi e delle forme del giornalismo non fosse auspicabile. Avremmo preferito, però, veder realizzata una più proficua e raffinata strategia di coinvolgimento dei pubblici, in grado di valorizzare le potenzialità delle forme di scrittura non lineari. Dopo anni di elogio dell’ipertestualità, sarebbe ora di vederla quotidianamente messa in scena.
Il «licenziamento» del passato.
La memoria ha rappresentato a lungo un elemento di mediazione basato sulla densità delle esperienze del passato, e in quanto tale «sacro»; ora, il giornalismo, nella sua funzione di archivio, ha condiviso questa visione e ha dunque contribuito a questa sacralità. Ma l’euforia della comunicazione ha consegnato il mondo ai soli viventi, celebrando la smemoratezza in contrasto con l’operazione «pesante» e fuori moda del ricamare l’interpretazione del mondo sull’esperienza del passato.
è pensando a questa congiuntura, così complessa e sfaccettata, che fatti apparentemente slegati tra loro vanno a saldarsi in una lettura coerente. Il progressivo ampliamento dello scarto interpretativo tra immaginario e reale alimenta vere e proprie «bolle comunicative», in cui le prese di posizione dei giornali appaiono spesso indipendenti dai fatti cui dovrebbero fare riferimento. è evidente che frasi così assolutistiche hanno bisogno di prove, e ne anticipiamo almeno due: anzitutto, la velocità con cui le campagne giornalistiche si affermano, ma al tempo stesso si inabissano precipitosamente, senza che mai si ascolti un bilancio di eccessi e silenzi. Una seconda vicenda che può riassumere paradigmaticamente questa tendenza è l’incredibile rigonfiamento della cronaca nera, diventato ormai nel nostro paese un «genere omnibus». Vi sono oggi fondati motivi per guardare criticamente all’indebolita capacità d’inchiesta e d’osservazione sulla realtà dei media, che sempre più evidenzia un problema di natura culturale. Esso si manifesta, per l’appunto, nella singolare frequenza dei tic giornalistici, quasi sempre carichi di stereotipi e luoghi comuni e che intessono il racconto di molte vicende chiave per la politica del nostro paese. Di fronte a questi segni, parlare di crisi del giornalismo significa interrogarsi sulle trasformazioni del sistema comunicativo sempre più connotate da una drammatica perdita di etica pubblica e di servizio universale. Significa mettere in discussione criticamente la capacità di reinterpretare oggi un ruolo d’interposizione tra potere e società, politica e cittadini. In una parola, significa scegliere se essere cagnolino dei potenti o cane da guardia dell’opinione pubblica.