l’hardnet non è in crisi (e lotta insieme a sé stesso)

I servizi digitali alle aziende crescono sempre più, e sono il pilastro di una nuova, diversa, globalizzazione

Qualche settimana fa ho parlato della crisi delle aziende digitali. Negli ultimi mesi, nel settore tecnologico-digitale americano, sono stati licenziati 17000 unità. A questa cifra importante, per un singolo settore molto tecnico, si aggiungono i congelamenti di assunzioni e le rinunce ad assumere, inviate via mail dalle aziende tech ai loro neo assunti post-colloquio.

Nell’analisi precedente ho spiegato alcune delle ragioni alla base di questi licenziamenti e della crisi del digitale. Tuttavia non è crisi per tutto il mondo digitale. Mi sono permesso di fare una doverosa distinzione tra quello che io chiamo softnet e hardnet.

Il primo lo identifico con tecnologie e aziende digitali che traggono le maggiori entrate dalla vendita di servizi e/o prodotti al consumatore finale. Del secondo parliamo adesso. Se il primo tipo va male il secondo va bene e potrebbe persino crescere, grazie alle “sfortune del primo”.

La Cina campione di hardnet

Il termine è di mia invenzione: lo uso per raggruppare ed etichettare tutte quelle aziende tecnologiche la cui vendita di servizi e/o prodotti è focalizzata verso altre aziende.

All’interno di questo settore, per esempio, individuo tutte le aziende di cloud, internet of things, sistemi di sensoristica, software di rilevazione ottica, algoritmi di processo, robotica, cybersecurity, produttori di esoscheletri, cobot e altri strumenti robotici ecc..

In Cina utilizzano il termine “internet industriale”, per indicare questo tipo di tecnologie digitali che sono fondamentali per l’industria 4.0.

Se osserviamo il piano quinquennale cinese notiamo come l’“internet industriale” era già in atto nei precedenti piani ma nel 14° è stato definito in dettaglio. La Cina, con una puntualità invidiabile, lo sta mettendo in atto.

È all’interno di questa visione che possiamo comprendere le azioni di Xi Jinping: dalla stretta alle realtà digitali “consumer” sino alla loro regolamentazione (il caso di rischio di frode finanziaria di Jack Ma è piuttosto famoso).

La Cina ovviamente non si accontenta di normare le sue softnet. L’attività del dragone si focalizza sull’intera filiera del valore digitale: dalla formazione di un crescente numero di d’ingegneri ai massicci stimoli per la creazione di aree industriali a forte connotazione tecnologica, che potranno servire (con la loro produzione ma soprattutto con la loro ricerca) le future necessità del mercato b2b cinese.

Il normare le softnet cinesi ha portato anche ad un effetto collaterale interessante. Una lenta fuga di cervelli (programmatori e altre figure tecniche altamente specializzate) dalle aziende softnet a quelle hardnet.

Comprendere dove vanno i cinesi ci aiuta a comprendere come potrebbe (o meglio dire dovrebbe) orientarsi anche l’Europa.

“La scelta della Cina proviene dal lontano” mi spiega Roberto Della Marina di Venture Factory. “Dobbiamo ricordare che la Cina progredisce e si sviluppa seguendo i suoi piani quinquennali.

Quello che osserviamo oggi, in fatto di scelte e investimenti, deriva da decisioni prese circa un decennio fa. Il modello di sviluppo cinese, se parliamo di hardnet, non guarda alla competizione attuale ma a quella futura.

Consideriamo, parlando di automazione, il mondo portuale. Un settore percepito, da noi occidentali, come ad alta intensità di personale con bassa specializzazione. In Cina sono ormai pervasive le tecnologie di automazione di porti dove la presenza umana è fortemente ridotta, di solito localizzata nelle torri di controllo, da cui viene coordinato l’intero processo di scarico e carico.

Qingdao, Yangshan e Ningbo-Zhoushan sono stati i primi a utilizzare l’internet delle cose per gestire la loro logistica. Ma non saranno gli ultimi.

In particolare possiamo osservare tale scenario nei porti container, dove la standardizzazione dei volumi da movimentare ha aiutato sensibilmente la sua automazione.

Anche il settore dei semiconduttori sta subendo una rivoluzione. Lo scontro commerciale con Trump ha spinto fortemente la Cina a localizzare città dove saranno portati avanti ricerche, sviluppo e produzione di semiconduttori e circuiti integrati.

Tra tutte queste svetta l’ascesa di Shangai: da città manufatturiera a futura silicon valley. Una scelta che, se da un lato spinge la Cina a divenire competitor futuro di Taiwan, di fatto rappresenta un’ascesa nella scala di valore della produzione.

