Guido Tonelli - CERN

Lo studio delle particelle per scoprire i segreti dell’universo

Con Guido Tonelli, fisico e a capo del team che ha scoperto il bosone di Higgs al Cern di Ginevra, alla scoperta dei segreti della materia per capire come tutto è nato.

Fin dai tempi più remoti l’essere umano, osservando la natura e il cielo stellato, si è sempre posto domande. Domande fondamentali a cui ha cercato di dare risposta attraverso miti, leggende, religioni, filosofie. Questa innata voglia di spiegarsi le origini dell’uomo, del pianeta in cui viviamo e dell’universo, non è mai scomparsa e la scienza, oggi, continua a indagare la natura in cerca delle medesime risposte.

Le origini dell’universo, la materia, vengono oggi indagate attraverso due approcci scientifici, solo apparentemente agli antipodi. Da una parte, gli scienziati studiano la realtà nella sua forma più imponente. Attraverso enormi telescopi mandati nello spazio (come il recente James Webb Space Telescope), osservano gli oggetti più grandi che la natura abbia mai realizzato: pianeti, stelle, galassie e ammassi di galassie, enormi buchi neri, facendo un vero e proprio viaggio nel passato e osservando le origini dell’universo attraverso le radiazioni elettromagnetiche (come la luce) che raccontano l’evoluzione del cosmo attraverso il loro viaggio di miliardi di anni prima di arrivare a noi.

Dall’altra parte, un altro gruppo di “esploratori” si dedica all’infinitamente piccolo, particelle elementari che costituiscono la materia e che possono essere studiate solo attraverso sofisticatissimi apparati in grado di “fotografarli” e analizzarli in porzioni infinitesime di secondo. Guido Tonelli, professore emerito dell’università di Pisa, ricercatore dell’INFN e scienziato al CERN di Ginevra, il più grande acceleratore di particelle al mondo, è uno di questi esploratori.

Guido Tonelli, fisico, professore emerito dell’università di Pisa, ricercatore dell’INFN e scienziato al CERN di Ginevra. Nel 2012 a capo del team di scienziati che ha scoperto il bosone di Higgs durante l’esperimento CMS.
Fonte: CERN

“Quello che studiamo – ci spiega il professore Tonelli – è di dimensioni dell’ordine di 10-20 metri. Parliamo delle particelle elementari della materia, che possono essere anche 100 mila volte più piccole di un protone, una particella costituente il nucleo dell’atomo di idrogeno. Il motivo per cui studiamo la realtà a queste dimensioni è perché sappiamo che il comportamento della materia su questa scala è assolutamente diverso da quello a cui siamo abituati”.

Ci addentriamo quindi nel mondo della meccanica quantistica, in cui i ricercatori sperano di trovare particelle e interazioni del tutto nuove per scoprire le leggi che regolano il comportamento della materia.

Per farlo si utilizzano gli acceleratori di particelle, enormi e sofisticatissime installazioni, come l’LHC al CERN di Ginevra, il più grande e più potente che l’uomo abbia mai realizzato, in cui si sviluppa il progetto CMS (Compact Muon Solenoid) che vede impegnati oltre 5.000 scienziati provenienti da tutto il mondo (altrettanti lavorano nell’altro grande esperimento, che si svolge sempre al CERN, ATLAS).

LHC, collisioni alla velocità della luce

Il Large Hadron Collider (LHC), è un grande tubo a forma di anello, con una circonferenza di circa 27km, installato a circa 100 metri di profondità, in cui è stato creato il vuoto.

“Il vuoto è essenziale – racconta il professore – perché in quest’area non devono esserci residui di aria o gas che ridurrebbero la velocità delle particelle e non permetterebbero il raggiungimento delle energie che vogliamo. In questa enorme struttura vengono iniettati due fasci di protoni, estratti dall’idrogeno, che viaggiano in direzioni opposte. Questi protoni, che sono carichi elettricamente, possono essere accelerati mediante dei forti campi elettrici. Per farli viaggiare all’interno di questa struttura curva utilizziamo dei magneti che li deviano continuamente mantenendoli sulla traiettoria voluta. Facendo compiere più orbite a questi protoni accelerati riusciamo a raggiungere velocità indistinguibili da quella della luce (circa 300 mila km al secondo) acquisendo energia e, per l’effetto relativistico previsto da Einstein (la famosa equazione di equivalenza tra energia e massa E=mc2), la massa di questi protoni aumenta fino a 6.500 volte”.

