Mutanti macchine immateriali

Tecnologie espressive e nuovi mezzi di comunicazione: una riflessione sulla vita e la morte del romanzo.

di ALBERTO ABRUZZESE

Il romanzo come tecnologia? Possibile. Ma prima una considerazione di fondo. Non accade spesso che a una riflessione critica sugli strumenti delle scienze umanistiche e sul loro modo di utilizzarli al presente e magari al futuro siano concesse grandi risorse economiche, tali da potere creare le basi per una dimensione finalmente adeguata non più a una specifica area di studi ma al mondo, i suoi conflitti, le sue necessità. L’Italia spicca per distrazione nella ricerca scentifica persino in settori tecnologici in cui l’innovazione appare a chiunque brutalmente necessaria non solo per sopravvivere alle regole economiche dei mercati nazionali e internazionali, ma anche per potere affrontare la qualità sociale e umana delle condizioni di vita dei nostri (e altrui) sistemi di appartenenza. Tanto più, dunque, risulta assente o male impostata una politica della ricerca in campi come la letteratura o le arti, che vengono considerate alla stregua di un bene archeologico o di un puro e semplice consumo culturale: come tradizione da conservare (emblematicamente agli antipodi di una strategia dell’innovazione) oppure come riproduzione di una o più nicchie di mercato ritenute tuttavia marginali rispetto ai fattori di sviluppo della società. Qui, ad assegnare qualche risorsa per la ricerca sono gli enti pubblici o gli apparati legati ai mercanti della lettura e dell’arte. Ma di certo non basta la logica – anche scarsa consistenza o distrazione o incuria o opportunismo – dello stato, dell’editoria, delle gallerie, delle mostre e degli eventi. Per non dire delle università. Si sperimenta il già noto

.«Ogni moda è in conflitto con l’organico. Ogni moda accoppia il corpo vivente al mondo inorganico. Nei confronti del vivente la moda fa valere i diritti del cadavere. Il feticcio, che soggiace al sex-appeal dell’inorganico, è il suo nervo vitale».

(Walter Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo).

Si aggiunga che il consumo di narrativa è in Italia endemicamente asfittico e instabile, in primo luogo sbilanciato tra i pochi autori di qualche successo e i tanti che restano nell’anonimato, in secondo luogo invaso dai libri stranieri, dai romanzi della globalizzazione (testi caratterizzati, quale sia il loro contenuto, da standard corrispondenti alle dinamiche dei mercati transnazionali di cui, seppure in modi e significati diversi, fanno parte sia i prodotti delle aree etnolinguistiche forti, imperialiste, sia i prodotti più locali, terzomondisti, in posizione di resistenza ed emergenza rispetto alle culture egemoni della storia). Prodotti, dunque, che – grazie a questo loro tipo di antagonismo, frutto di diversi momenti di uno stesso modello di sviluppo – godono di rilevanti successi proprio in aree di consumo di cui non esprimono e non condividono il tempo e lo spazio. Con la conseguenza – non irrilevante sul piano sociale – che le soggettività delle narrazioni espresse dal mercato della lettura in lingua italiana appartengono a dimensioni innovative di importazione. Vale a dire che in massima parte usiamo una forma di romanzo, un dispositivo narrativo, del cui grado di innovazione (quando sia in condizione di offrirlo) non siamo né gli inventori, né i proprietari (quanto sta accadendo per molti dei «prodotti tecnologici» che consumiamo «come fossero nostri»).

