La scienza spiega perché si soffre di solitudine

Negli ultimi anni è emersa una vasta letteratura scientifica che collega il sentirsi soli a depressione, ansia, alcolismo e abuso di droghe, ma l’insieme delle ricerche non ha ancora portato ad alcuna certezza.

di Adam Priore

Molto prima che il mondo avesse mai sentito parlare di covid-19, Kay Tye ha deciso di rispondere a una domanda che ha assunto una nuova risonanza nell’era delle distanze sociali: quando le persone si sentono sole, desiderano interagire con gli altri allo stesso modo in cui una persona affamata brama il cibo? E si poteva rilevare e misurare questa “fame” nei circuiti neurali del cervello?

“La solitudine è qualcosa di universale. Se chiedessi alla gente per strada: “Sai cosa significa essere soli?” probabilmente il 99 o il 100 delle persone direbbe di sì”, spiega Tye, neuroscienziata del Salk Institute of Biological Sciences. “Sembra ragionevole sostenere che dovrebbe essere un concetto centrale nel campo delle neuroscienze. A oggi, però, nessuno ha mai trovato un modo per testarlo e localizzarlo in cellule specifiche. Questo è quello che stiamo cercando di fare”.

Negli ultimi anni, si è visto un numero crescente di lavori epidemiologici che dimostrano che la solitudine aumenta le probabilità di ammalarsi: sembra che induca il rilascio cronico di ormoni che mettono in crisi la funzione immunitaria. I cambiamenti biochimici dovuti alla solitudine possono accelerare la diffusione del cancro, le malattie cardiache e l’Alzheimer, o semplicemente indebolire la volontà di andare avanti. La capacità di misurare e rilevare questa condizione potrebbe aiutare a identificare le persone a rischio e aprire la strada a nuovi tipi di interventi. 

Nei mesi a venire, molti mettono in guardia, è probabile che vedremo l’impatto sulla salute mentale del covid-19 su scala globale. Gli psichiatri sono già preoccupati per l’aumento dei tassi di suicidio e di overdose di droga negli Stati Uniti e l’isolamento sociale, insieme all’ansia e allo stress cronico, è una delle cause probabili. “Penso che l’impatto sulla salute mentale sarà piuttosto intenso e abbastanza rapido”, sostiene Tye.

Eppure quantificare, o addirittura definire, la solitudine è una sfida difficile. Così difficile, infatti, che i neuroscienziati hanno a lungo evitato l’argomento. La solitudine, dice Tye, è intrinsecamente soggettiva. È possibile trascorrere la giornata completamente isolati, in quieta contemplazione, e sentirsi in piena forma. O sentirsi disperatamente soli anche se circondati da una folla, nel cuore di una grande città, o insieme a amici intimi e familiari. O, per fare un esempio ancora più attuale, partecipare a una chiamata su Zoom con i propri cari in un’altra città e sentirsi anche più soli di prima di entrare in contatto. 

Tye, prima di pubblicare il suo primo articolo scientifico sulla neuroscienza della solitudine nel 2016, aveva condotto una ricerca di altri articoli sull’argomento e non aveva trovato articoli che contenessero le parole “cellule”, “neuroni” o “cervello”. Anche se sulla natura della solitudine si sono interrogate alcune delle più grandi menti della filosofia, della letteratura e dell’arte per millenni, i neuroscienziati hanno a lungo presunto che alle domande su come potrebbe funzionare all’interno del cervello umano non si può rispondere con i dati elaborati dai loro laboratori. Come si può quantificare l’esperienza? Dove si iniziano a cercare nel cervello i cambiamenti prodotti da un sentimento così soggettivo?

Tye spera di cambiare la situazione costruendo un campo completamente nuovo, in cui sia possibile analizzare e comprendere come le nostre percezioni sensoriali, le esperienze precedenti, le predisposizioni genetiche e le situazioni di vita si combinano con il nostro ambiente per produrre uno stato biologico concreto e misurabile chiamato solitudine. Inoltre, vuole identificare come appare quell’esperienza apparentemente ineffabile quando viene attivata nel cervello.