Sezione 3D del dipolo LHC. Fonte: CERN

È il momento di realizzare l’esperimento. Raggiunte queste velocità, i due fasci di protoni vengono portati a collisione in punti specifici del condotto, simulando così le energie e le temperature che caratterizzavano gli albori del nostro universo.

“Queste collisioni avvengono a energie molto elevate. L’energia sprigionata si trasforma in massa e produce nuove particelle che vengono rilevate attraverso gusci concentrici di sensori. Si tratta di strutture imponenti, grandi quanto un palazzo di 4-5 piani, che pesano anche 20 mila tonnellate e che contengono milioni di sensori di elettronica molto veloce che ci consentono di visualizzare i prodotti di questa reazione. Tali nuove particelle decadono molto rapidamente in altre particelle conosciute e noi, attraverso questi sensori, siamo in grado di visualizzare questi prodotti della reazione e rilevarne le caratteristiche”.

Visualizzazione di un esperimento CMS nel Large Hadron Collider al CERN di Ginevra a luglio 2023. La collisione di due fasci di particelle che genera fiocchi di altre particelle. Fonte: CERN

Il più delle volte, come conferma il professore Tonelli, questi esperimenti producono particelle che già conosciamo. Ma a volte capita di scoprire particelle del tutto nuove, che aprono nuove affascinanti prospettive nello studio della realtà.

È successo nel 2012 quando gli scienziati dell’LHC, guidati proprio da Tonelli, durante uno di questi esperimenti hanno scoperto il bosone di Higgs, la cosiddetta “particella di Dio”.

La “particella di Dio”

Il bosone di Higgs, la cui esistenza è stata teorizzata fin dal 1964 dai fisici Peter Higgs (da cui prese il nome) e François Englert, è una particella elementare la cui scoperta ha avuto un impatto enorme in campo scientifico.

“Nel momento in cui abbiamo chiuso un argomento aperto da 50 anni, con la scoperta del bosone di Higgs, se ne sono aperti altri che, probabilmente, impiegheremo altri 50 anni per chiudere. Abbiamo capito il meccanismo del bosone di Higgs, che è responsabile della differenziazione delle masse delle particelle elementari, attraverso la loro interazione con il campo di Higgs (da qui il nome “particella di Dio”, ndr), evidenziando la differenziazione tra interazione debole e interazione elettromagnetica, che nel modello standard erano unificate. Il fotone, infatti, che non interagisce con il campo di Higgs, non ha massa; altre particelle, come i bosoni vettoriali intermedi che portano interazione debole, interagendo con il campo di Higgs diventano massicci. Quindi da un lato abbiamo dato una spiegazione a una questione aperta da decenni; dall’altro, lo studio del bosone di Higgs ha introdotto altre domande. Ad esempio, abbiamo visto che questa particella non è come tutte le altre. È strana. Per certi versi è molto semplice: non ha carica, ha spin zero ed è caratterizzata dalla sola massa”.

Già solo pensare che una delle particelle che gioca il ruolo più importante dell’universo (perché è responsabile della massa delle altre particelle senza la quale non esisterebbe la materia così come la conosciamo) abbia caratteristiche così semplici per gli scienziati è disarmante. Ma c’è di più.

