Andrea Ghez, avida lettrice di romanzi polizieschi, è diventata un’investigatrice galattica per cercare di dimostrare la presenza del buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea.
di Anne-Marie Corley
Quando l’astrofisica Andrea Ghez era una ragazzina che viveva a Chicago, suo padre le diede una biografia di Marie Curie, e la lezione che ne trasse fu che una donna poteva essere una grande scienziata, avere figli e vincere un premio Nobel. Ghez ha portato a termine tutte e tre le imprese e non mostra segni di cedimento. Ha condiviso il premio Nobel per la fisica nel 2020 per 25 anni di ricerche che confermano l’esistenza di un buco nero supermassiccio al centro della galassia della Via Lattea ed è stata solo la quarta donna a ricevere questo riconoscimento.
Il lavoro è durato decenni, durante i quali la tecnologia e gli strumenti di lavoro sono cambiati puù volte. Uno degli ex studenti di dottorato di Ghez e ora collega all’Università della California, a Los Angeles, Tuan Do, racconta di quanta pazienza e meticolosità siano necessari in questa attività. A differenza dei buchi neri di massa stellare, che sono circa 10 volte la massa del Sole e sono stati previsti dalla teoria prima di essere scoperti con l’osservazione, i buchi neri supermassicci, che possono raggiungere da un milione a un miliardo di volte la massa del Sole, sono stati ipotizzati come un risultato dell’osservazione diretta.
Gli astronomi avevano notato quantità considerevoli di energia proveniente dai centri di alcune galassie, quantità che solo un oggetto di enorme densità avrebbe potuto spiegare. Si sono chiesti se in effetti ogni galassia contenesse un buco nero supermassiccio al suo centro. Dimostrare che esiste all’interno della nostra galassia, che è “una galassia nella norma”, dice Ghez, conferma la validità dell’ipotesi.
Poiché i buchi neri assorbono anche la luce, dimostrare la loro esistenza richiede mezzi indiretti. La ricerca di Ghez ha raggiunto questo obiettivo utilizzando nuove tecniche per misurare il movimento delle stelle attorno alla massa centrale della Via Lattea, dimostrando che devono orbitare attorno a un oggetto così massiccio da non poter essere altro che un buco nero.
Una gioia sconfinata
“Da bambina”, dice Ghez, «il pensiero dello spazio e del tempo mi teneva sveglia la notte». La scienziata ha cercato risposte nella matematica e ha divorato la raccolta di saggi sull’infinito di Isaac Asimov. Non ha mai disdegnato la lettura di qualche buon romanzo giallo. “Lo faccio ancora”, dice. A 17 anni ha chiesto l’ammissione anticipata al MIT, già certa di studiare matematica e scienze.
Ha poi cominciato a frequentare il programma UROP con il professor Hale Bradt, che le ha fornito l’opportunità di lavorare con sistemi di dati satellitari e anche con grandi telescopi ottici professionali. “Mi sono innamorata dei telescopi, di quello che vedi e fai”, dice, “e ho scoperto la mia passione per i buchi neri.
Ghez porta avanti questa filosofia nel suo insegnamento all’UCLA, dove lavora dal 1994, dando agli studenti universitari opportunità iniziali di conoscere la cultura della ricerca e le competenze necessarie per fare scienza professionale. È “così diverso dall’apprendimento in classe”, spiega. “Il modo in cui si fa scienza non è lo stesso con cui insegniamo la conoscenza scientifica. Al di là della serietà che circonda questo tipo di studi, mi ricordo che eravamo spesso sorridenti”.
L’investigatrice galattica
Come i detective che stringono la rete attorno a un sospetto, Ghez e il suo team, insieme ai ricercatori tedeschi guidati da Reinhard Genzel, uno degli scienziati con cui Ghez ha condiviso il Nobel del 2020, si sono avvicinati gradualmente al buco nero supermassiccio della Via Lattea. Poiché non si può vedere, sono stati costretti a dedurre la sua presenza effettuando misurazioni sempre più accurate della regione e quindi utilizzando la fisica di base per calcolare le dimensioni della sua massa centrale.
La prova definitiva che l’oggetto invisibile al centro della galassia è un buco nero, spiega Ghez, è mostrare che la massa al suo interno è confinata in un’area più piccola del suo raggio di Schwarzschild, spesso indicato come l’orizzonte degli eventi, il confine entro il quale l’attrazione gravitazionale tra le particelle fisiche è così intensa che la materia collassa su se stessa e niente, nemmeno la luce, può sfuggire.
Sebbene non abbiano del tutto confinato l’oggetto, noto come Sagittarius A*, a quel raggio, le osservazioni sempre più accurate di Ghez delle sue stelle orbitanti hanno ridotto la distanza di un fattore di 10 milioni da quando il lavoro è iniziato 25 anni fa.