Questo insieme di fattori – ma soprattutto un difetto di riflessione teorica e di progettualità nel campo delle scienze umanistiche – fa sì che alle comunità di studiosi al lavoro in campo letterario viene data ben raramente la possibilità di uscire dal proprio localismo professionale per entrare in un ambiente interattivo, in una rete adatta a realizzare una riflessione più aperta a proposte innovative sul piano dei contenuti, degli strumenti della ricerca, dei prodotti. è in merito a questa situazione che l’impresa einaudiana di cui qui ci accingiamo a parlare ha qualcosa da suggerire. In questo caso – a uno studioso noto per la particolare originalità ma anche trasgressività dei suoi studi – si è data l’occasione di sollecitare una vasta comunità di ricercatori su un tema al tempo stesso immane eppure circoscritto: il romanzo. La valutazione di questa impresa dovrà attendere il tempo di verifica e discussione che si merita. Tuttavia, facendo riferimento a una delle prime discussioni che ne sono scaturite – ci riferiamo al convegno dal titolo Romanzo e modernità, tenutosi presso la Fondazione Giorgio Cini, nell’Isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia – credo di potere azzardare qualche parola sui limiti del mondo letterario-umanistico a cui questo lavoro si rivolge.

Un inciso. Ernesto Franco non avrebbe potuto scegliere teatro migliore di Venezia per celebrare l’uscita dell’ultimo volume, il quinto, dell’opera Einaudi, Il romanzo. Gli autori messi all’opera da Moretti hanno affrontato un compito analogo a quello di chi debba cercare di capire Venezia. Si sono impegnati a guardare un monumento dai «mille piani». Un oggetto plurimo, galattico, ammantato delle infinite scritture che hanno preceduto, affiancato e seguito il romanzo moderno occidentale. Qui domina – è proprio il caso di dire: fatalmente – la «formula narrativa» più radicata nella nostra dimensione eurocentrica; qui si manifesta in tutta la sua pienezza il dispositivo finzionale che più ha agito da piattaforma espressiva del progetto di modernizzazione a cui appartiene – seppure in tono minore – anche la storia italiana.

Così Venezia: pezzo unico e tuttavia decostruibile in infinite stratificazioni culturali. Venezia è stato porto di mare, parco di forme architettoniche e figurative in cui più culture di mondi diversi, cioè distanti nel tempo e nello spazio, si sono concentrate sino a creare una «scultura» antropologica inconfondibile: la rappresentazione compiuta (così oggi ci appare) di un modo di abitare – di una tessitura, di un testo, di un sistema di relazioni – che si distingue nettamente dai tanti altri modi di «esserci» dei soggetti della storia mondiale. Un «nodo» in tutto particolare e irripetibile del suo fluire. Venezia è ora città morta, abitata con molte difficoltà da pochi vivi e con molto piacere estatico da flussi continui di turisti provenienti da tutto il mondo. Venezia è un luogo congelato nel proprio tempo e di questo suo tempo passato è una apparizione reale, materiale, eppure fantasmagorica. Città strana e bizzarra perché ignota allo sguardo e all’abitare dei contemporanei: questa sua radicale diversità basta a costituire la visione di sé di fronte a spettatori di altri mondi. Il carattere «sublime» dei suoi effetti – estetici? – sul visitatore è dovuto a chi la consuma in questa sua assoluta alterità. Venezia ha un corpo, un organismo, svuotato di vita e di sangue: libri, mappe, guide, cartoline, cassette, cataloghi, cuffie acustiche la raccontano al pubblico dei presenti, ai linguaggi dei vivi. Fa loro da bizzarro specchio, da strana risonanza. Un vasto manto di insegne, prodotti di consumo, mode, pubblicità la ricopre di un vissuto globale sempre più imperiale rispetto al suo vissuto locale (la nuda vita degli umani che ancora si annidano tra i suoi «resti»). Le infinite piccole e grandi narrazioni dei media «televisivi» – e cioè di una vicinanza alle cose del mondo ottenuta a distanza e di una distanza delle cose riportata tuttavia all’esperienza diretta dei sensi – coprono con il loro pre-ordinato rumore il senso storico della «città vecchia». Così è per il romanzo.