Nella stessa logica vanno gli sviluppi di sistemi operativi e software di produttività nazionali. Per quanto il percorso sia ancora sfidante, sono ormai numerose le aziende cinesi di software che sviluppano prodotti locali, con un approccio di User Experience e interoperabilità pari ai software occidentali. Questo scenario che vede la Cina investire pesantemente in hardnet deve anche essere letto nell’ottica di una sovranità digitale cinese.

La proiezione digitale cinese, in termini di hardware, pensiamo ai cellulari, laptop e reti a fibre, non si limita alla sola nazione: Africa, Centro Asia, parti di Asia, tra cui l’India, sono sempre più legate a ecosistemi digitali cinesi.”

Una simile posizione arriva anche da Andrea Arrigo Panato, Naming Partner di Panato Dottori commercialisti ed M&A advisor, che mi spiega: “La Cina in questi anni ha dimostrato di saper pianificare l’intervento statale in maniere efficace, individuando per tempo le linee di tendenza del futuro sviluppo economico.

Sono convinto che nei prossimi mesi assisteremo ad un forte sviluppo di tutto il mondo B2B e soprattutto delle tecnologie applicate a quel mondo. La sfida che i Paesi occidentali devono raccogliere è di credere e sostenere il libero mercato investendo però in infrastrutture a supporto dello stesso, siano esse tecnologiche, logistiche, ecc.”

Hardnet e Italia, che si fa?

Se lo sviluppo delle aziende hardnet è un dato di fatto, scenario in contro tendenza rispetto alla crisi del softnet, è vitale comprendere come queste aziende possano crescere nel mondo occidentale.

Facciamo un focus sulla nostra nazione, che di suo ha il grande vantaggio di avere una scolarizzazione elevata, un’indole creativa individualista.

Consideriamo quindi come le startup e aziende di hardnet possano integrarsi nel tessuto delle Pmi italiane, soprattutto valorizzando alcuni elementi del Pnrr che porterà risorse per la transizione digitale.

“Il tessuto imprenditoriale italiano ha molto da dire e da giovarsi dalla hardnet,” mi spiega Della Marina. “Come Italia siamo una nazione manufatturiera, con grandi filiere al cui apice siedono perlopiù medie o medio-grandi imprese e abbiamo un tessuto formativo e di ricerca di eccellenza mondiale nei campi afferenti ai cardini della Industria 4.0.

Il mercato italiano, specialmente quando guardiamo alla manifattura b2b, è naturalmente orientato verso l’estero e verso la creazione di filiere di valore che escono dai confini dell’Ue.

Il nocciolo duro delle hardnet sono le deeptech. Sono società che usano tecnologie di frontiera, fondate su scoperte scientifiche o innovazioni ingegneristiche significative con un potenziale alto impatto sociale, ambientale ed economico. In questo subecosistema del’hardnet esistono molte startup nazionali che si stanno affermando per visione creativa e ingegno.

Il rischio plausibile è che, stante la dimensionalità della nostra nazione e relativo mercato domestico, non si riesca a trattenere molti founder dal muoversi all’estero, dove le aziende trovano maggior interesse e capitali da investire nello sviluppo. In questo senso abbiamo un dovere, come investitori, nel porre le basi perché i nostri cervelli, educati e formatisi in Italia, a spese dei contribuenti, decidano di restare.

Bisogna segnalare che in questi ultimi 5 anni, grazie ad azioni concertate tra Governo e Cassa Depositi e Prestiti, si sono moltiplicate le iniziative e gli strumenti finanziari a disposizione delle aziende ad alto contenuto di innovazione per nascere, crescere ed espandersi sui mercati europei e mondiali.

Consideriamo ad esempio una filiera come quella della meccatronica, i cui prodotti divengono principalmente parte di altri impianti di produzione. Le tecnologie deeptech sono vitali in questo settore.

I nuovi impianti di produzione necessitano di feedback in tempo reale da parte di una cornucopia di sensori: meccanici, ottici, elettromagnetici, fisici legati al peso e densità.

Tutti questi dati devono essere correlati con dati provenienti da altri impianti e da sistemi di controllo sia in cloud che sull’edge, gestibili solamente grazie allo sviluppo di tecnologie IoT.

Inoltre dotare gli impianti della capacità intrinseca di rilevare anomalie nel sistema in tempo reale o addirittura, grazie ai Digital Twin, prevedendo con anticipo la necessità di manutenzione agli impianti, permette di garantire qualità, produttività e abbattimento dei costi dovuti ai fermi macchina.

Sono questi i principi con cui molte startup hardnet operano, per rendere fluido tutto l’insieme delle fasi di produzione e attuare il paradigma della 4° rivoluzione industriale. In tale contesto è quindi inevitabile dover ridefinire la struttura tradizionale della catena produttiva e del valore, in cui i confini tra macchine, algoritmi e umani saranno sempre più sfumati,” conclude Della Marina di Venture Factory.

