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Intervista con Barbara Spinelli sul giornalismo nell’era digitale
a cura di Massimiliano Cannata

di Massimiliano Cannata 

Barbara Spinelli autorevole editorialista de «La Stampa» ha una scrittura forte che usa come un grimaldello per scandagliare oltre le apparenze e la superficialità il senso di fatti ed eventi che stanno cambiando il volto della realtà che ci circonda. Da alcune settimane i suoi editoriali insistono su un tema forte: la missione del giornalismo scritto nella società di Internet e dell’informazione. Argomento rilanciato da «Technology Review» e molto dibattuto dall’opinione pubblica mondiale scossa dal conflitto tra il colosso di Google e il governo cinese, ma soprattutto interessata a capire cosa succederà quando economia, cultura, tradizioni, istituzioni passeranno dalla dimensione reale alla dimensione virtuale.

In un intenso editoriale apparso sul quotidiano «La Stampa», Lei affronta il tema delle catastrofi. Prendendo spunto dall’immane tragedia di Haiti, denuncia l’incapacità dei media di vedere oltre la punta dell’iceberg. «Solo il giornalismo scritto ha la respirazione lenta della storia. Le immagini ci offrono infatti solo pezzi della realtà. Twitter cattura l’urlo di Munch, ma non va in profondità, questo il limite. Si tratta di una rivalutazione forte per non dire «filosofica» della carta stampata. Le nuove tecnologie non sono adatte a raccontarci fatti ed eventi della storia? Dobbiamo essere diffidenti verso i nuovi mezzi della comunicazione telematica?

Riflettendo sulla speciale vocazione del testo scritto -la vocazione a immergersi, ad addentrarsi- non escludo in alcun modo l’aiuto, enorme, che ci viene dagli altri mezzi di comunicazione, più o meno nuovi. L’immagine ha un immediato potere perturbativo che la scrittura non possiede: prende letteralmente lo stomaco, come accade al buon samaritano che nel Vangelo di Luca vede sul ciglio della strada l’uomo ferito a morte. Twitter ha la forza impareggiabile della forma breve, dell’aforisma: è l’urlo dell’uomo che vuol farsi udire dai sordi. Il nostro mondo sarebbe diverso, infine, se non esistesse la straordinaria libertà della blogosfera. Nessun potente, oggi, può durevolmente controllare la circolazione dell’immagine, dell’urlo, del blog. Ma è vero che tutte queste espressioni dicono un frammento di realtà: l’ultimo, in genere, nella vita d’una persona o di un popolo. La realtà è fatta di mille strati, ha una storia alle spalle complessa e lunga. La civiltà della scrittura ne è il riflesso, possiede appunto una respirazione lunga che va preservata. L’immagine fotografica, Twitter e Internet sarebbero voci umane dissipate, senza questa respirazione alle spalle. In alcuni casi l’immagine e Internet pervertono addirittura la realtà. Prendiamo l’attacco alle torri di New York, l’immagine che mille volte ci è stata mostrata sul piccolo schermo: ho calcolato che nove giorni di immagini ripetute, spesso con belle musiche di sottofondo, hanno prodotto la frase di Stockhausen detta il 19 settembre di quell’anno: «Questa è la più grande opera d’arte che in assoluto esista nel cosmo». Nell’Ottocento era il romanzo a possedere la respirazione lunga, e il giornalismo era guardato con diffidenza: il giornalismo era il Twitter dell’epoca.

Internet vivifica il mestiere di chi scrive

Parola e immagine come devono coniugarsi per fare buon giornalismo? Avevamo creduto di diventare tutti cronisti. Dopo le torri gemelle, gli attentati di Londra e Madrid, raccontati da cameramen non professionisti, quando non da semplici turisti, avevamo creduto di essere diventati tutti cronisti. Il dibattito dominante oggi nell’era del Web 2.0 riguarda la necessità di ridare autorevolezza alle fonti e al linguaggio del giornalismo, di fronte al proliferare di Google, Wikipedia e ai microblog. Cercare la verità ha ancora un senso?

Sì, l’unica cosa è coniugare parola, scrittura, immagine, facendo vivere ciascuna di esse con la loro peculiare intensità. è come quando Kafka distingue la parola dalla scrittura: «Se una cosa la dico, essa perde la sua importanza subito e definitivamente. Se la scrivo, perde comunque importanza ma a volte ne guadagna una nuova». Il cameraman, professionista o dilettante, fa salire in superficie cose importanti che al giornalista possono sfuggire o che il cronista, più esposto a censure e autocensure, non racconta. Non dimentichiamo la straordinaria vicenda dell’esecuzione di camorra avvenuta a Napoli l’11 maggio scorso. Un video riprese l’assassinio e tutto cambiò: le immagini hanno svelato la banale normalità degli assassinii di mafia, e non hanno permesso solo di catturare l’omicida. Hanno anche spinto i passanti che apparivano sul video a uscire allo scoperto, a rompere l’omertà. L’era di Internet non si sostituisce al linguaggio del giornalista o dello scrittore, non elimina il bisogno di fonti autorevoli. Internet è al loro fianco, compagno segreto ormai indispensabile, che vivifica e spesso corregge il mestiere di chi scrive».

«Vediamo l’apocalisse di Dio e non quella degli uomini», ha scritto citando il drammaturgo tedesco Heinrich von Kleist. La crisi della responsabilità politica porta a questi drammi. «Uomini vuoti ai comandi della politica, figure senza colore, forza paralizzata» sono il paradigma dei tempi che viviamo. è davvero così a tinte fosche il terzo millennio che stiamo vivendo?