Il peso della tecnologia in ogni elaborato espressivo

Nel dirigere la sua opera in cinque volumi interamente dedicati al romanzo, Moretti ha potuto coinvolgere nel progetto molti studiosi italiani e stranieri. Di questo monumentale lavoro sono previste traduzioni integrali e parziali in varie lingue. Dunque, una scelta di certo molto importante nell’ambito della ricerca letteraria. Lo è altrettanto nel campo delle scienze sociali? Da un punto di vista economico o politico, a cosa può oggi servire una riflessione sul romanzo? Cosa può avere a che vedere con le tecnologie e con i mercati della società post-industriale? Con un mondo come il nostro, da tempo trasferito dalla terra e dal libro ai territori mediali dei consumi? Prima di tentare qualche risposta, è necessario un chiarimento sull’idea di ritenere il romanzo una tecnologia. Chiarimento banale forse, ma necessario (solo il romanzo fantascientifico mette al proprio centro un esplicito riferimento alla tecnologia, seppure non in quanto scrittura ma oggetto della scrittura).

Nella società post-industriale, meglio che nelle altre, il pensiero si rivela essere una «macchina immateriale» e tanto più lo sono i suoi prodotti e ancora di più i prodotti che funzionano per mettere direttamente in moto l’immaginazione. Produzione di immaginazione a mezzo di immaginazione. Il romanzo definisce dunque una forma e una tecnologia che, come ogni altra tecnologia, vivono di innovazione. Vediamo di agganciare queste tesi a qualche riferimento teorico e storico. McLuhan formulò a suo tempo lo slogan «il medium è il messaggio». Per quanto la formula circoli da decenni, mi pare che siano stati pochi a farla propria. Come molte delle intuizioni di McLuhan, ha spesso funzionato solo a fini pubblicitari, ironici, scaramantici, persino in senso contrario al pre-visto, per dire che i contenuti sarebbero precipitati sotto la sovranità dei media. Altrettanto è accaduto con una sua altra grande intuizione, operativa assai più che teorica, ma a mio avviso fondamentale: i media – qualsiasi oggetto utile a mettere in relazione soggetti, cose, memorie, immaginazioni – sono protesi del corpo umano, emanazioni e corrispondenze non di un soggetto astratto ma concreto, non di conoscenza del mondo ma di esperienza «dentro» il mondo. Immersione fisica e non solo mentale. Dunque: ogni tecnologia, materiale o immateriale che sia, ha la proprietà di essere una dinamica estensione dell’organico nell’inorganico e dell’inorganico nell’organico. A dire che la biotecnologia non è invenzione del presente.

La fiction letteraria, il cinema fantastico tra Otto e Novecento, successivamente le arti estreme – dal Novecento delle avanguardie e di Duchamp all’attualità di Orlan o dei fratelli Chapmann – hanno prima anticipato e poi sviluppato la capacità di veggenza di McLuhan, mettendo in primo piano un rapporto tra corpo e tecnologia che non ha nulla di meccanico persino nell’epoca delle macchine pesanti e che Walter Benjamin a suo tempo ha colto pienamente ricorrendo alla formula «il sex appeal dell’inorganico». Gli studi sociologici e mediologici della e sulla civiltà industriale sono stati assai meno capaci di lavorare su questo piano, lasciandolo al massimo sullo sfondo. Perché? A mio giudizio, proprio perché le tecnologie e i mezzi di comunicazione in genere sono stati concepiti come strumenti a sé stanti, oggetti separati dal corpo dei loro artefici e utenti, strumenti estranei all’umano, forze impositive.

