L’intelligenza s’industria

Nel dibattito sulla competitività del sistema economico italiano l’unica indicazione su cui vi è consenso unanime è l’importanza della innovazione. Perché allora non si è riusciti fino a ora a far partire nel sistema italiano un nuovo ciclo di innovazioni?


Partendo da questa domanda gli autori hanno raccolto nel libro L’intelligenza s’industria. Creatività e innovazione per un nuovo modello di sviluppo (Il Mulino, 2005) una serie di riflessioni nate unendo due punti di osservazione distinti ma convergenti, quello di un accademico e quello di un consulente di direzione esperto di nuove tecnologie.

Il punto di partenza vuole suggerire una risposta provocatoria alla domanda iniziale: perché vi sono alcune diagnosi sbagliate e alcuni luoghi comuni che bloccano l’identificazione di un percorso originale e condiviso. Fra questi stereotipi – che stanno diventando vere e proprie coazioni a ripetere – ne abbiamo scelti quattro, secondo noi particolarmente significativi: l’innovazione si fa nell’industria, il made in Italy è destinato al declino, occorre aumentare la spesa pubblica in R&S, la competizione dei paesi asiatici avviene sul costo del lavoro.

La tesi da noi sostenuta propone un nuovo percorso per il rilancio dell’economia fondato sulla innovazione nel terziario, sulla combinazione tra settori tradizionali e tecnologie dell’esperienza, sulla ripresa degli investimenti privati in ricerca e sull’investimento nella educazione e nei giovani.

In questo articolo vogliamo richiamare – in maniera sintetica, quasi apodittica – alcuni riflessioni presenti nel libro, per proseguire il dibattito sull’innovazione aperto da tempo su questa rivista.

La crescita pressoché ininterrotta dell’economia mondiale nel secondo dopoguerra si è basata sul nesso virtuoso tra crescita della produttività e allargamento della domanda di massa, indotta dalla crescente soddisfazione dei bisogni e dalla progressiva apertura degli scambi internazionali. Con la lunga pausa degli anni Settanta, dovuta alle crisi petrolifere, questa dinamica si è protratta fino ad anni recenti.

All’interno di questo processo, l’Italia si è ritagliata un ruolo del tutto peculiare, in controtendenza rispetto ai grandi paesi industriali (non solo Stati Uniti e Giappone, ma anche Germania, Francia e Inghilterra). Come è noto, i caratteri anomali del modello di sviluppo italiano si articolano a livello settoriale, dimensionale e territoriale. Più precisamente, l’Italia differisce nettamente rispetto ai grandi paesi industriali nei seguenti elementi:

(a) il modello di specializzazione industriale: mentre gli altri grandi paesi OCSE hanno una specializzazione relativa nei settori basati sulle economie di scala (auto, chimica, elettronica di consumo), o basati sulla ricerca e sviluppo (elettronica, IT, farmaceutico e biotech, telecomunicazioni, aeronautica), l’Italia risulta caratterizzata dalla netta prevalenza di settori tradizionali (tessile-abbigliamento-calzature, cuoio e pelli, legno e arredamento, oreficeria, articoli per la casa) e di specialized suppliers (meccanica strumentale);

(b) la struttura dimensionale: a parità di settore industriale, l’industria manifatturiera italiana appare caratterizzata da una dimensione prevalente più bassa rispetto agli altri paesi avanzati, con una quota elevata di piccolissime imprese;

(c) l’articolazione territoriale: il paesaggio industriale italiano non si basa su grandi aree urbano-industriali o su aree metropolitane centrate sulle grandi città, ma sulla commistione tra piccola impresa e territorio urbano-rurale, attraverso la presenza di sistemi locali ad altissima densità di piccole imprese operanti negli stessi settori, o in settori collegati a monte e a valle.

Su tutti e tre questi elementi l’Italia costituisce un caso unico a livello internazionale. Circa la metà della produzione, dell’occupazione e dell’export italiano provengono dai distretti industriali. L’aspetto più interessante è che questa differenza non si è affatto ridotta nel tempo, rendendo l’Italia progressivamente più simile agli altri paesi, ma piuttosto si è approfondita. Rispetto agli anni Settanta, l’Italia è, in termini relativi, ancora più «diversa». Certamente una parte di questa diversità, come molti analisti hanno notato, va ricondotta alla debolezza della grande impresa e della struttura del mercato dei capitali. Ma, se vogliamo capire le peculiarità dell’esperienza industriale nazionale, non possiamo fare a meno di concentrarci sui sistemi di piccola e media impresa.

Come è stato possibile sostenere questo immane processo di sviluppo? L’interpretazione dominante negli anni Settanta e Ottanta era che il modello industriale non avrebbe potuto funzionare per un paese avanzato, perché eccessivamente specializzato in settori a bassa e media tecnologia e alta intensità di lavoro, destinati a soccombere di fronte alla avanzata dei paesi a basso costo del lavoro. Poiché nei paesi avanzati non sono sostenibili bassi salari, il modello sarebbe prima o poi saltato.

