Mentre i Paesi produttori di petrolio si dividono tra chi si impegna a tagliare la produzione e chi invece non ne ha alcuna intenzione, la Russia taglia il bilancio statale per il calo del prezzo del greggio che, secondo l’AIE, difficilmente tornerà a salire nel breve termine.
di Evgeny Utkin
I prezzi del petrolio sono bassi, è evidente, e sembrano rimanere tali. Molti ritengono che siano ai minimi storici e che dunque siano destinati a risalire, ma l’enigma sta nell’indovinare quando, e fino a quale prezzo. Questa situazione mette in difficoltà naturalmente i paesi produttori, dall’Arabia Saudita alla Russia, dal Qatar al Venezuela, ma anche tanti altri. Ed è per questo che proprio i maggiori produttori di petrolio, i quattro sopracitati, si sono riuniti a Doha il 17 febbraio scorso per decidere di congelare la produzione di petrolio ai livelli di gennaio 2016, cercando di stabilizzare i prezzi, e magari di farli anche salire un po’. Questo vertice potrebbe portare ad un accordo, tuttavia assai fragile. Da un lato, la Nigeria ha già detto di non avere aumentato la produzione a febbraio rispetto a gennaio, dall’altra parte il ministro del Petrolio saudita Ali Al Naimi, parlando dal Texas, dove era ospite ad un convegno, ha posto dei dubbi sul possibile taglio della produzione: “non succederà, perché non ci saranno molti Paesi in grado di tenervi fede. Anche se dicono che lo faranno, non taglieranno”. E quindi cercare un consenso tra Paesi è “una perdita di tempo”.
Quello che dovrebbe funzionare, invece, sono le leggi dell’economia. Ali Al Naimi è convinto che “i produttori su cui gravano costi troppo alti devono trovare il modo di abbassarli, ricorrere a prestiti oppure fallire. È dura, ma è il modo più efficiente di riequilibrare il mercato”.
Le posizioni di Iran e Russia
Nel frattempo il ministro del Petrolio iraniano Zangeneh, rispondendo ai quattro Paesi partecipanti al vertice di Doha, è stato chiaro: “alcuni Paesi che stanno producendo più di 10 milioni di barili al giorno hanno chiesto all’Iran di congelare la sua produzione a un milione di barili al giorno. È una barzelletta”. Quindi, aspettarsi che l’Iran fermi la sua produzione appena tolte le sanzioni, è una prospettiva poco verosimile. Il ministro dell’Energia russo Alexander Novak rimane fiducioso. Il 25 febbraio ha dichiarato che “l’OPEC e i Paesi non-OPEC possono concordare la propria posizione riguardo al non aumento della produzione di petrolio per metà marzo”.
“La riduzione della produzione sarebbe stata una mossa molto più efficace, ma è difficile pretenderla da diversi Paesi. Un altro punto di discussione è questo: a quanto fissare la produzione dalla fine di gennaio 2016?”, ha detto Novak, che è dubbioso su quale tipo di accordo si riuscirebbe a raggiungere a breve: “può essere una dichiarazione di ogni paese interessato, o un incontro con una dichiarazione congiunta, potrebbe essere un comunicato stampa, o lo stesso accordo firmato”. Come ha spiegato Novak qualche giorno prima, dopo l’incontro a quattro, a Mosca risulta molto più difficile gestire la riduzione della produzione.
“Se in Arabia Saudita basta diminuire la pressione di un pozzo, ed esce così meno petrolio, e poi aumentarla, per aumentare la produzione, in Russia si rischia, chiudendo il pozzo, di non aprirlo mai più”. Quindi in questo caso la situazione è molto più complessa, e la gestione comporta diverse difficoltà. Per il ministro russo, “i prezzi del petrolio non possono essere molto alti, non più di 50-60 dollari a barile. E noi consideriamo il prezzo a 50 dollari il più adatto per bilanciare il meccanismo domanda-offerta”.
Si tratta esattamente del prezzo che compare anche nel budget federale russo, ma che con grande probabilità bisognerà rivedere al ribasso.
Dal monito dell’AIE alle reazioni delle compagnie russe
Anche l’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE) non lascia molta speranza ai Paesi produttori. Nel suo Oil Market Report di Medio Termine si legge: “solo nel 2017 potremo finalmente vedere l’offerta e la domanda di petrolio allineate, ma le enormi scorte già accumulate agiranno come un ammortizzatore sul ritmo della ripresa del prezzo del petrolio”. E quindi, come conclusione, “ è difficile prevedere che i prezzi del petrolio possano recuperare in modo significativo nel breve termine dai bassi livelli di oggi”.
A questo punto ci si può aspettare di tutto. Igor Sechin, presidente di Rosneft, ha recentemente affermato che, poiché sul mercato petrolifero prevalgono le speculazioni, “c’è da aspettarsi che il prezzo del greggio raggiunga il ribasso record di 10 dollari a barile”.
Intanto la Russia ha annunciato un taglio del 10% della spesa pubblica, preventivando comunque un prezzo di 37 dollari a barile (come a fine dicembre). La principale banca russa, Sberbank, sta conducendo degli stress test sui suoi bilanci, ipotizzando un prezzo del petrolio a 25 dollari a barile.
Nuovo presidente invece per VneshEconomBank (VTB), dove Vladimir Dmitriev, che ricopriva questa carica da 12 anni, ha lasciato il posto a Sergey Gorkov, ex vicepresidente di Sberbank, responsabile per l’attività internazionale. Rifacendoci alle parole di Ali Al Naimi sui produttori che dovranno prendere “denaro a prestito”, dobbiamo considerare che, a causa delle sanzioni in vigore, le maggiori compagnie statali russe (da Rosneft a Gazprom) non possono trovare soldi facili sulle piazze americane ed europee. E quindi, oltre alla riduzione dei costi e all’aumento dell’efficienza, si stringono sempre più le alleanze con la Cina e con l’America Latina.
Gazprom, ad esempio, ha firmato un accordo strategico a febbraio con l’impresa statale boliviana petrolifera Ypfb (Yacimientos Petroliferos Fiscales Bolivianos). Per Alexei Miller, presidente di Gazprom: “Gazprom contribuirà a trasformare la Bolivia nel cuore energetico dell’America Latina». Un impegno che comunque non dimentica la vecchia Europa. Dopo aver fallito con South Stream, e dopo il fermo del Turkish Stream per i contrati con la Turchia, Gazprom ha ripescato il vecchio progetto Itgi Poseidon e ha firmato a Roma, con Edison e Depa, un memorandum of understanding “in relazione alle forniture di gas dalla Russia attraverso il Mar Nero, verso la Grecia e l’Italia”.
La Russia si avvia verso nuove relazioni, ma il vecchio amore per l’Europa rimane. E non sembra dipendere dal prezzo del petrolio. L’articolo è disponibile anche su abo.net
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(Fonte Abo/Oil)
(sa)