La gravità costringe gli oggetti nello spazio a muoversi in orbite attorno a una massa centrale, proprio come i pianeti che orbitano attorno al Sole, e più massa si trova all’interno di un determinato raggio, più velocemente gli oggetti in quel raggio si muoveranno attorno al punto centrale. Quindi, per determinare la dimensione dell’oggetto al centro galattico, la prima cosa è stata cercare di osservare il movimento degli oggetti che orbitano attorno ad esso.
Da giovane membro della facoltà dell’UCLA negli anni 1990, Ghez propose di utilizzare il telescopio dell’Osservatorio Keck a Mauna Kea, nelle Hawaii, per fotografare il centro galattico, correggendo il disturbo atmosferico terrestre con una miscela di tecniche osservative chiamata speckle imaging, vale a dire più istantanee impilate insieme in seguito per creare un’immagine chiara. Queste immagini avrebbero consentirebbero al suo team di misurare le velocità delle stelle in modo più preciso che mai.
La sua proposta venne respinta. Il comitato di selezione del Keck non pensava che Ghez sarebbe stata in grado di rimuovere gli effetti atmosferici della Terra al punto da vedere le stelle, tanto meno osservarne il movimento. Imperterrita, Ghez ha chiesto a una sua collega di cederle il tempo concesso agli astronomi per avere accesso al telescopio – una vera impresa considerando che l’astronomo medio nel sistema dell’Università della California ottiene solo due preziose notti di osservazione ogni sei mesi – per dimostrare che la sua idea avrebbe funzionato. Ci è riuscita e il suo team ha potuto pubblicare il primo articolo sulle velocità delle stelle centrali della galassia nel 1998.
Le misurazioni hanno permesso loro di calcolare un volume della massa centrale più accurato che mai, utilizzando le leggi del moto di Keplero. All’epoca ipotizzarono che un buco nero fosse l’unica spiegazione ragionevole per un oggetto così denso, ma le incertezze nelle loro misurazioni significavano che dovevano andare avanti per essere sicuri. Il passo successivo è stato quello di essere in grado di misurare l’accelerazione delle orbite per le stelle nella regione, cosa che Ghez e i suoi colleghi fecero con successo, pubblicando i loro risultati nel 2000. Ciò permise loro di avvicinarsi ulteriormente al raggio.
A quel punto, avevano anche appreso dalle loro misurazioni che le stelle più vicine a Sagittarius A* potevano avere periodi orbitali di appena un decennio e che quindi, passati altri cinque anni dopo i primi cinque già trascorsi, avrebbero potuto avere un quadro completo. La tecnologia continuava a fare passi avanti e poterono passare dalla speckle imaging all’ottica adattiva, una tecnica più precisa per rimuovere i disturbi atmosferici della Terra e ottenere immagini più nitide e stabili.
L’accoppiamento dell’ottica adattiva con la spettroscopia permise loro di misurare l’intera orbita di una stella che stavano seguendo, chiamata S0-2. Ciò ha significato progressi decisivi nella misurazione della velocità delle stelle orbitanti in due dimensioni fornendo la “terza dimensione critica” del loro movimento radiale, o 3D.
Anche in queste prime misurazioni delle velocità, spiega Tuan Do, sembrava “abbastanza convincente” che ci fosse un buco nero, perché le stelle si muovono molto velocemente nella regione. Ma il volume di spazio in cui sapevano che si stava verificando il movimento era ancora ampio “quindi”, continua Do, “si potevano immaginare un ammasso di piccoli buchi neri, o un ammasso di stelle di neutroni, o qualche altra presenza massiccia non visibile”.
Tuttavia, ora che erano stati in grado di misurare le orbite e avevano dimostrato che l’orbita della stella S0-2 passa, al suo massimo avvicinamento, a sole circa 100 unità astronomiche dall’oggetto centrale, l’unica spiegazione plausibile era quella del buco nero supermassiccio. “È davvero difficile nascondere 4 milioni di stelle di neutroni in questa piccola regione dello spazio”, dice Do, “anzi è impossibile, perché rimbalzerebbero l’una sull’altra e volerebbero intorno, con effetti evidenti”.
Dal momento che avevano misurato gli spettri delle stelle orbitanti, furono anche in grado di fare un’altra scoperta: “Per la prima volta siamo stati in grado di capire dal punto di vista astrofisico che tipo di stelle erano”, dice Ghez. “Abbiamo appreso, per esempio, che le stelle in orbita più vicine alla massa centrale erano stelle giovani, il che è l’opposto di quanto suggerito dalle teorie”.
Un esperimento che stanno portando avanti ora riguarda il modo in cui l’oggetto al centro galattico si muove nello spazio-tempo. Einstein predisse che l’orbita di un buco nero avrebbe dovuto precedere, o ruotare, e che avrebbe dovuto farlo nella direzione in cui sta orbitando. Tuttavia, il team di Ghez ha osservato un’orbita “provvisoria retrograda”, l’esatto opposto delle previsioni di Einstein. Ciò significa che è giunto il momento delle verifiche.