Se Tye avrà successo, potrebbe permettere di identificare le persone a rischio e di intervenire in anticipo su quella che potrebbe essere una crisi di salute pubblica incombente innescata dal covid-19.

I neuroni DRN sono mostrati qui all’interno del sistema della dopamina e dei circuiti a valle. Gillian Matthews / Kay Tye / MIT

Alla ricerca dei neuroni della solitudine

Tye si è concentrata su popolazioni specifiche di neuroni nel cervello dei roditori che sembrano essere associate a un bisogno misurabile di interazione sociale, una “fame” che può essere manipolata stimolando direttamente i neuroni stessi. Per individuare questi neuroni, Tye si è basata su una tecnica che ha sviluppato mentre completava la sua specializzazione nel laboratorio dell’Università di Stanford di Karl Deisseroth.

Deisseroth è stato un pioniere dell’optogenetica – una tecnica in cui proteine geneticamente modificate e sensibili alla luce vengono impiantate nelle cellule cerebrali – che permette ai ricercatori di accendere o spegnere i singoli neuroni semplicemente illuminandoli con i cavi in fibra ottica. Sebbene la tecnica sia troppo invasiva da usare nelle persone, con cavi in fibra ottica che devono attravere il cranio per finire direttamente nel cervello, essa consente ai ricercatori di modificare i neuroni in diretta e osservare il comportamento dei roditori che si muovono liberamente.

Tye ha iniziato a utilizzare l’optogenetica nei roditori per tracciare i circuiti neurali coinvolti nelle emozioni, nella motivazione e nei comportamenti sociali. Ha scoperto che attivando un neurone e quindi identificando le altre parti del cervello che rispondevano al segnale emesso dal neurone, poteva tracciare i circuiti discreti delle cellule che lavorano insieme per svolgere funzioni specifiche. Tye ha tracciato meticolosamente le connessioni dall’amigdala, un insieme di neuroni a forma di mandorla ritenuta la sede della paura e dell’ansia sia nei roditori che negli esseri umani.

Gli scienziati sapevano da tempo che la stimolazione dell’amigdala nel suo complesso poteva far tremare un animale per la paura. Ma seguendo il labirinto di connessioni dentro e fuori le diverse parti dell’amigdala, Tye è stata in grado di dimostrare che il “circuito della paura” del cervello era in grado di impregnare gli stimoli sensoriali con molte più sfumature di quanto si ritenesse in precedenza. Inoltre, sembrava intervenire anche sul coraggio.

Quando Tye ha aperto il suo laboratorio al Picower Institute for Learning and Memory del MIT nel 2012, stava seguendo le connessioni neurali dell’amigdala con la corteccia prefrontale, nota come la componente direttiva del cervello, e l’ippocampo, la sede della memoria episodica. L’obiettivo era costruire mappe dei circuiti cerebrali su cui facciamo affidamento per comprendere il mondo, dare un significato alla nostra esperienza momento per momento e rispondere alle diverse situazioni.

Tutto è iniziato per caso quando Tye si è imbattuta nel lavoro di Gillian Matthews. Come studentessa laureata all’Imperial College di Londra, Matthews aveva fatto una scoperta inaspettata quando aveva separato i topi l’uno dall’altro nei suoi esperimenti. L’isolamento sociale – il fatto stesso di essere soli – sembrava aver cambiato le cellule cerebrali chiamate neuroni DRN in modi che implicavano che potessero svolgere un ruolo nella solitudine.

Tye ebbe un flash immediato. “Oh, mioDio, è incredibile!” ricorda di aver pensato. Il fatto che i segni dell’isolamento sociale potessero essere ricondotti a una parte specifica del cervello aveva perfettamente senso per lei. “Ma come trovare la zona interessata?” Tye si rese conto che se lei e Matthews avessero potuto costruire una mappa di un circuito di solitudine, avrebbero potuto rispondere in laboratorio proprio al tipo di domande che voleva esplorare: in che modo il cervello attribuisce un significato all’isolamento sociale? Come e quando l’esperienza oggettiva di non stare con le persone, in altre parole, diventa l’esperienza soggettiva della solitudine? Il primo passo è stato comprendere meglio il ruolo svolto dai neuroni DRN in questo stato mentale. 

