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Mentre continuiamo a ricercare tracce di vita extraterrestre, un nuovo studio stima quanti altri mondi potrebbero averci già individuati.

di Tatyana Wood

Una nuova ricerca pubblicata oggi su “Nature” afferma che circa 1.700 stelle sono nella posizione giusta per aver individuato la vita sulla Terra già da 5.000 anni. Queste stelle, entro 100 parsec (o circa 326 anni luce) dal Sole, sono state trovate utilizzando i dati del Transiting Exoplanet Survey Satellite della NASA e della missione Gaiadell’Agenzia spaziale europea.

“L’universo è dinamico”, afferma Lisa Kaltenegger, direttrice del Carl Sagan Institute di Cornell e autrice principale dello studio. “Le stelle si muovono, noi ci muoviamo. La Terra gira intorno al Sole, che a sua volta si muove intorno al centro della nostra galassia». Circa il 70 per cento degli esopianeti si trova utilizzando il metodo del transito: quando un pianeta passa tra una stella e un osservatore, la luminosità della stella si attenua abbastanza da confermare la presenza di un corpo celeste mai visto prima.

Kaltenegger e la coautrice Jackie Faherty dell’American Museum of Natural History hanno compilato un elenco di stelle che vedranno o hanno già visto il transito terrestre nelle loro vite. Di queste, ne hanno trovato sette con esopianeti orbitanti che potrebbero essere potenzialmente abitabili.

Statisticamente, una stella su quattro ha un pianeta che esiste nella “Goldilocks zone”, vale a dire una zona abitabile intorno a una stella, né troppo calda, né troppo fredda. Ma come determiniamo se gli esopianeti lontani soddisfano questi criteri?

Quando gli esopianeti in transito bloccano la luce stellare, parte di quella luce filtra attraverso l’atmosfera. L’energia e la luce interagiscono con le molecole e gli atomi di quel pianeta e, nel momento in cui la luce raggiunge il telescopio di un astronomo, gli scienziati possono determinare se ha interagito con sostanze chimiche come l’ossigeno o il metano. Una combinazione di questi due, dice Kaltenegger, è l’impronta digitale della vita.

“L’aspetto veramente interessante è che la Terra già appariva come un pianeta abitabile circa 2 miliardi di anni fa, a causa dell’accumulo di ossigeno nell’atmosfera”, spiega. L’idea di studiare il meccanismo dei transiti per scoprire se siamo sul radar di qualcun altro non è davvero nuova. Kaltenegger ha attribuito gran parte della sua ispirazione a un piano che l’Istituto SETI, che persegue la ricerca di intelligenza extraterrestre, aveva negli anni 1960.

Allora, un radioastronomo di nome Frank D. Drake fu la prima persona a provare a rilevare le trasmissioni radio interstellari, concentrandosi su due stelle distanti 11 anni luce e di età simile al nostro Sole. Sebbene quel tentativo non abbia avuto successo, da allora gli scienziati e gli appassionati dilettanti hanno continuato a cercare tali segnali.

Nel nuovo studio, Kaltenegger e Faherty hanno riferito che le onde radio prodotte dall’uomo hanno già raggiunto le 75 stelle più vicine sulla loro lista. Anche se gli umani emettono onde radio da circa 100 anni, non è niente in confronto ai miliardi di anni di evoluzione planetaria della Terra.

Nel frattempo, gran parte del nostro vicinato solare è ancora inesplorato, ma è qui che entrano in gioco missioni come TESS, Gaia e Kepler. TESS trascorre mesi a guardare diversi settori dell’universo nella sua caccia alla ricerca di esopianeti e Gaia cerca di creare mappa tridimensionale dell’intera Via Lattea. Ma Kepler è stato creato per osservare un pezzo di cielo per periodi di tempo più lunghi, il modo perfetto per tracciare gli esopianeti usando il metodo del transito.

“Sia con Kepler che con Gaia, uno dei grandi vantaggi è stato la loro capacità di osservare a lungo le stelle”, afferma Douglas Caldwell, ricercatore SETI e responsabile della strumentazione scientifica per la missione Kepler. A suo parere, le missioni dedicate a obiettivi scientifici specifici come Gaia offrono un tipo di precisione di buon auspicio per future scoperte astronomiche. “Stiamo guardando i nostri vicini più prossimi e cercando di capire la nostra piccola galassia”, conclude Caldwell.

(rp)