Una tra tanti
Al MIT, che all’epoca era composta da circa il 25 per cento di donne, capì che per ‘essere “una tra tanti” non doveva isolarsi, ma partecipare alle attività comunitarie e circondarsi di persone fidate. “Una delle decisioni più importanti che si prende alla scuola di specializzazione è con chi lavorare”, spiega. “E’ essenziale ritrovarsi in un ambiente in cui le persone non sono condizionate dal fatto che sei donna”.
La prima volta che tenne un discorso alla scuola di specializzazione, Ghez era paralizzata dall’emozione ma, forte della sua convinzione che “ogni sfida è un’opportunità”, decise di affrontare la sua paura e di chiedere apertamente di rendere possibile insegnare fisica alle matricole, cosa che solo i professori ordinari al Caltech potevano fare all’epoca. La facoltà rispose di sì, ma le motivazioni la infastidirono in quanto il suo coinvolgimento come unica donna nel gruppo di insegnanti non veniva accettato in base al merito, ma all’utilità.
Esaminando i dati sulle prestazioni degli studenti di sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile, Ghez scoprì che non supportavano il loro scetticismo rispetto ai risultati delle donne. Ricorda che questo episodio la indusse ad appasssionarsi alla questione della presenza femminile in ambito scientifico.
In vetta
Il modo in cui gli astronomi lavorano con i telescopi è cambiato radicalmente in 25 anni. “All’inizio”, racconta Ghez, “non c’era alternativa al salire in vetta”. Ricorda l’eccitazione della sua dozzina di viaggi in cima ai 4.200 metri del Mauna Kea, dove ebbe modo di frequentare gli astronomi di tutto il mondo che raccoglievano a loro volta i dati delle decine di telescopi presenti.
Gli svantaggi, ovviamente, erano legati all’altitudine e alla mancanza di sonno, dal momento che gli astronomi dovevano stare in piedi dal tramonto all’alba per raccogliere i loro dati. “Il tempo a disposizione era poco e bisognava sfruttarlo, anche se si aveva solo voglia di sdraiarsi da qualche parte”.
Lei e il suo team fecero il loro ultimo viaggio di osservazione nel 1998, dopo di che iniziarono a osservare a distanza dal quartier generale alla base della montagna. In un certo senso, erano limitati dal non avere accesso diretto alle condizioni meteorologiche o ad altri ricercatori al di fuori del loro gruppo. D’altra parte, sostiene, “il cervello funziona meglio a livello del mare”. Inoltre, ebbero anche modo di lavorare più da vicino al personale che sviluppava il sistema di ottica adattiva, dall’hardware dell’ottica agli specchi alla tecnologia associata al telescopio stesso, che Ghez trovò “davvero utile”.
Circa 15 anni fa, hanno iniziato a essere in grado di osservare dall’UCLA, il che ha aumentato ulteriormente la distanza tra l’osservatore e l’osservatorio, ma ha incrementato il numero di persone che hanno avuto accesso al telescopio. “Gli studenti universitari lo adorano”, dice Ghez. “E’ molto più coinvolgente”. Il covid-19 ha portato l’universo ancora più vicino a casa. “Mi alzo dal letto e con il mio laptop mi collego a questo telescopio di 10 metri”, dice Do.
Ghez ricorda che fino al covid, visitavano ancora il sito del telescopio ogni anno, soprattutto per mantenere i rapporti con gli operatori e per fare opera di sensibilizzazione con le comunità locali, che sempre più solidarizzavano con la causa delle terre agli indigeni, bloccando l’inizio della costruzione del nuovo Thirty Meter Telescope (TMT), il più grande telescopio a luce visibile terrestre mai costruito. Ghez spera che il suo status di Nobel la aiuti ad avere voce nel confronto politico in corso.
Dopo il Nobel
Sebbene abbia ricevuto molte offerte per entrare in altre istituzioni o assumere ruoli amministrativi da quando ha vinto il Premio Nobel, Ghez è più interessata a continuare nel suo lavoro attuale. Adora lavorare con le nuove tecnologie, come la prossima generazione di telescopi e non vede l’ora di “vedere la nuova scienza” che sarà resa possibile dal passaggio dai 10 metri di diametro del Keck ai 30 metri del TMT. Ora vuole continuare a rispondere alle sfide scientifiche associate ai grandi telescopi e alle questioni sociali e culturali che vi ruotano intorno. “Mi piacerebbe essere in grado di utilizzare il mio ruolo per portare avanti questi obiettivi”, spiega.
Per Ghez c’è ancora tanto mistero, ma anche tanta routine. Vincere il premio “non cambia i miei pensieri e il mio modo di vivere”, dice. “Amo ancora la ricerca scientifica. Amo ancora i miei figli”. “Tenere la barra dritta sull’obiettivo della scienza giusta”, conclude, “ti aiuta con le decisioni che devi prendere mentre incontri ogni sorta di complessità”.
(rp)