Se riteniamo acquisito l’orizzonte tracciato da McLuhan possiamo dunque riuscire a ragionare sul romanzo negli stessi modi in cui ci siamo abituati a riflettere su una qualsiasi innovazione tecnologica della comunicazione. Possiamo farlo come se parlassimo di un apparato produttivo se non proprio di una fabbrica. Come se si trattasse di un format televisivo oppure dei servizi multimediali offerti dalle ultime generazioni della telefonia mobile? Oppure del «programma» di un videogioco? Penso che sia possibile. Forse con qualche rilevante scorrettezza teorica ma in vista di una certa utilità pratica, strategica, politica, credo che il dispositivo del romanzo – definito nei dizionari «genere di componimenti in prosa» consistente in una specifica «macchina narrativa» – possa e anzi debba essere inserito in un ragionamento sull’innovazione tecnologica. Mossa in tutto legittima, mi pare, se consideriamo lo stretto vincolo che lega tra loro contenuti, testi e veicoli della comunicazione. E quindi se valutiamo il peso che hanno le tecnologie – in senso stretto e in senso metaforico – in ogni elaborato espressivo, in ogni manipolazione comunicativa, in ogni oggetto mediale (tale è un «libro», quanto lo è un qualsiasi altro prodotto capace di funzioni relazionali, capace di prestazioni, usi e consumi umani; tale è, dunque, ogni merce in quanto oggetto relazionale sottoposto alle regole del mercato e alle dinamiche di socializzazione tra produzione e consumo). Porre il romanzo in questo insolito ambito risulta interessante soprattutto se consideriamo le condizioni in cui versano gli apparati di produzione dell’industria culturale nella fase di profonda destrutturazione che sta attraversando. Qui l’esaltazione retorica dei new media non basta a coprire l’effettivo ristagno delle tecnologie – vecchie e nuove – a fronte dell’esigenza di garantire contenuti innovativi a una sfera dei consumi che si è fatta sempre più egemone sull’intera filiera dei processi espressivi. Quindi a fronte dell’urgente bisogno di trasformare in sé e per sé le «macchine del sapere» (se fosse corretto definire ancora così una mente-corpo che ormai fluttua assai al di là della forma-macchina tipica della modernità e del genere di emozioni macchiniche che l’umano ne ha ricavato).



«Fino al momento in cui la scrittura è la localizzazione nello spazio e l’arresto del linguaggio orale essa, comunque, implica quella ulteriore padronanza dello spazio reso possibile dal messaggio scritto e dalla rete viaria che gli si accompagna. Perciò, con la scrittura vengono non solo l’analisi logica e la specializzazione, ma anche il militarismo e la burocrazia».

(Marshall McLuhan, Cultura senza alfabetizzazione, 1953)


Lo scrittore è un falegname?

Un episodio. All’incontro di Venezia mi è accaduto di ascoltare il paragone che l’autore di racconti e romanzi Alessandro Baricco ha intessuto tra la professione di scrittore e quella di falegname. Intendeva dire che il romanzo in quanto romanzo occidentale dell’Ottocento e del primo Novecento è stato un formidabile ordigno narrativo, ma proprio in quanto tale risulta irripetibile se non al prezzo di cattivo gusto e provincialismo. Dunque, il narratore contemporaneo narra come meglio può, ma non produce romanzo, nel senso che tale parola ha assunto nel suo archetipo, quando la borghesia ha cominciato a raccontarsi. Quindi il romanziere di oggi produce qualcosa d’altro. Una buona base di partenza per ragionare; per esempio – anche a voler restare dentro lo spazio letterario – per orientarsi sulla questione dei canoni letterari. Certamente una posizione passibile di qualche critica. Ma comunque molto intelligente (e astuta). Al contrario, la risposta a lui data dai teorici e critici della letteratura mi è parsa fargli torto. A chi diceva loro di essere un falegname – rivendicando solo un saper fare narrativo e un ruolo sul mercato della lettura – costoro hanno risposto facendo nuovamente confusione tra forme narrative e romanzo in quanto dispositivo della tradizione moderna (che è non solo «spirito» ma una specifica tecnologia della modernità). Non sono stati capaci di autodefinirsi. Sono essi i venditori dei mobili creati dal falegname? Ne sono gli antiquari? Oppure sono fornitori del legno e degli attrezzi per segare, piallare e incollare? Fanno il mestiere di arredatori oppure, in quanto esperti di interni domestici, quindi case, pensano di governare il condominio o la città che di tante dimore e quindi mobili è fatta? Curano gli interessi del falegname o degli acquirenti? Invece di chiedersi quale ruolo fosse quello dello scrittore del romanzo moderno storico – per esempio un Flaubert, tanto per sceglierne uno tra quelli più «domestici» nell’area del romanzo come massimo genere espressivo della società metropolitana e industriale – hanno sentito infamante la riduzione di una tradizione letteraria in falegnameria.