“Il fatto che questa particella, inoltre, non abbia spin la espone a meccanismi, legati alla meccanica quantistica, che ancora non capiamo. Particelle come il bosone di Higgs dovrebbero risentire della presenza di quelle che chiamiamo “particelle virtuali” che la circondano e che dovrebbero far variare la sua massa verso valori molto elevati. Ma questo non accade. È come se ci fosse qualcosa che protegge il bosone di Higgs da questo meccanismo di deriva della massa e che noi ancora non conosciamo. Infine, c’è un altro aspetto. Il bosone di Higgs è una particella scalare. Ci sono altre particelle scalari teorizzate, ad esempio, per l’inflazione cosmica responsabile della prima trasformazione che ha prodotto l’universo materiale che conosciamo oggi e che ha trasformato una microscopica fluttuazione quantistica del vuoto in un universo materiale. Questa espansione improvvisa è dovuta a particelle scalari simili al bosone di Higgs che noi chiamiamo “inflatoni” e che non abbiamo ancora scoperto. Quindi il bosone di Higgs è come se fosse l’antesignano di una famiglia di particelle, alcune delle quali potrebbero spiegare il meccanismo dell’inflazione cosmica. Ma potrebbe anche trattarsi di altri tipi di particelle, simili a quelle che conosciamo ma con caratteristiche esotiche. Ecco, le domande che questa scoperta ha posto sono molte e implicano decenni di lavoro e non mi stupirei che nel dare risposte a queste domande si debba cambiare radicalmente la nostra concezione della materia”.

Evento registrato con il rivelatore CMS nel 2012 a un’energia di centro di massa protone-protone di 8 TeV. L’evento mostra le caratteristiche attese dal decadimento del bosone di Higgs SM in una coppia di fotoni (linee gialle tratteggiate e torri verdi). Fonte: CERN

Il vuoto (che è pieno) da cui tutto è nato

Il metodo scientifico, anche nell’era moderna, è lo stesso da 400 anni, da quando, cioè, fu strutturato da Galileo Galilei. “È una cosa già di per sé straordinaria – aggiunge Tonelli -, non esiste disciplina che segue la stessa metodologia dopo 4 secoli. Nel campo della scienza il metodo scientifico moderno è esattamente quello teorizzato da Galileo Galilei: si fanno teorie (Galilei le chiamava congetture), che non sono ipotesi astratte ma devono essere consistenti internamente, cioè non devono avere contraddizioni interne; devono spiegare tutti i fenomeni conosciuti e devono fare previsioni di ciò che non conosciamo, descrivendo fenomeni che possono essere verificati sperimentalmente”.

Un lavoro tutt’altro che semplice. Queste teorie, o modelli, sono messi alla prova a ogni nuova scoperta scientifica e può accadere che siano messi in crisi e superati quando una nuova scoperta ne evidenzia i limiti.

Una cosa del genere è successa e ha rivoluzionato il modello che spiegava la nascita dell’universo, il Big Bang.

“Da quando si è capito da dove viene l’universo si è anche capito cos’è l’universo. Quando si sono misurati i numeri quantici dell’universo, quando cioè fisici e astrofisici hanno studiato il sistema universo nel suo complesso, un po’ come se fosse un enorme atomo, la grande sorpresa di tutti è stata scoprire che questi numeri sono quelli del vuoto. Vuoto che, attenzione, non è il nulla e non è un concetto astratto, ma è uno stato materiale previsto dalla meccanica quantistica. È, cioè, uno stato in cui i campi, l’energia, il momento angolare, tutto fluttua intorno allo zero. Fluttua, seguendo il principio di indeterminazione di Heisenberg, a livello microscopico. Questo vuol dire che il vuoto è un brulicare di microscopiche bollicine (che noi chiamiamo “schiuma quantistica”) che si aprono e si chiudono continuamente. Quello cui siamo giunti al momento è che pensiamo che sia una di queste microscopiche bollicine all’origine del nostro universo materiale che diventa, quindi, una trasformazione del vuoto. Il nostro universo, cioè, è ancora uno stato di vuoto che si è trasformato 13,8 miliardi di anni fa dal vuoto primordiale. Aver messo al centro questa questione del vuoto e le sue caratteristiche ha aperto un nuovo filone di ricerca. Capire le proprietà del vuoto quantistico, capirne il comportamento sul piano microscopico non solo vuol dire fare un passo avanti nella conoscenza della struttura sottile del nostro universo ma forse vorrà dire anche sviluppare nuove tecnologie. Già in alcuni campi si fa: noi nell’acceleratore di particelle al CERN utilizziamo la collisione dei protoni per generare quell’energia che percuote il vuoto e restituisce particelle di materia e antimateria (non violando così la legge di conservazione dell’energia). E mi meraviglierei se, dallo studio delle proprietà del vuoto quantistico, non venissero fuori tecnologie che possono realmente entrare nelle nostre case e nella nostra vita quotidiana. È come se avessimo aperto un nuovo sipario su una grandezza fisica che è sempre stata lì, sotto i nostri occhi, ma alla quale finora non avevamo data attenzione mentre adesso prende il centro della scena. Consideriamo il vuoto quantistico come un giacimento infinito di materia e antimateria. Se si ha energia a sufficienza si può estrarre dal vuoto una quantità infinita di materia e antimateria. E questo meccanismo funziona anche spontaneamente”.