Una delle prime cose che Tye e Matthews notarono fu che quando stimolavano questi neuroni, gli animali erano più propensi a cercare l’interazione sociale con altri topi. In un esperimento hanno dimostrato che gli animali, quando veniva data loro la scelta, evitavano attivamente le aree delle loro gabbie che attivavano determinati neuroni. Questa osservazione ha suggerito che la loro ricerca di interazione sociale fosse guidata più dal desiderio di evitare il dolore che di ottenere piacere, un’esperienza che imitava l’esperienza “avversiva” della solitudine.

I neuroni DRN sono mostrati qui all’interno del sistema della dopamina e dei circuiti a valle. Gillian Matthews / Kay Tye / MIT

In un esperimento di follow-up, i ricercatori hanno messo alcuni dei topi in isolamento per 24 ore e poi li hanno reintrodotti nei gruppi sociali. Come sembrerebbe naturale, gli animali hanno cercato e trascorso più tempo a interagire con altri animali, come se avessero accusato la “solitudine”. Quindi Tye e Matthews hanno isolato di nuovo gli stessi topi, questa volta usando l’optogenetica per silenziare i neuroni DRN dopo il periodo in isolamento. Questa volta, gli animali hanno perso il desiderio di contatto sociale. Era come se l’isolamento sociale non fosse stato registrato nei loro cervelli.

Gli scienziati sanno da tempo che il cervello ospita l’equivalente biologico dell’indicatore del carburante di un’auto, un complesso sistema omeostatico che consente alla nostra materia grigia di monitorare lo stato dei nostri bisogni biologici di base, come quelli per il cibo, l’acqua e il sonno. Lo scopo del sistema è quello di guidarci verso comportamenti volti a mantenere o ripristinare il nostro naturale stato di equilibrio. 

Tye e Matthews sembravano aver trovato l’equivalente di un regolatore omeostatico per i bisogni fondamentali di contatto sociale dei roditori. La domanda successiva: cosa significano questi risultati per le persone?

Il sorriso è come l’acqua per gli assetati

Per rispondere a questa domanda, Tye sta lavorando con i ricercatori del laboratorio di Rebecca Saxe, professoressa di neuroscienze cognitive al MIT, specializzata nello studio della cognizione sociale e delle emozioni umane. Gli esperimenti sull’uomo sono molto più difficili da progettare perché la chirurgia cerebrale richiesta per l’optogenetica non è un’opzione semplice da applicare.

Ma è possibile esporre persone sole a immagini di persone amichevoli che offrono spunti sociali, come un sorriso, e quindi monitorare e registrare i cambiamenti nel flusso sanguigno in diverse parti del cervello utilizzando l’imaging fMRI. E, grazie a precedenti esperimenti, gli scienziati hanno una buona idea di dove cercare nel cervello, un’area analoga a quella che Matthews e Tye hanno studiato sui topi.

L’anno scorso, Livia Tomova, una postdoc che ha supervisionato la ricerca nel laboratorio di Saxe, ha reclutato 40 volontari che hanno dichiarato di intrattenre numerosi rapporti sociali e di provare livelli molto bassi di solitudine. Tomova ha isolato i suoi soggetti in una stanza del laboratorio e ha proibito qualsiasi contatto umano per 10 ore. Per fare un confronto, Tomova ha chiesto agli stessi partecipanti di tornare per una seconda sessione di 10 ore che prevedeva molte interazioni sociali, ma senza cibo.