Vediamo allora di portare avanti il ragionamento sul romanzo come forma espressiva storica, determinata – socialmente e tecnologicamente – in quanto scrittura, stampa, libro, editoria di massa. Lo si deve individuare nella cornice della modernità e quindi anche del tempo presente che di questa cornice è tuttavia l’estremo margine e forse lo sfondamento in direzione anti-moderna. Infatti le narrazioni orali e scritte appartengono da sempre a diversi contesti della storia e geografia delle civiltà umane; ne sono state un potente strumento di rigenerazione. Ma il contesto moderno, assai più di altre fasi o altri luoghi del romanzo, ha messo in campo con maggiore e più evidente forza l’implicazione tecnologica di ogni processo espressivo. Si può allora considerare il romanzo moderno come formato – metropolitano, mercificato, tecnologico – di un consumo letterario intimamente connesso alle tecniche della scrittura e della stampa, ma destinato a entrare ben presto in una dinamica di sviluppo sempre meno interna al limitato spazio del rapporto scrittura-lettura. Tutto ciò «è già accaduto». Si è sostenuto – seguendo McLuhan – che ogni mezzo di comunicazione, veicolo di contenuti in grado di produrre relazioni umane, ha una natura intimamente connessa al corpo di chi vi si intrattiene, al suo linguaggio, al territorio semantico che il medium è in grado di percorrere e coprire, soddisfare. Il processo di innovazione moderno ha rappresentato non solo la progressiva evoluzione di uno stesso mezzo (per esempio dalla fotografia analogica a quella digitale; dalla telefonia fissa a quella mobile), ma anche la traduzione dei suoi contenuti formali e sostanziali in altri mezzi espressivi: dalla fotografia al cinema, dal cinema e dalla radio all’audiovisivo, dal cinemascope al cinerama e all’Imax, dal video al personal computer. Si è pensato e scritto molto sul modo in cui sono avvenuti e avvengono questi slittamenti da un materiale semantico all’altro (e sugli strumenti tecnici che si sono prestati a questi slittamenti). Assai meno si riflette sul loro perché. E su cosa ne consegua sul piano dei processi sociali e dei loro conflitti. Cioè: non si penetra nello spazio identitario definito da una tecnologia e ridefinito da un’altra o dalla successiva. Non si valuta il mutamento identitario realizzatosi nei passaggi dal romanzo come libro (avvento e crisi della borghesia) alla fiction come cinema (società dello spettacolo) e infine alle narrazioni collettive come televisione (società dei consumi).