Come potrebbe finire

Una delle novità, del tutto inaspettate, nate dalla scoperta e dallo studio del bosone di Higgs riguarda la possibile fine dell’universo.

“Sappiamo da circa una trentina d’anni – spiega Guido Tonelli – che l’universo si espande a una velocità crescente. Questa accelerazione la osserviamo senza capirla e la attribuiamo al ruolo dell’energia oscura le cui origini e dinamiche sono del tutto sconosciute. Con il bosone di Higgs abbiamo scoperto la sottile trama che permette alle particelle elementari di differenziare la loro massa, consentendo l’aggregazione di forme materiali. Senza questo meccanismo l’intero universo non avrebbe questa forma. Questo meccanismo lo chiamiamo “vuoto elettrodebole”, cioè quel vuoto quantistico in cui è presente il bosone di Higgs e in cui il campo scalare del bosone agisce. Questo stato di vuoto è uno stato di equilibrio, almeno da 13,8 miliardi di anni. La domanda che ci siamo posti è se questo equilibrio è destinato a durare. Con grande stupore ci siamo resi conti che tutto questo non è ovvio. Si è visto che questo equilibrio non è perfettamente stabile ma è, come si dice in termini tecnici, “metastabile” e potrebbe essere rotto da una scala di energia enorme. Noi sappiamo che nell’universo ci sono fenomeni che sfuggono alla nostra conoscenza e non possiamo escludere che si possano verificare fenomeni, che ad esempio coinvolgono enormi buchi neri e mettono in gioco energie mostruose e che in determinate condizioni questa enorme quantità di energia possa distruggere il vuoto elettrodebole e trasformarlo in vuoto. Se accadesse, l’intero universo si disgregherebbe. Tutte le particelle materiali, private del campo scalare di Higgs, diverrebbero particelle prive di massa, come i fotoni. La differenza si svilupperebbe in calore e l’intero universo materiale, pur continuando a esistere, sarebbe attraversato da un immenso calore e scomparirebbero di colpo tutte le stelle, le galassie, i pianeti, gli esseri umani e tutta la materia così come la conosciamo”.

Fortunatamente, lasciatemelo dire, parliamo di scale di energia inaccessibili agli esseri umani. Il che, almeno da un certo punto di vista, mi rende più sereno.

Cambio di prospettiva

Le recenti scoperte scientifiche che riguardano la natura della nostra realtà hanno portato a un netto cambiamento di paradigma. Innanzitutto, a livello di divulgazione. Oggi le scoperte, le tecnologie e le nuove teorie su cui studiano scienziati di tutto il mondo vengono diffuse in maniera molto capillare anche ai non addetti ai lavori, rendendo la conoscenza degli avanzamenti scientifici e tecnologici accessibili a tutti. L’attività che da tanti anni caratterizza la nostra rivista ne è un esempio concreto.

Dall’altro lato, la conoscenza sempre più profonda delle dinamiche della natura ha portato alla luce caratteristiche che sempre più sono anti-intuitive rispetto alla nostra esperienza quotidiana. Basti pensare al tempo. Quello che noi sperimentiamo tutti i giorni è ben lontano da quello che ormai la scienza, a partire dalla relatività di Einstein, ci spiega essere.

Nella divulgazione scientifica spesso si tende a semplificare concetti, proporre modelli più facilmente immaginabili dai non addetti ai lavori, per permettere il trasferimento di conoscenza. Ma quanto ciò che viene spiegato è coerente con quello che gli scienziati realmente conoscono della realtà?