Alla fine di ogni sessione, ai soggetti è stato chiesto di salire sullo scanner fMRI e sono stati esposti a immagini diverse: alcune mostravano persone che offrivano segnali sociali non verbali e altre contenevano immagini di cibo. A differenza di Tye e Matthews, Tomova non è stata in grado di individuare i singoli neuroni, ma è stata in grado di monitorare i cambiamenti nel flusso sanguigno all’interno di aree più ampie della scansione, note come voxel, che mostrano l’attività mutevole di popolazioni discrete di diverse migliaia di neuroni. Tomova si è concentrata su aree del mesencefalo note per essere ricche di neuroni associati alla produzione e all’elaborazione del neurotrasmettitore dopamina.

Queste aree sono già state collegate in altri esperimenti alla sensazione di “desiderare” qualcosa. In genere si illuminano in risposta alle immagini del cibo quando una persona ha fame, o a immagini legate alla droga nelle persone con dipendenza. Si è verificato lo stesso comportamento in persone sole quando vengono mostrate loro immagini di un sorriso? 

La risposta è stata chiara: dopo l’isolamento sociale, le scansioni cerebrali dei soggetti mostravano molta più attività nel mesencefalo quando venivano mostrate le immagini dei segnali considerati sociali. Quando i soggetti erano affamati, ma non avevano passato un periodo in isolamento, mostravano una reazione altrettanto robusta ai segnali alimentari, ma non a quelli sociali. “Che si tratti della spinta al contatto sociale o della spinta ad altre cose come il cibo, il tipo di rappresentazione sembra essere molto simile”, afferma Tomova. 

Tomova e Saxe hanno usato l’fRMI per misurare le risposte cerebrali.

Gli esperimenti legati alla pandemia

Capire come si produce la “fame” di contatto sociale nel cervello potrebbe consentire una comprensione più profonda del ruolo che l’isolamento sociale gioca in alcune malattie. La misura oggettiva della solitudine nel cervello potrebbe fornire una certa chiarezza sulla connessione tra depressione e solitudine, per esempio. E’ la depressione che causa solitudine o la solitudine che provoca la depressione?  Una forma di intervento sociale applicato al momento giusto potrebbe aiutare a combattere la depressione?

Secondo alcune ricerche, gli studi sui circuiti della solitudine nel cervello potrebbero anche far luce sulla dipendenza, a cui gli animali isolati sono più inclini. L’evidenza appare particolarmente accentuata negli animali giovani, che sembrano essere ancora più sensibili agli effetti dell’isolamento sociale rispetto a quelli più grandi. Gli esseri umani di età compresa tra i 16 e i 24 anni sono i più propensi a riferire di sentirsi soli, e questa è anche l’età in cui molti disturbi di salute mentale iniziano a manifestarsi per la prima volta. C’è una connessione?

Ma la necessità attuale più ovvia potrebbe essere in risposta all’isolamento sociale provocato dalla pandemia di covid. Alcuni sondaggi su Internet non riportano alcun aumento complessivo della solitudine dall’inizio della pandemia, ma la stessa affermazione è valida per le persone a maggior rischio di problemi di salute mentale? Quando sono isolate, a che punto inizia a essere a rischio il loro benessere psicofisico? E quali tipi di interventi potrebbero proteggerli da quel pericolo? Una volta misurata la solitudine, possiamo iniziare a scoprirla, rendendo molto più facile progettare interventi mirati.

“Una domanda vitale per la ricerca futura è quali tipi di interazione sociale positiva sono sufficienti per soddisfare questo bisogno di base e quindi eliminare la risposta neurale al desiderio”, hanno scritto Tomova e Tye in un’anteprima del loro prossimo articolo, pubblicato alla fine di marzo. La loro conclusione è che la pandemia “ha sottolineato la necessità di una migliore comprensione dei bisogni sociali umani e del meccanismo neurale alla base della motivazione sociale. L’attuale studio fornisce una prima risposta in questa direzione”.

Immagine: Kay Tye, neuroscienziata del Salk Institute of Biological Sciences, sta provando a individuare e misurare la solitudine nei circuiti neuronali del cervello. Jenny Siegwart

(rp)

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