György Lukacs – prima di teorizzare la «coscienza di classe» che a suo vedere avrebbe rimesso in moto la crisi del pensiero borghese e le dinamiche hegeliane del conflitto dialettico tra affermazione e negazione del mondo – affrontò il rapporto tra anima e forme, ponendolo al cuore del suo discorso sulla modernità (quella tardo-ottocentesca delle macchine pesanti e della metropoli). Il rapporto tra anima e forma è il contenuto identitario che presiede alla negoziazione dei mezzi espressivi, al senso da dare alle innovazioni tecnologiche. Lukacs vide per esempio nella «tecnica», nell’arte del cinema, un rapporto tra anima e forme diverso da quello messo in scena dalla tragedia e vicino invece a quello comunicato dai racconti fantastici. Fu indotto a concludere la propria analisi con una fondamentale riflessione teorica sul romanzo. Proprio sul romanzo, perché la sua area semantica ancora costituiva il territorio di un pensiero e di una esperienza che avevano il governo del mondo, lo «formavano». Attraverso l’anima messa in forma e rivelata dal romanzo-libro, era possibile parlare del mondo moderno, delle sue radici e del suo destino. E a quanti vi si accostavano, magari con doti di lettura e vocazione critica al di sotto di quelle raggiunte da un Lukacs o da un Walter Benjamin, esso parlava comunque di cose inerenti all’universo della modernità in atto e in evoluzione, al centro e al vertice dei valori impliciti e espliciti nella società industriale e nella sua edificazione. Lo scrittore faceva politica o critica politica perché l’area semantica del romanzo, in quanto appunto scrittura e libro, era ancora in grado di trattenere il senso complessivo dell’abitare dentro i confini di un lavoro intellettuale egemone sulle altre forme di lavoro e intrattenimento tanto della società premoderna quanto della crescente società di massa. Il corpo alfabetizzato dell’homo sapiens trionfava ancora su ogni altra corporeità. Tra il pubblico dei lettori e quello degli scrittori poteva esistere una compatibilità comunicativa in grado di esprimere il destino e i conflitti di un unico soggetto storico, l’individuo moderno, e dei suoi processi di socializzazione. Quando questa assoluta egemonia della scrittura è venuta meno a causa dell’espansione di altre aree semantiche più inclusive e più aperte a nuove soggettività – il cinema e poi la radio e la televisione – allora parlare del romanzo scritto-letto sulla pagina stampata è diventato altra cosa. Si stava preparando la riproposizione industriale e massiva del homo ludens prodotto dai consumi. Le narrazioni collettive hanno quindi riguardato altri apparati espressivi e lo spazio del romanzo veicolato dal libro (il mondo del romanzo-letteratura) ha cessato di essere la rappresentazione di tutto il mondo. Insistere nell’analizzarne le forme ha significato perdere l’anima del discorso critico, cioè perdere di vista il pieno senso dello sviluppo moderno (e tanto più della post-modernità), restare imprigionati in un abitare residuale, divenuto esclusivo, bloccato nella propria tradizione, autoreferenziale, corporativo invece che politico.

Oggi, chi rifletta su qualsiasi medium narrativo non può più farlo credendo di potersi limitare a quello della scrittura e dei linguaggi audiovisivi che essa ha tenuto e tiene sotto il suo controllo. Egli ha di fronte il compito di «decidere» se debba continuare a essere uno specialista di settore, fare il falegname della critica, oppure tentare di riprendere il modello di speculazione a suo tempo messo in opera da Lukacs. Tradurlo al presente. Il fatto che al vertice del nostro momento storico non vi sia più la scrittura bensì vi siano l’audiovisivo e «insieme» le reti digitali impone una doppia riflessione, un doppio sforzo prospettico: capire l’orizzonte in cui riproporre il rapporto tra anima e forme (il rapporto tra tecnologie e contenuti non garantisce altrettanta chiarezza) e definire il ruolo che il comparto della scrittura (e del romanzo come sua compiuta forma politica) ancora potrebbe svolgere nel quadro spettacolare, multimediale e interattivo delle società post-industriali. Alla luce della prima riflessione – che riguarda l’urgenza di elaborare contenuti adeguati all’innovazione delle forme di vita dell’abitare – ci preme concludere sulla seconda riflessione e farlo in chiave italiana (peraltro usabile anche fuori dei suoi confini). Qui incontriamo due pesanti intoppi.