Questa profezia non si è avverata, e il calabrone ha continuato a volare a dispetto dei numerosi presagi di sventura. La ragione fondamentale è che i sistemi di piccola impresa italiani hanno manifestato una straordinaria capacità di innovazione, ricreando continuamente quei vantaggi competitivi che perdevano sul terreno della pura competizione di prezzo. Le produzioni italiane si sono progressivamente posizionate su fasce di mercato meno sensibili al prezzo. Questa capacità di innovazione si è basata su meccanismi di divisione del lavoro e di cooperazione del tutto particolari, molto studiati anche all’estero, e non su una attività di ricerca e sviluppo formalizzata. In una espressione, l’industria italiana ha seguito un modello di «innovazione senza ricerca».

Le previsioni degli analisti erano sbagliate perché sottovalutavano la grande capacità di innovazione possibile, pur senza ingenti investimenti in ricerca e sviluppo, a sistemi territoriali di piccole imprese esposte alla concorrenza internazionale e capaci di estesi processi di divisione del lavoro verticale. L’Italia è il paese leader mondiale nella innovazione di prodotto non basata su ricerca e sviluppo. Nessun paese avanzato è riuscito a generare volumi così imponenti di innovazione senza spendere in modo consistente in ricerca e sviluppo.

Se non si parte da questa premessa si rischia di non cogliere la portata della sfida. Per questo è importante che il dibattito sul declino non ripeta formule interpretative del passato (tipo «industria matura» o «bassa tecnologia»), ma si interroghi più in profondità sulla capacità di tenuta di un modello di innovazione del tutto peculiare.

Il dato ossessivamente ripetuto del basso livello di spesa in R&S sul PIL in Italia va letto alla rovescia: come è stato possibile innovare così tanto spendendo così poco?

Immaginare nuovi percorsi è possibile a una condizione: che si facciano i conti con questa situazione di partenza. I confronti internazionali sono utili, ma possono anche paralizzare la capacità strategica e di iniziativa, se si limitano a elencare le condizioni di svantaggio del paese. Quali percorsi sono dunque realisticamente praticabili, a partire dalle condizioni del paese qui e ora?

Vi sono secondo noi due direzioni di uscita diverse, che individuano altrettanti nuovi modelli di innovazione.

Il primo si basa sull’idea di combinare tra loro i fattori di forza dell’industria tradizionale con la nuova economia del terziario. Questo percorso richiede un po’ di ricerca e sviluppo, ma soprattutto enorme creatività e capacità organizzativa. Occorre saltare il vecchio dibattito sulle tecnologie mature, o sui settori a bassa tecnologia, e rigenerare le basi della competitività nell’industria esistente attraverso combinazioni nuove di prodotti e servizi. Si tratta di aprire un grande cantiere di sperimentazioni, facendo leva sulle capacità esistenti, ma esplorando nuove dimensioni di valorizzazione economica.

Il secondo percorso, invece, si fonda sull’idea di integrare a valle le grandi capacità scientifiche del paese per generare nuova industria nei prossimi dieci anni. Questo percorso richiede forti investimenti in ricerca, ma soprattutto innovazioni istituzionali nei mercati del lavoro, del capitale, delle professioni. Qui le sfide sono altissime, perché l’industria che utilizza ricerca si è strutturata, mentre l’Italia si dedicava ad altri problemi, in forma rigidamente oligopolistica. La capacità di trasformare in modo continuativo ricerca in prodotti richiede forme di coordinamento e di assunzione del rischio tipiche della grande impresa. Anche se le innovazioni sono in grande parte introdotte dalle piccole imprese, possono essere generate all’interno di articolati sistemi di divisione del lavoro innovativo nei quali un ruolo centrale è giocato dai governi e dalle grandi imprese transnazionali. Su entrambi i fronti, l’Italia è storicamente debole, per cui la partita è dura.

Entrambi questi percorsi sono, dunque, altamente incerti. Alcune condizioni di base sono presenti, altre no. Le assenze, i ritardi, le inefficienze ereditate dal passato pesano di più quando si deve correre. L’ottimismo della volontà non deve fare velo alla severità del giudizio. E, tuttavia, non è nemmeno possibile limitarsi a una ormai nota lista di cahiers de doleances, senza esercitarsi nello sforzo, intellettualmente rigoroso, di identificare i segnali di cambiamento sui quali far leva. Il compiacimento di descrivere un’Italia in declino non serve a nulla: non è dimostrazione di concreto realismo, è piuttosto l’ennesima dimostrazione della paura del cambiamento, una riproposizione contemporanea del «si stava meglio quando si stava peggio».