“Dobbiamo sempre tener presente che la scienza è la nostra rappresentazione della realtà – spiega Tonelli -. Per quanto pertinente, consistente e dettagliata, rimane pur sempre una nostra rappresentazione. Consideriamo ad esempio lo spazio-tempo. Noi sappiamo oggi che lo spazio-tempo è una sostanza materiale molto rigida. Talmente rigida che per qualche millennio abbiamo pensato fosse un concetto. Perché noi, vivendo in un pianeta con un campo gravitazionale costante, non abbiamo mai sperimentato uno spazio-tempo piegato o il tempo scorrere a velocità diverse in base alla nostra posizione. Se, parlando per paradossi, ci trovassimo vicino all’orizzonte degli eventi di un grande buco nero, per noi sarebbe naturale considerare lo spazio-tempo una grandezza materiale plastica, elastica, che cambia a seconda del punto in cui ci troviamo. Oppure se, sempre per assurdo, ci fosse stata la collisione tra due buchi neri nel nostro sistema solare e avessimo visto lo spazio-tempo vibrare, come un terremoto, avremmo sperimentato certi fenomeni, come il tavolo o la stanza in cui ci troviamo piegarsi e oscillare. Le stesse onde gravitazionali, se fossero esperienza comune, ci convincerebbero. Così come vediamo le onde in un laghetto di acqua, che è sostanza materiale, se vedessimo le onde gravitazionali nello spazio-tempo sarebbe normale parlare di spazio-tempo come sostanza materiale. Ovviamente viviamo una limitazione dettata dalla nostra esperienza. Quindi possiamo dire che sì, c’è della semplificazione ma, almeno nel mio caso, cerco sempre di non semplificare eccessivamente per non portare fuori strada”.

L’impatto delle scoperte sulla società

Raggiungere livelli sempre più dettagliati e conoscenze sempre più approfondite che ci spieghino la natura della nostra realtà è sempre affascinante. Quali sono le nuove frontiere verso cui si stanno spingendo gli scienziati?

“C’è una lista enorme di cose che stiamo studiando e che ancora non capiamo e non conosciamo, e non sono dettagli -racconta Tonelli -. Ad esempio, sappiamo che il nostro universo è composto da tre componenti principali. Una è la materia ordinaria, con le sue interazioni che ben conosciamo. Ma tutto questo rappresenta appena il 5% della massa totale dell’universo. Il restante 95% è fatto di qualcosa che ancora non conosciamo e che composto dall’energia oscura (che rappresenta circa il 65% della massa totale dell’universo) e dalla materia oscura (che rappresenta circa un quarto della massa totale dell’universo). Sulla materia oscura, soprattutto, potremmo avere la fortuna di trovare particelle che possano dare risposte alle nostre domande attraverso LHC o al futuro FCC (Future Circular Collider). Si tratta di un nuovo progetto di acceleratore in cantiere, con una circonferenza di circa 100km capace di lavorare su una scala di energie di gran lunga superiori all’attuale acceleratore di particelle (dai 14 TeV di LHC a circa 100 TeV). Una sfida tecnologica imponente anche perché avremo bisogno di realizzare magneti sempre più potenti, in grado di deviare protoni a energia sette volte superiore rispetto a quanto accade in LHC”.

A che livello queste scoperte hanno impatto sulla società? Quanto di quello che viene sperimentato e scoperto in un acceleratore di particelle, ad esempio, potrebbe essere utile nella vita di tutti i giorni?

Molte delle scoperte scientifiche e tecnologiche, nei secoli, hanno avuto applicazione in innumerevoli campi della vita. Le applicazioni e le tecnologie derivanti dalla teoria della relatività di Einstein, ad esempio, sono molteplici in diversi settori. Le tecnologie utilizzate al CERN di Ginevra e le conoscenze acquisite hanno già avuto fruttuose collaborazioni in campo tecnologico e della ricerca.

Ma quali sono le prospettive delle più recenti scoperte e delle ricerche che attualmente rappresentano il prossimo step nello sviluppo della conoscenza?