Il romanzo e la massa di acculturati al di fuori della lettura

Primo nodo problematico: il cattivo «stato di salute» dei ceti nazionali responsabili delle sorti del paese in un passaggio così delicato (dal fordismo al post-fordismo; dalle identità collettive alle identità singolari; dai sistemi nazionali ai sistemi locali e globali, glocal). L’intoppo sta nella estrema gracilità intellettuale di questi ceti. Essi dirigono imprese, partiti, sindacati; occupano vertici dello stato e delle amministrazioni pubbliche; gestiscono apparati, istituzioni e servizi; curano scuole e università; trattano prodotti, mercati, consumi; governano media; reggono chiese, agenzie pubblicitarie, associazioni, movimenti. Al tempo stesso, con i loro profili esistenziali, gusti e mode, alimentano le storie raccontate dal nostro cinema e dalla nostra televisione; partecipano da protagonisti o da caratteristi alle grandi e piccole narrazioni dell’informazione e della scena pubblica; funzionano da opinion leaders, interpretano figure e luoghi del bene e del male, di ciò che è bello e brutto, giusto e ingiusto. Gran parte di costoro non legge romanzi, una parte molto limitata ne legge al massimo uno o due all’anno. Ma ne consumano di più indirettamente e casualmente per il solo fatto di vivere la sfera mediale dei quotidiani, del cinema, della televisione e in particolare del conseguente passaparola da persona a persona. Questa è dunque una massa d’élite che pur essendo alfabetizzata, non trova il senso della propria vita nella pagina di un romanzo, ma lo trova o quantomeno lo cerca là dove si incontrano anche le moltitudini dei mass media e dei consumi diffusi. Tutti costoro esprimono una forte carenza di idee innovative. Mostrano scarse doti di intervento in un tempo in cui è richiesto invece il massimo estro creativo nell’orientarsi in contesti altamente complessi (un intreccio di identità sempre più contraddittorio) e nel fronteggiare l’infinita scomposizione delle narrazioni in drammaturgie del potere sempre più diversificate. Rispetto alla dimensione semantica di questa nostra classe dirigente «diffusa» – trasformatasi da produttrice in consumatrice, da autori in spettatori, senza tuttavia trasformare le sue teorie e strategie – il linguaggio degli scrittori di libri non conta molto. Quasi nulla. E tuttavia lo statuto culturale del narratore di professione – che sa bene di essere letto neppure da una millesima parte di tale classe dirigente – risulta distaccarsi assai poco da questa vasta area di pubblici socialmente e mediaticamente acculturati al di fuori della lettura. Anzi sembra averli assorbiti, esserne un semplice e piatto «ripetitore» proprio in ciò che concerne la sua assenza di innovazione.

Secondo nodo problematico: la specifica qualità di una fase di transizione dai mass media ai personal media che il sistema Italia sta vivendo al pari di altri contesti, ma anche con le sue tipiche punte di eccellenza (effervescenza dei consumi) e di degrado (tracollo delle strutture produttive e dei dispositivi di governo sociale). La caratteristica di questa fase consiste – è il punto su cui si è insistito dall’inizio – nel dilagare spontaneo e più ancora artificioso di reti (si veda il confuso e distorto dibattito sull’avvento del digitale terrestre) in prevalenza caratterizzate dal fatto di non avere altri contenuti da trasmettere che non siano quelli del passato tardotelevisivo, del suo riciclaggio. Innovazione senza contenuti, appunto. Senza quell’insieme di anima e forma che si fa linguaggio, corpo, territorio, dell’innovazione. Tecnologia senza immaginazione. Si tratta di una fase molto delicata, in cui i linguaggi generalisti – probabilmente e forse opportunamente destinati a conservare ancora un loro ruolo e comunque vincolati a interessi e gruppi di pressione politica e economica appartenenti alle culture tradizionali dei mass media industriali – entrano in concorrenza con lo stato nascente delle nuove tecnologie e creano forti interferenze ai danni dei linguaggi locali e personali della società post-industriale.