Perché questo esercizio critico e prospettico abbia luogo, tuttavia, occorre liberarsi da alcuni luoghi comuni, ripetuti comunemente nel dibattito pubblico e nella comunicazione mediatica. Questi agiscono come una straordinaria coazione a ripetere e bloccano il pensiero. Anche nel dibattito recente sul declino industriale, pochi sono stati gli interventi che si sono liberati dalla camicia di forza intellettuale indotta dalla ripetizione di alcuni luoghi comuni.

Coazione a ripetere n. 1 : l’innovazione si fa nell’industria

Il primo luogo comune è che l’innovazione si fa solo nell’industria, con le tecnologie e i brevetti. Vi sono più cose sotto il cielo che non industria e brevetti. Questi sono fondamentali, ma non sono tutta la storia. Esiste un potenziale di innovazione straordinario nel mondo dei servizi, che solo da poco è stata analizzata dagli economisti e dagli studiosi di management. L’innovazione nel terziario segue logiche meno conosciute e codificate, ma non per questo meno importanti di quelle manifatturiere. Il pensiero economico moderno è nato con l’industria e ne segue la logica, ma occorre accettare fino in fondo la sfida intellettuale della innovazione nei servizi. Lo stereotipo prevalente recita: «il settore terziario è ancillare all’industria» e, di conseguenza, «l’innovazione si fa nell’industria». Il terziario nel migliore dei casi è una sorta di complemento necessario, nel peggiore rappresenta la residualità economica di chi non ha la capacità di creare prodotti tangibili. Questo stereotipo è duro a morire ed è presente un po’ dappertutto: nel mondo imprenditoriale, in quello politico e nella ricerca. I dati parlano chiaro, ma vengono spesso disattesi.

Innanzitutto, il settore dei servizi è in continua e inarrestabile crescita. Il fenomeno è costante e visibile da oltre un secolo. I dati disponibili sono noti, ma ogni volta che li si guarda, la potenza del fenomeno è sempre più evidente.

Nel dibattito italiano sui servizi vi è la tendenza a vederli esclusivamente come fonti di costo per l’industria, e quindi come parte del problema della competitività. Ciò corrisponde al vero, ma cattura solo una parte della realtà. Vi sono grandi potenzialità nello sviluppo di terziario da esportazione, vale a dire di attività terziarie indirizzate ai mercati mondiali e ad alta produttività.

Una parte importante delle opportunità nasce dalla combinazione di valore simbolico con capacità manifatturiere. Molti studi recenti in antropologia e sociologia dei consumi testimonianio dello spostamento delle preferenze verso valori simbolici, comunicativi, legati alla esperienza. Si consideri il caso del prezzo del caffè.

Si vede chiaramente che è uno specifico servizio (il poter bere il caffè in un antico locale in una delle più belle piazze del mondo, Piazza San Marco a Venezia) che permette di creare il vero valore di una commodity: in questo caso passare da un prezzo di 2 cents a uno di 15 dollari.

Il prodotto è sempre fondamentale, ma tende a diventare un attrattore, un’occasione per offrire un servizio. Le innovazioni potenziali sul prodotto caffè (dal miglioramento della resa delle colture fino al ripensamento dei processi fondamentali, quali tostatura, packaging, distribuzione) possono contribuire solo marginalmente alla costruzione del valore, rispetto alla promessa di «vivere un’esperienza indimenticabile».

è un errore pensare al terziario in opposizione alla manifattura. Tutti i sistemi avanzati di terziario da esportazione hanno bisogno di forti iniezioni di tecnologia e tendono a produrre nuove occasioni di produzione manifatturiera.

Coazione a ripetere n. 2: il made in Italy è destinato al declino

Il secondo luogo comune è che l’industria tradizionale italiana, fondata sul made in Italy, sia fatalmente destinata al declino perché la domanda mondiale di beni di consumo durevole tende a crescere poco e la competizione si sposta sui prezzi. Non vi è dubbio alcuno che il made in Italy è destinato al declino, se prosegue nella traiettoria del modello di innovazione senza ricerca sopra discusso. Ma ciò non significa che sia strutturalmente impossibile rigenerarne le basi di innovazione e competitività. Vi sono opportunità largamente inesplorate di integrare l’innovazione dei settori tradizionali con la nuova dimensione del consumo di «beni esperienza».

Questi due luoghi comuni impediscono di intravedere un futuro per l’industria esistente e per i settori tradizionali, costringendo il dibattito economico e politico a una asfittica discussione. I difensori della piccola impresa, dei distretti, dell’imprenditorialità, dello sviluppo molecolare, da una parte; gli aedi della razionalità della grande impresa, della pianificazione, della tecnologia, dall’altra. Vi sono però nuovi spazi di riflessione e di dibattito che forzano un esercizio di creatività rigorosa.

