La ricetta anticrisi: valorizzare il merito

In quanto capacità intellettuale e morale che travalica la dimensione individuale e personale.

Intervista con Marc Lazar

di Massimiliano Cannata 

“Il futuro passa dall’innovazione, dalla formazione, dall’eccellenza. L’ignoranza ha un costo troppo alto che non possiamo più permetterci di pagare, soprattutto in tempo di crisi. La novità di questo Rapporto sulla classe dirigente, che non ha omologhi in Francia, né in altri paesi europei sta nel fatto che non analizza il merito come qualità astratta, ma come virtù pubblica, in quanto capacità intellettuale e morale che travalica la dimensione individuale e personale. Si tratta di un salto di visione importante, perchè può far saltare logiche superate e di retroguardia e dare impulso alla crescita della società della conoscenza, tirandoci fuori dalle secche della recessione”.

Marc Lazar storico e sociologo della politica, docente del Centre d’histoire de Sciences Po di Parigi e da quest’anno anche della LUISS di Roma, osserva in questa intervista il contesto della crisi da una prospettiva internazionale, mettendo a confronto il sistema americano con la “vecchia Europa”. La sua riflessione prende le mosse dalla recente pubblicazione del terzo Rapporto Genererare Classe Dirigente realizzato dall’Ateneo di Confindustria e dall’Associazione Management Club.

Professor Lazar, il tema della crisi continua a essere al centro del dibattito internazionale. La ricerca (ben 11 capitoli per 516 pagine) denuncia un deficit culturale molto preciso: la nostra classe dirigente presenta una storica incapacità di valorizzar il merito e di premiare la competenza. Altrove la crisi ha innescato un processo di reazione. Si sta cercando di reagire puntando sulla ricerca e l’innovation. L’America di Obama, lo riferisce l’ultimo numero di “Technoloy Review”, ha annunciato un piano di finanziamenti senza precedenti: 150 miliardi di dollari, nell’arco dei prossimi dieci anni, saranno destinati allo sviluppo tecnologico delle energie pulite. Dopo il Programma Apollo è il più grande investimento della storia USA. In concreto accade che dalle nostri parti siamo ancora impegnati a “neutralizzare” il sistema della raccomandazioni, mentre il tema dell’innovazione ci lascia molto tiepidi. Qual è il suo parere ?

L’agenda di Lisbona aveva fissato per L’Europa la priorità dell’innovazione, come chiave imprescindibile dello sviluppo nel contesto della società della conoscenza. Che senza formazione d’eccellenza e investimento sulle competenze dell’Information Communication Society non ci potesse essere futuro era chiaro anche da questo lato dell’Oceano. I livelli di competizione crescente, la forza prorompente di paesi come la Cina, l’India, che ormai sono i primi produttori di beni ad alto potenziale di conoscenza e innovazione non lasciano alternative. Malgrado questo, il raffronto con gli USA è per noi penalizzante. L’Italia e la Francia, faccio l’esempio di realtà che mi sono familiari, sono rimaste indietro sul fronte delicatissimo della ricerca e sviluppo. In Italia, in particolare, il ritardo ha una ragione storica. Il vostro modello di sviluppo si è basato su uno stato debole, uno stato leggero anche se presente, e su una società civile forte. Di fronte alle sfide di oggi la reazione della società civile non può bastare. Occorre che le autorità pubbliche siano sensibili e pronte nel promuovere politiche che facilitino le dinamiche del cambiamento e dell’innovazione, proprio come sta facendo Obama.

Una “rete” di università di eccellenza per l’Europa

Di “vecchio modello italiano” ha diffusamente parlato nel suo ultimo saggio edito da Rizzoli, L’Italia sul filo del rasoio. Le chiedo di mantenere il parallelismo tra contesti sociali e politici diversi. Il paradigma delle Grandes Ecoles che hanno formato generazioni di dirigenti pubblici in Francia può essere replicato anche in Italia?

Nel mondo di oggi c’è bisogno di un bilanciamento tra stato e società civile. Non di un ritorno allo statalismo, ma semplicemente di uno stato efficiente che presuppone una capacità critica da parte dei cittadini e più in generali di tutti gli attori economici. In Italia le riforme di Sabino Cassese e Franco Bassanini, nel campo dell’amministrazione pubblica, sono state studiate anche all’estero, ma da voi spesso trascurate. Lo slancio riformista contenuto nell’architettura di questi progetti andrebbe al contrario rilanciato e tradotto rispetto alle esigenze che si fanno strada. Il sistema delle Grandes Ecoles, cui lei faceva riferimento, funziona anche oggi, anche se lo sforzo oggi è concentrato sulla necessità di rendere queste strutture più permeabili, rispetto a un paradigma di formazione, che va costruito sull’internazionalizzazione e sulla centralità dell’Europa.

La famosa Ecoles National d’Administration (ENA) esprimeva in Francia un modello troppo chiuso in se stesso. Anche l’amministrazione pubblica deve aprirsi al mondo globale. Lo studente dell’ENA di domani non dovrà essere fiero di essere francese, convincendosi di possedere la verità. Per questo suggerisco: cari docenti, solleviamo più dubbi e meno certezze nella testa degli allievi che si apprestano a lavorare in un mondo globale. Se vogliamo essere innovativi dobbiamo esserlo prima di tutto sul piano dell’offerta formativa. L’Europa deve creare una rete di università di eccellenza, su cui far convergere il fuoco di intelligenze dalla Cina, dall’India, dal Brasile. Nei campus americani la forza risiede nel confronto e nella mescolanza, non vedo perché L’Europa, che deve ritrovare fiducia e un preciso ruolo negli equilibri geopolitici, non possa costituire un riferimento sul terreno della ricerca e della sperimentazione di modelli di convivenza sociale avanzati.