Questa congiuntura – di cui non possiamo ancora prevedere la durata – avrebbe bisogno di una profonda ridefinizione delle forme narrative sino a oggi adottate. Avrebbe bisogno di attrezzarsi con strumenti di transizione. La cultura scritta, sino a oggi egemone sulle altre, avrebbe qui una «consegna» da fare alle culture che la stanno disgregando. Avrebbe il compito di interpretarle. Alle forme tecnologiche e espressive della televisione generalista o di altri media attestati su funzioni analoghe dovrebbe cioè essere data l’apertura necessaria ad accogliere una nuova anima, una nuova soggettività. In questi anni, dentro e fuori l’università, all’interno e all’esterno della formazione impartita dalle imprese della fiction, si è manifestata una grande domanda di formazione alla scrittura. Difficile dare una interpretazione del fenomeno, considerati gli scarsi margini di reale offerta di lavoro in questo campo. Ma è credibile pensare che vi si sia espresso un istintivo desiderio di narrazione, il bisogno direttamente «sentito» da un lettore illetterato e al tempo stesso insoddisfatto spettatore dei consumi mediali a sua disposizione: una nicchia di pubblico, certamente, ma non irrilevante. E tuttavia si tratta di una domanda di narrazioni da cui non sembrano uscire elementi di sostanziale novità. Tantomeno nel campo del romanzo. Ma da quale punto di vista? Quale la causa? Povertà del personale docente o del materiale umano che gli si affida? Più probabilmente un difetto di interpretazione dello snodo socioantropologico che stiamo vivendo. Un transito in cui può accadere che sacche arretrate o resistenti ai contenuti delle culture alfabetizzate premano contro i cancelli delle narrazioni – e del sapere – tradizionali proprio perché ancora sottoposti ai linguaggi troppo esclusivi dell’intero sistema di appartenenza. Inchiodati al rigido confine tra ciò che il mondo istituzionale ritiene nell’ordine prestabilito delle abilità moderne e ciò che lo stesso mondo mette invece ai suoi margini in quanto «disabile» ad apparire e dunque a esserci. è qui che a mio avviso non funziona più neppure l’esperta ditta di falegnameria di autori come Baricco, intenta com’è a insegnare agli analfabeti di romanzo una tradizione che non appartiene loro, una abilità che non riguarda la loro disabilità, una tecnologia che da tempo si è disinnestata dai loro corpi.

Analizzare in modo più corretto lo snodo che allinea in sé il tempo in cui il romanzo era il mondo intero dello spirito del capitalismo e il tempo in cui la scrittura ha alimentato le grandi narrazioni audiovisive delle democrazie di massa e il romanzo si è ridotto a esserne un frammento: è da questo snodo che bisogna partire per toccare la questione ora in primo piano riguardo a quali strategie di innovazione perseguire nel nostro ambiente mediale così da riuscire a reggere la sua trasformazione. Al contrario, la ricerca di prodotti di fiction capaci di essere competitivi sui mercati nazionali e internazionali è ancora affidata solo alla logica quantitativa dei mass media. Mentre per rispondere alla logica qualitativa dei new media potrebbe tornare assai più utile lavorare su ciò che del romanzo storico si è infranto e sulle fratture che ha lasciato aperte, le soggettività che non ha incluso. Le attese che ha deluso e dissipato. I modelli di dominio che ha lasciato intatti e tuttavia ha dichiarato di volere distruggere. Nel rapporto iper-moderno tra anima e forme si sono inseriti elementi incompatibili con gli archetipi del romanzo così come con la loro estrema divulgazione audiovisiva. Si sono fatti strada linguaggi privi di grammatica e di sintassi, quando non afasici. è a questo non-vuoto che dovremmo saper guardare nel nostro transito verso i linguaggi digitali delle reti. E in questo spazio c’è forse il luogo giusto anche per il romanzo o quanto meno la sua analisi nel quadro di una tecnologia di transizione.

Alberto Abruzzese è professore ordinario di sociologia delle comunicazioni di massa presso la Facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università «La Sapienza» di Roma.

Related Posts
Total
0
Share