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Dalla Londra del 1800 alle metropoli odierne, ecco come non fare la fine della falena bianca.

di Luca Longo

“Il criminale londinese è certamente un tipo pigro. Guarda fuori da questa finestra, Watson. Osserva come la gente emerge, si intravede debolmente e poi sparisce nella coltre di nebbia. Il ladro o l’assassino potrebbe vagare per Londra in pieno giorno come una tigre nella giungla, completamente invisibile per poi manifestarsi solo alla sua vittima.”

Come molti dei racconti di Arthur Conan Doyle, anche “L’avventura dei piani Bruce-Partington” prende l’avvio in una Londra resa spettrale da una densa cappa di smog. Se alla fine del 1800, Sherlock Holmes era costretto a stanare i criminali cercandoli in mezzo a una coltre di nebbia perenne, anche cento anni prima il cielo sopra la capitale britannica era tutt’altro che … limpido.

Infratti, il primo a costruire una solida base di osservazioni sperimentali su questo smog fu il pioniere della climatologia Luke Howard. Nel suo saggio “Il clima di Londra”, pubblicato nel 1818, elencava anni di minuziose osservazioni metereologiche quotidiane concludendo che la City era in media più calda di 2,1 °C rispetto alla campagna circostante.

Howard aveva anche capito che era tutta colpa delle attività umane: lo smog sviluppato dal fumo delle ciminiere e la presenza degli edifici stessi.

Nessuno aveva ancora inventato né l’asfalto stradale né i condizionatori. A causa di questi – oltre che per l’aumento della popolazione – ora la temperatura di Londra arriva ad essere fino a 6°C più calda di quella delle sempre più lontane campagne circostanti ed è diventata il punto più rovente dell’intera Gran Bretagna. L’Ufficio meteorologico britannico prevede addirittura che entro il 2100 la temperatura della City sarà in media 10°C più alta di quella resto del Paese.

Questo fenomeno è già oggi talmente intenso e diffuso, che i meteorologi devono includere nelle loro simulazioni atmosferiche anche la presenza dei grandi agglomerati urbani. Questi, infatti, sono in grado di influenzare la circolazione dell’aria e sviluppano delle correnti convettive di vento caldo: quasi dei vulcani che a livello del suolo aspirano aria fredda dalle campagne circostanti e la rilasciano verso l’alto dopo averla arroventata.

In una città alimentata prevalentemente dal carbone, come Londra fra la metà del 1700 e il 1900, il fumo delle ciminiere non riusciva a disperdersi ma veniva concentrato dalle correnti convettive sopra la città. Anche il calore sviluppato a livello del suolo non veniva dissipato. E a questo si aggiungeva il calore prodotto dall’assorbimento dei raggi solari che colpivano la coltre di nubi scure rimanendo intrappolati come radiazione infrarossa e facendo aumentare ancora di più la temperatura.

Uno dei primi esempi di come la rivoluzione industriale abbia alterato l’ecosistema, è stato scoperto proprio nei dintorni di Londra. All’inizio del 1700, la capitale era circondata da densi boschi di faggi e betulle i cui tronchi erano coperti da lichene bianco. Una piccola farfalla notturna, la falena delle betulle (Biston betularia), di giorno si nascondeva mimetizzandosi sui tronchi grazie al colore bianco delle sue ali. Ma il fumo prodotto dal carbone necessario per alimentare le fabbriche uccise i licheni e ricoprì anche i tronchi di fuliggine. 

Le povere falene bianche venivano, quindi, facilmente individuate e divorate dagli uccelli. Fortunatamente, la natura trova sempre un modo per adattarsi ai cambiamenti: le poche falene che – per una mutazione casuale del loro genoma – nacquero con le ali nere non finirono immediatamente mangiate ma, al contrario, si trovarono in vantaggio evolutivo rispetto alle bianche. Nei boschi attorno a Londra coperti di fuliggine, erano loro che riuscivano a mimetizzarsi perfettamente e a non diventare la cena di qualche passero.

Si formarono così due specie differenti: la falena bianca (Biston betularia typica) trovò la sua nicchia ecologica nei sempre più radi boschi europei lontano dai centri urbani, mentre la falena nera (Biston betularia carbonaria), divenne sempre più numerosa nei sempre più vasti boschi anneriti attorno alle grandi città.

Questa particolare modifica delle condizioni ambientali e di adattamento alla modifica stessa è stato chiamato melanismo industriale. E’ oggetto di uno studio pubblicato su Communication Biology, dove Olivia C. Walton e Martin Stevens dell’Università di Exeter dimostrano che i cambiamenti ambientali, in particolare quelli antropici, possono modificare radicalmente la storia evolutiva degli organismi con esiti difficilmente prevedibili.

Sta a ciascuno di noi valutare e modificare i propri comportamenti per evitare che il cambiamento climatico ci faccia fare … la fine della falena bianca.