“Ogni volta che cambiamo la nostra visione e conoscenza della materia, del mondo e dell’universo, immediatamente non accade nulla. La vita delle persone non viene stravolta da queste scoperte. Bisogna avere pazienza. Quando però capisci qualcosa di profondo, come la struttura più intima della materia, prima o poi, su una scala di qualche decina d’anni, qualcosa accadrà, un po’ com’è accaduto con i laser, che oggi hanno svariati impieghi in molti settori. Ma la vera rivoluzione si avrà quando saremo in grado di comprendere i principi più profondi che governano la natura. È una cosa molto comune nel rapporto che oggi abbiamo ad esempio con la meccanica quantistica, disciplina nata un secolo fa. Oggi, dopo un secolo, abbiamo dimostrato che la meccanica quantistica funziona in tutti i campi e a un livello che ci ha permesso di sviluppare enormi passi dal punto di vista tecnologico. Ma è come se ci fossimo resi conto che i principi fondamentali che fanno funzionare la meccanica quantistica siano del tutto arbitrari. L’entanglement quantistico o il principio di esclusione di Pauli o, ancora, il principio di indeterminazione di Heisenberg, sono tutti meccanismi che sappiamo funzionano perfettamente, che utilizziamo quotidianamente ma la cui motivazione è a noi del tutto ignota. È come vedere le punte degli iceberg ma sotto non sappiamo cosa ci possa essere. La ricerca scientifica, nel senso più ampio, prima o poi bucherà il livello di ignoranza che ancora ci impedisce di capire e troverà dei nuovi principi, delle nuove leggi di conservazione che spiegano i vincoli che oggi abbiamo, facendo emergere una teoria fondamentale. Quando e se si arriverà a quel punto le sorprese, anche sul piano tecnologico, sarebbero garantite, perché si aprirebbero innumerevoli possibilità nella manipolazione degli elementi fondamentali della materia. Basti pensare alla miniaturizzazione e a tutto quello che comporterebbe su scala nanoscopica e ultrananoscopica”.

La responsabilità degli scienziati: Oppenheimer

Da fisico appassionato del proprio lavoro, Guido Tonelli non ha mancato di vedere il film che, in questi giorni, racconta nei cinema la storia del fisico Robert Oppenheimer, passato alla storia come il padre della bomba atomica. Una pellicola che per lo scienziato del CERN ha rappresentato anche uno spunto per una riflessione molto più profonda sul ruolo di chi indaga la fisica della materia.

“Adoro Christopher Nolan e il film mi è piaciuto, anche se è un po’ troppo lungo. Interessantissimo il modo in cui viene affrontata la questione relativa alla responsabilità degli scienziati, che appartiene anche a me da molto tempo. Nolan la tratta molto bene, anche se non indaga tutte le zone d’ombra. Ad esempio, la figura di Enrico Fermi è stata tenuta troppo in disparte. Parliamo della figura più importante, senza la quale il progetto non si sarebbe realizzato, tanto che ad Oppenheimer fu dato il premio intitolato proprio a Fermi. Parliamo di scienziati, come Fermi, che hanno partecipato a progetti con un enorme impatto e non se ne sono mai pentiti pubblicamente. Mentre altri, come ad esempio Franco Rasetti, hanno partecipato al progetto ma hanno deciso non solo di abbandonarlo ma addirittura di cambiare mestiere e abbandonare la fisica. Sarebbe stato interessante far vedere tutte le sfaccettature: da un lato il pentimento, il rimorso e la presa di coscienza di Oppenheimer, descritti molto bene nella pellicola da Nolan, e di altri grandi scienziati che non hanno voluto neanche partecipare al progetto, come Rasetti (che, appunto, è stato dimenticato); dall’altro, altri grandissimi scienziati, come Fermi, che nonostante la bomba non ha detto una parola di pentimento. Io di Fermi ho una stima immensa, ma da uomo forse avrebbe potuto, sulla scia di altri scienziati, esprimere pubblicamente il conflitto che aveva dentro. Conflitto che è un fatto umano e appartiene a tutti gli scienziati. Anche io, che non ho mai preso parte al progetto, da fisico e scienziato mi sento responsabile di quello che è successo”.

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