Quali competenze bisognerà rafforzare per dare alimento a un sistema industriale knwoledge intensive?

La società della conoscenza richiede un corredo sfaccettato di competenze. Il merito deve costruirsi sulle conoscenze, sulla capacità di lavorare in squadra, non è solo erudizione. Un buon formatore, un insegnante, devono saper rispettare i processi di apprendimento di ciascuno, i ritmi, le attitudini. Oltre alla padronanza della scienza e della tecnologia, non può mancare una solida base umanistica per entrare nei meccanismi dell’impresa-rete. Molti manager denunciano un deficit nelle loro organizzazioni che mancano spesso di quelle competenze generali che servono ad attraversare più contesti, a leggere in modo dinamico il flusso della complessità e la domanda mutevole del mercato. Le stesse business schools hanno fiutato questa difficoltà e stanno modificando il protocollo del loro insegnamento. Tornano materie come la filosofia, la sociologia, la retorica. Narrare storie è utilissimo perché la storia è manifestazione di identità, dà all’azienda uno strumento attraverso cui presentarsi a una clientela sempre più multietnica. Altro elemento: la creatività. Un fronte su cui occorre investire. è un monito che vale per la Francia, per la Germania, per l’Italia, un po’ meno per realtà come gli Stai Uniti dove la spinta all’innovation è entrata nell’habitus mentale dei giovani e, non dimentichiamolo, dei docenti.

Il costo del “non merito”

Il costo del non merito è certo il dato più eclatante emerso dal Rapporto LUISS/AMC. La perdita incide sul PIL per una percentuale compresa tra il 3 per cento e il 7,5 per cento, un valore stimabile tra i 63 e 157 miliardi di euro. In tempi difficili è certo una cifra enorme. Qual è il suo giudizio?

Oltre al costo del non merito colpisce il dato che riguarda lo scoraggiamento dei giovani, che hanno difficoltà a crescere nei posti di responsabilità, cui si sommano i trend di fuga dei cervelli. Da voi si sta consumando non tanto uno scontro di civiltà, come paventato da Samuel Huntington. Preme sul sistema-paese il conflitto tra le generazioni, cui si sovrappone un preoccupante calo demografico. Attrarre i talenti sarà, piuttosto, la strategia che manager privati e pubblici dovranno adottare. Il tema dell’immigrazione in Italia ha assunto una valenza solo negativa. Si dimentica che la diversità plurale, la multietnicità sono valori anche per il business dell’azienda digitalizzata e senza confini che dominerà l’era del post capitalismo. Un manager italiano che conosce l’arabo sarà un vantaggio per comunicare con una certa area del mondo. Il genius loci dell’imprenditoria italiana comincerà a sentire il bisogno di mescolarsi con la diversità del mondo globale. Da questo mix si potranno generare processi di innovazione dirompente e imprevedibile.

Le élites multietniche

Si lavora per far crescere una nuova élite in una fase storica in cui la società civile manifesta un forte risentimento nei confronti di chi incarna il potere. Come si fa a sanare questa contraddizione?

Che in Italia l’interesse per questo tema sia alto non deve stupirci: è il paese di Mosca e di Pareto, dove la centralità della dialettica élite-popolo ha radici molto remote nel tempo. L’aspetto cruciale cui assistiamo, in Inghilterra, in Francia, riguarda il riesplodere della violenza. La gente critica in particolare i grandi manager, responsabili di non avere saputo anticipare la crisi e di non aver detto la verità. La classe dirigente di domani dovrà avere consapevolezza di una crescente fragilità, saper rendere conto del proprio operato e perseguire la verità e la trasparenza. Lo sosteneva Toqueville: in una società che esprime una tensione verso l’uguaglianza, dobbiamo saper differenziare e allargare il reclutamento della dirigenza. L’apporto delle donne prima di tutto, degli strati considerati più deboli, ma spesso più ricchi di idee, della componente multietnica, secondo una logica inclusiva cui si stanno aprendo, come dicevo prima, le Grandes Ecoles francesi, sarà un valore indiscutibile per formare quelle élites che potranno reggere alla prova del mondo globale. Gli emigrati ormai sono entrati nel tessuto italiano, bisogna perciò trovare il modo di attrarre questa gente, non di respingerla. Sta crescendo una governance di vertice che ha un carattere multietnico, è una ulteriore risorsa che non va sprecata. Sarkozy ha lanciato un messaggio alla società civile, inserendo nella squadra di governo alcuni ministri che rappresentano il mondo dell’immigrazione e della periferia. Può essere un primo passo.

Il declino, la crescita zero, devono farci assumere una sfiducia nei confronti del fenomeno della globalizzazione?

Siamo in un contesto in cui è svanita l’euforia da new economy. Nel contempo è da scongiurare il riflesso classico del ripiegamento, della chiusura. La crisi apre una faglia, uno spazio di significato e di intervento in cui l’Italia e l’Europa hanno una carta da giocare. Il futuro è nella società delle conoscenze, uso il plurale non a caso. Italia e Francia, ma tutto il vecchio Continente credo che su questo sentiero, hanno molto cammino da fare. La società civile vuole crescere in un mondo più onesto, in cui l’etica si possa conciliare con il business e il sacrifico, applicato al lavoro, sia finalmente premiato. Un mondo in cui i giovani siano in prima linea, impegnati a superare questa drammatica crisi e a costruire, mattone per mattone, la classe dirigente del futuro.

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