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L’ultimo film del regista palermitano è una meditazione sul concetto di realtà. I cui risultati sono scomodi, anzi inaccettabili, per chi crede che la questa sia un semplice dato di fatto

Quando Lev Vigotskij, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, rese pubblici i risultati della sua indagine nelle campagne delle remote regioni russe, si attirò addosso l’antipatia del governo sovietico, che pure gli aveva affidato l’incarico, al punto da guadagnarsi una ferrea e spietata censura, che lo ha reso, tra le menti più fulgide del XX secolo, un illustre sconosciuto fino agli anni Ottanta.

Banalmente, le sue conclusioni sono le seguenti: insegnare la geometria ad un bambino delle campagne uzbeke è inutile in quanto questo non può arrivare a comprenderne la struttura, non essendo mai venuto in contatto con forme geometriche regolari. In un mondo naturale, popolato al più da manufatti quasi rudimentali, il bambino non può concepire l’esistenza di un quadrato o di un cerchio perfetto come quelli dei libri. Un bambino di città, inserito in un mondo artificiale, è circondato fin dalla nascita da tali oggetti, da sfere e parallelepipedi, dalle palle da gioco a un qualsiasi mobile di casa.

Affermare che un bambino di campagna non potesse essere uguale ad un bambino di città era cosa difficile da digerire per il giovane socialismo sovietico, che, magari anche con le migliori intenzioni, reagì male a tali conclusioni.

Negli stessi anni, in Italia, Luigi Pirandello smonta il consueto rapporto tra verità, finzione, realtà e apparenza, “mette una bomba” (per citare il vecchio Giovanni Verga nella scena del film La Stranezza) alle fondamenta “di quello che abbiamo costruito”. Eppure il suo lavoro, così profondamente filosofico, prende le forme, nelle pagine dei suoi testi, di un affresco della realtà popolare siciliana.

È questo il messaggio del film di Roberto Andò, La Stranezza, questo principalmente. Che non esista una realtà che sia altro da una molteplice sovrapposizione di livelli di apparenza, che sfogliando gli strati di cipolla della finzione non si arrivi ad un nocciolo ultimo di realtà. Che, quindi, ciascuna di queste finzioni è quella che è, che se non la accetti e ti impunti a penetrarla, finisci con restare senza nulla in mano, o peggio, come per la povera signora Beatrice de Il berretto a sonagli.

E tutto questo non sta nell’iperuranio, non è rivelazione trascendentale. È qui, attorno a noi, davanti ai nostri occhi ogni giorno. Nelle ipocrisie e negli infingimenti, nella maniera che abbiamo di pararci e imbellettarci i fatti e la vita. Che, mentre viviamo, siamo attori su un palcoscenico, che è la nostra e l’altrui vita, è cosa quotidiana. Le dinamiche quotidiane della vita di paese siciliana mostrano la complessità di ciò che chiamiamo realtà.

Roberto Andò è siciliano, come Pirandello, come gli attori, Toni Servillo a parte, del film. Ficarra e Picone, certamente, ma anche Rosario Lisma (La mafia uccide solo d’estate) e Luigi Lo Cascio, meraviglioso a prescindere, solo vederlo sullo schermo. È dalla Sicilia popolare che Pirandello guarda e comprende come la realtà non sia più che un gioco di infingimenti sovrapposti, e tutti assolutamente veri nella loro risoluta determinazione a voler essere ingannevoli.

Quelli che dicono che il film di Andò è troppo letterario, che Toni Servillo non brilla come suo solito, che Pirandello è ridotto troppo ad una comparsa, non hanno capito questo fatto: che La Stranezza è prima di tutto un film sulla Sicilia popolare. E che, come abbiamo già detto, quel “popolare” non è un’attribuzione riduzionista, ma proprio l’opposto.

Che Vigotskij e Pirandello siano stati percepiti come corrosivi (si veda la reazione del pubblico alla prima di Sei personaggi in cerca d’autore, negli ultimi dieci minuti del film), nel loro impegno a mostrare quello che la realtà popolare rivelava ai loro occhi, si deve al fatto che la realtà che “abbiamo costruito” (come dice il vecchio Verga) è, appunto, un costrutto. Fatto, per lo più, a tavolino.

E così, ignorando Vigotskij, la scuola continua, per dire, imperterrita, a convincere il bambino che il mondo è fatto di cerchi e quadrati perfetti, i quali esistono soltanto in quella realtà costruita e non altrove. Lo costringe a convincersi che tutti i cerchi e i triangoli storti non sono altro che apparenze, errori, deformazioni. Continua a riempirgli la testa di riassuntini banali e lineari di interi secoli di storia umana. Continua a semplificare la vitalità del linguaggio in una serie apparentemente conchiusa di regolette di morfologia e sintassi. Continua a tenere fuori dalla sua porta il mondo della vita popolare, il dialetto, l’orto, le pietre della spiaggia.

Così, ignorando Pirandello, si porta avanti l’odierna aspra battaglia contro le “fake news” tacendo e facendo di tutto per far dimenticare alla gente il fatto che la realtà sia tutta di strati sovrapposti e indistricabili di “fake news”.

Il film di Roberto Andò è un gran film perché fa quello che fa il grande cinema: dice, grazie all’immediatezza dell’immagine, molto più di quello che mostra.

La stranezza riesce, complici le ottime interpretazioni degli attori del cast, a rendere palpabile il lavoro di maturazione che, dalla Sicilia popolare, ha portato Luigi Pirandello ad essere un autore universale.