Si tratta, quindi, di immaginare un modello neoindustriale e neoterziario nel quale combinare, grazie alle nuove tecnologie, il massimo della unicità e non riproducibilità come fonte di valore di esperienza, con la capacità di espanderne il consumo.

La soluzione di questa «Economia dell’Unicità sta nell’inserire beni unici in pacchetti di offerta altamente innovativi, che aumentino la domanda e consentano di ottenere prezzi elevati e sottratti alla concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Si tratta di integrare con modalità innovative prodotti e servizi. In una parola, il valore del bene unico deve poter essere «trasferito» sul valore di beni replicabili, che possono essere prodotti ed esportati.

L’Italia gode, per ragioni naturali e per la straordinaria accumulazione di storia dell’arte, di alcuni dei più ricchi capitali simbolici a livello mondiale. Nell’economia postindustriale l’elemento simbolico ha un potere di motivazione e di attrazione decisamente superiore a quello derivante dalla soddisfazione di bisogni materiali. Agire sulla motivazione di acquisto suscitata dal godimento di valori simbolici ha un grande impatto economico.

La competitività dei prodotti deve essere costruita combinando consolidate abilità manifatturiere (dai mitici sellai per la pelle delle auto Ferrari ai selezionatori di miscele di caffé o di cacao) con una inusuale capacità di valorizzare il capitale simbolico sottostante allo scopo di restituire esperienze uniche.

In aggiunta, due altri luoghi comuni sono ripetuti nel dibattito sulla ricerca e sul rapporto tra innovazione e ricerca.

Coazione a ripetere n. 3: occorre aumentare la spesa pubblica in ricerca

Per aumentare la spesa in ricerca e sviluppo verso l’obiettivo di Lisbona del 3 per cento occorre aumentare drasticamente la spesa pubblica. Si tratta di una sorta di riflesso automatico, sui giornali, nel dibattito politico. Dietro a questa pretesa si nasconde un pericoloso alibi per l’industria privata. La priorità nazionale è al contrario aumentare la spesa privata in ricerca. Occorre avere il coraggio di richiamare le imprese private a spiegare le ragioni di una latitanza storica e recente. La svolta della Confindustria va valutata non sulla semplice affermazione della centralità della ricerca, che è ormai ampiamente condivisa, soprattutto se questa si traduce immediatamente in una richiesta di aumento di fondi pubblici. La cartina di tornasole è se la nuova presidenza Montezemolo riuscirà a modificare le scelte culturali e finanziarie delle imprese italiane e a far aumentare la spesa privata.

Intanto è importante ricordare che mentre l’Italia perdeva quote di mercato mondiali nelle merci, ne guadagnava nella produzione scientifica (Figure 1 e 2).

Coazione a ripetere n. 4: la competizione dei paesi asiatici avviene sul costo del lavoro

Ulteriore luogo comune è che l’Italia subisce la concorrenza dei paesi asiatici nei prodotti a bassa tecnologia e ad alta intensità di lavoro. Questo è indubbiamente vero: la perdita di competitività delle esportazioni italiane avviene nei settori nei quali, contemporaneamente, i paesi europei tradizionali sbocchi di mercato aumentano drasticamente le importazioni dalla Cina. Ma questa è solo una parte della storia e rischia di nascondere una minaccia ben più pericolosa. è oramai noto che, al contrario, i paesi asiatici stanno costruendo con molta rapidità le condizioni per competere con l’Europa non sulle produzioni a bassa tecnologia, ma su quelle ad alto contenuto di conoscenza. E stanno preparando questo futuro attraverso un massiccio processo di mobilità delle intelligenze. Rispetto a questa dinamica, una coazione a ripetere che diventa periodicamente un tormentone mediatico è legata al tema della fuga dei cervelli. Il rientro dei cervelli italiani dall’estero diventa la priorità numero uno delle politiche della ricerca. Ma i cervelli per funzionare hanno bisogno di muoversi e limitarsi a far rientrare i cervelli italiani non è probabilmente di per sé una buona idea.

Se questi stereotipi verranno rimossi e se si cercherà di intraprendere un percorso di innovazione coerente con gli scenari tecnologici, economici e sociali che si stanno profilando nei mercati globali, ma anche rispettoso della storia e delle capacità specifiche del nostro paese, l’Italia potrà ritornare a essere un paese di riferimento per lo sviluppo economico.

Andrea Bonaccorsi è professore ordinario di economia e di gestione delle imprese alla Facoltà di Ingegneria dell’Università di Pisa.

Andrea Granelli è presidente del Distretto dell’Audiovisivo e dell’ICT di Roma, direttore dell’Istituto di Economia dei Media della Fondazione Rosselli e insegna all’Università «La Sapienza» di Roma.

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