Il tema transizione 4.0 è familiare anche a Panato. Osservando lo scenario del settore Pmi e fondi mi spiega che: “L’Italia, quantomeno a livello europeo, è una importante potenza manifatturiera. Quanto fatto a livello di Industry 4.0 o Transizione 4.0 ha contribuito a rinnovare la nostra industria anche se ancora molto deve essere fatto.

Non dimentichiamo che la tecnologia è importante ma il suo effettivo impatto lo osserviamo se accompagnato da capacità organizzative e cultura manageriale. Oggi abbiamo la possibilità di ridisegnare le nostre imprese ed i settori in cui operiamo ma dobbiamo avere il coraggio di investire in nuove competenze.”

Consideriamo che crisi del softnet potrebbe liberare risorse: figure tecniche, che diverrebbero acquisibili da aziende hardnet. Una prospettiva che, se si realizzasse, permetterebbe a molte startup e azienda hardnet di avere risorse già formate, con competenze plug’n’play, a costi potenzialmente competitivi.

Il fattore costo delle risorse umane, se parliamo di hardnet, non è di poco conto.
“In Italia non abbiamo i costi per i tecnici (ingegneri, programmatori, ecc.) che osserviamo in Silicon Valley. Questo è un fattore competitivo su cui non stiamo puntando abbastanza. L’ecosistema di Boston nonostante possa offrire lo stesso livello di competenza a prezzi più accessibili (sebbene il gap si stia via via restringendo) rispetto alla California oggi sta facendo scouting in Italia sia di startup su cui investire, sia di talenti e team.

Il nostro Studio ha stretto una partnership con investitori americani valorizzando il modello, “win win” per entrambi i Paesi, della dual company: testa in America, programmatori in Italia. La crescita oggi passa anche attraverso la capacità di fare ponte e mettere in connessione ecosistemi diversi con il nostro,” chiarisce Panato.

Se osserviamo lo scenario europeo e italiano i costi tendono a diminuire ma la disponibilità non è elevata. Nell’ipotesi che la crisi delle softnet, in ambito di licenziamenti, permanga per un anno o più, molti profili potrebbero decidere di scalare i loro costi per divenire più appetibili per aziende di hardnet.

“Il mercato nei prossimi mesi diventerà più selettivo e premierà quei progetti in cui la tecnologia sarà al servizio della crescita dell’impresa. Passeranno le mode e torneremo ai fondamentali,” continua Panato.

“Tutto questo vuol dire saper usare i dati per prendere decisioni, significa sapersi inserire in un ecosistema virtuoso capace di far dialogare oltre le macchine anche le imprese, significa ridefinire la dimensione minima per competere in base al modello di business e alla creazione di valore.

Il cloud, ad esempio, dispiega tutte le sue potenzialità se ragioniamo in termini di organizzazioni (impresa, rete, filiera, ecc) interconnesse. Un mondo in preda a forti sconvolgimenti politici ti costringe a ridefinire la filiera, i luoghi di produzione e distribuzione, ti costringe a mettere in discussione tutta la supply chain e probabilmente anche a ridisegnare il prodotto/servizio. E tutto questo non puoi farlo da solo.

Ci aspettano sfide importanti ma anche grandi premi per le imprese del mondo BtoB capaci di innovare in maniera concreta. E saranno queste che raccoglieranno maggior interesse da parte di investitori più guardinghi a causa di aumento di inflazione e tassi di interesse.

Da operatori nel mondo M&A, come trend di lungo periodo, al di là degli scossoni di breve, riteniamo che vi sarà una attività di M&A, più selettiva rispetto a quanto visto ultimamente, fortemente ancorata ai fondamentali perché la fase di consolidamento di numerosi settori non è ancora terminata. Soprattutto in Italia.
Io sono positivo ma questo non significa che la sfida non sarà ardua,” conclude Panato.

Stando a differenti stime lo scenario della crisi digitale, con particolare riferimento alla softnet, non è destinato a durare per sempre.

E tuttavia, come il Covid ci ha insegnato, già 1 o 2 anni di crisi possono ridefinire abitudini, trend e nuovi approcci nel mondo digitale, che tende a muoversi più rapidamente rispetto al mondo delle imprese.

Tuttavia la congiuntura positiva, per una volta, di una potenziale disponibilità di risorse esodate dal softnet, che comunque hanno un costo, e un influsso di capitali con un focus di spesa specifica sul mondo digitali, potrebbe offrire alle Pmi italiane capacità e opportunità per digitalizzarsi e divenire più competitive a realtà europee dove già oggi l’industria 4.0 è uno standard produttivo.

@EnricoVerga

Image by fancycrave1 from Pixabay

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