Nel suo racconto, Kleist medita su un evento che divise le intelligenze europee: il terremoto di Lisbona del 1755. Kant riscrisse interi brani dei suoi libri, dopo l’evento. Voltaire attaccò l’ottimismo di Leibniz per dire: il mondo non viaggia ineluttabilmente verso il meglio, il male è sulla terra. Kleist va ancora più in profondità. L’apocalisse divina o naturale non è il vero problema, tutti sappiamo che il male è sulla terra. L’apocalisse più terribile, nel racconto che s’intitola Terremoto in Cile, è quella che avviene dentro di noi. è la più tremenda perché l’uomo può fare apocalissi ma anche sventarle. Le sventa quando crea una pòlis, dove i cittadini si dividono senza spargere sangue e disprezzare i bisogni del prossimo. Quando rifiuta di sostituirsi a Dio e di affrettare l’Armageddon. Quando nel diverso vede non solo l’essere umano, ma l’essere umano cui è data, come a ciascuno, una cittadinanza fatta di diritti e doveri. La crisi della responsabilità politica è a mio avviso perversamente racchiusa nel moderno discorso umanitario. L’umanitario ha una curiosa tendenza ad associarsi alla violenza, alla sopraffazione. Nel momento in cui riduciamo un individuo o un popolo a essere umano, possiamo fargli il bene come il male perché l’abbiamo strappato alla sua storia lunga, alle sue appartenenze. Lo abbiamo trasformato in uomo nudo, non più responsabile politicamente e nemmeno oggetto di responsabilità politica.

Bisogna tradurre il silenzio in parola, in blog appunto

Politica globale delle catastrofi, sono etichette che ci «rifiliamo» a vicenda. Ma la memoria si vendica. Sul tema della memoria ha insistito in più momenti della sua scrittura. Si tratta di una problematica molto forte, in relazione alla proliferazione dei supporti informatici che hanno alterato la dimensione del ricordo e la nostra capacità di recuperare tracce del nostro vissuto. Vengono in mente oltre ad Haiti tante altre catastrofi: il terremoto in Abruzzo, l’alluvione di Giampilieri nei pressi di Messina. Di fronte a tanto scempio come si può reagire?

Si parla molto di «politica globale delle catastrofi»: anche in questo caso, abbiamo di fronte un’umanità nuda, universalmente omogenea, che sminuisce le responsabilità politiche locali: le responsabilità di chi in Abruzzo o nel Messinese ha permesso che le abitazioni dell’uomo fossero costruite con cemento e sabbia, e che le mafie su questo s’arricchissero. L’atteggiamento umanitario ha qualcosa di pre-politico e, in quanto tale, è un’etichetta che ci viene «rifilata»: in fondo lascia fare, lascia uccidere Falcone e Borsellino, per poi presentarsi alle sepolture vestito a lutto e parlando di umanità offesa. Anche il mafioso ha un rapporto forte con la religione, con Dio. è come quando si parla di politica dei valori supremi (la vita, per esempio): appena classifichi i valori, estraendone alcuni perché «supremi», ne uccidi altri che decadono a disvalori. Come reagire a tutto ciò? Medicando, denunciando. Riscrivendo quel paragrafo del giuramento di Ippocrate che prescrive il silenzio su quello che il medico vede o ascolta. Nel caso di una sciagura collettiva il precetto è diverso: resta il dettato che comanda di «entrare nelle case per il sollievo dei malati», ma va infranto quel segreto che Ippocrate non conosceva e che si chiama omertà. Davanti allo scempio si tratta di tradurre il silenzio in parola, o in immagine, in urlo, in blog appunto. Si tratta di fare letteralmente parlare le pietre – nel caso italiano il cemento – poiché è denunciando il male che esso viene conosciuto e la guarigione può iniziare. Non c’è azione senza parola che circola liberamente e non c’è guarigione senza infrazione del segreto. Per questo l’informazione indipendente è così essenziale, in Italia: spesso lamentiamo un’opinione pubblica indifferente, ma prima di esser aiutata a divenire responsabile, a interiorizzare la cultura della legalità, nel paesino più piccolo come nella grande città, l’opinione deve essere bene informata: con parole semplici, non specialiste, con esempi concreti, con un linguaggio che non presupponga, nell’interlocutore, la conoscenza di difficili dossier.

«Inoltrarsi nel buio con la scrittura, come se il buio fosse un tunnel». Altra frase fortissima che Lei utilizza. La scrittura come segno significante, come differenza, per dirla con Derrida. Abbiamo un giornalismo preparato per andare oltre le apparenze? Per scandagliare nel buio kafkiano di cui parla?

Ho pensato a quel che Kafka scrive della fotografia, e del desiderio di oblio che essa nasconde. Nelle conversazioni con Gustav Janouch dice: «Si fotografano le cose per espellerle dalla nostra mente». E ancora: «La fotografia incatena lo sguardo alla superficie, annebbia quel che è nascosto». Ma la fotografia è per Kafka molto importante, è sua segreta compagna. Quel che va evitato, soprattutto, è guardare il buio come qualcosa di piatto, una sorta di macchia nera sulla pelle delle cose. è in una lettera a Max Brod che Kafka ci indica, secondo me, la via: «Bisogna inoltrarsi con la scrittura nel buio come se il buio fosse un tunnel».