La mano che crea il mondo

Innovazione e bellezza italiana si confrontano con la Silicon Valley, lasciando intravedere le nuove frontiere dell’artigianato.

di Andrea Granelli

Origami di Brian Chan, realizzato con un unico foglio di carta non tagliato, riprendendo il tema “Mens et Manus” del logo del MIT, in cui Chan ha studiato.

La “bottega” artigiana è da sempre un luogo dell’innovazione, dove si creano e si migliorano gli utensili, dove si scelgono e si sperimentano nuovi materiali, dove si applica l’ingegno della riparazione, che Richard Sennett considera una vera e propria “capacità inventariale”, spesso più sofisticata di quella necessaria alla semplice realizzazione dell’oggetto, poiché attinge a più tecniche e sceglie, di volta in volta, quella o quelle più opportune. La bottega artigiana ha sempre messo al centro lo scambio dei saperi , anche quelli taciti, non facilmente codificabili, e lo scambio è soprattutto un rapporto di testimonianza, che dipende anche dalla fiducia e richiede un equilibrio tra libertà e disciplina. Gilles Deleuze ha osservato a questo proposito che maestro non è chi dice “fai così”, ma chi dice “fai con me”.

Per questi motivi Claude Lévi-Strauss ha affermato che l’artigiano è “il principe degli innovatori”. Il mondo dei makers – dei creatori digitali – non è dunque altro che una nuova puntata di un programma iniziatosi molti secoli orsono. Inoltre, la cultura artigiana ha saputo terziarizzare i suoi manufatti fornendo, in sostanza, dei veri e propri servizi di personalizzazione, di riparazione, di rigenerazione.

Le nuove tecnologie sono sempre state per l’artigiano una grande opportunità; un gruppo di nuove tecnologie sembra particolarmente adatto alla cultura artigiana, alle aziende di piccole dimensioni che vogliono modernizzarsi e innovare, ai professionisti che vogliono diventare manifatturieri. Queste tecnologie sfatano uno dei miti della cultura industriale: che l’innovazione – l’occuparsi di nuove tecnologie – è solo dominio delle grandi aziende, ampiamente dotate sia di capitali, sia di risorse umane pregiate. Ma la realtà ci dice che sempre più spesso avviene il contrario.

L’innovazione – soprattutto quella radicale, che cambia le regole del gioco, che fa esplodere i ricavi – nasce in piccole realtà, più libere e non viziate dai vincoli. Vincoli non solo burocratici, ma anche culturali – “cavallo che vince non si cambia”, si usa dire – che determinano la perniciosa sindrome del Not Invented Here, che affligge sempre più spesso chi raggiunge il successo. Da qui l’interesse al mondo delle start-up e del venture capital.

Essere piccoli e liberare la testa

Talvolta le grandi aziende devono inventarsi modalità per ricreare le condizioni di “essere piccoli”. E allora IBM crea la PC company per evitare che il nascente personal computer venga soffocato dalla cultura dei mainframe. E allora molte aziende costruiscono fondi di corporate venture capital per finanziare dall’interno la nascita di aziende esterne e solo parzialmente governate. E allora vengono lanciati, da aziende come 3M ( la prima), Google, Apple (il più recente è il suo Blue Sky), dei programmi per sviluppare l’autoimprenditorialità, per consentire cioè (anzi spingere) i dipendenti a usare parte del proprio tempo lavorativo per sviluppare progetti imprenditoriali che seguano le loro passioni e intuizioni.

Oppure – scegliendo anche percorsi anomali (spesso non voluti) – creano le condizioni per “liberare la testa”. In un discorso di Steve Jobs tanto citato quanto poco letto – quello del 12 giugno 2005 per la consegna dei diplomi all’Università di Stanford (ridotto allo slogan facilmente digeribile “Stay Hungry, Stay Foolish”) – vi è un passaggio illuminante: “Il fatto di essere stato licenziato da Apple è stata la migliore cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita”.

Ma quali sono queste tecnologie ? Parliamo delle nuove frontiere del digitale, dei nuovi materiali, della sensoristica immersa negli oggetti e, da ultimo, dei nuovi processi produttivi (stampanti 3D; FabLab, hardware open source e via dicendo).

Finalmente tecnologie di produzione che non richiedono né dimensioni aziendale significative né grandi capitali e soprattutto che non sono al servizio esclusivo delle economie di scala (che alla fine ricercano sempre l’eliminazione dei posti di lavoro), ma consentono di iperpersonalizzare, di creare prodotti unici (e sempre più spesso di riparare e rigenerare), unendo gusto e tradizione con l’innovazione più spinta.

Queste tecnologie ridanno dignità e centralità alla manualità – anche se con utensili del XXI secolo – confortando l’intuizione di Aristotele che la mano è l'”organo degli organi”. Oltretutto, come ci ha fatto notare il filosofo Carlo Sini, “La mano, liberata dalla deambulazione, ispeziona il mondo”. E ciò non è mai stato vero come nell’epoca delle tastiere, che hanno creato il mondo del software e reso possibile la navigazione di mondi virtuali.

Il modo giusto

Ma, come in tutte le cose, bisogna usare le tecnologie nel modo giusto. Le stampanti 3D permetteranno certamente di creare oggetti altamente personalizzati (e quindi adattati al contesto d’uso) e creati solo quando necessari (on demand) senza essere necessariamente immagazzinati prima dell’uso.

Ma il tantra dei makers – “Everybody can design & produce its own product” – può anche generare enormi inefficienze produttive (pensiamo al consumo energetico) e creare un vero e proprio object overflow (con impatti ambientali non trascurabili). è una storia già vista con le informazioni. Internet prometteva “l’ufficio senza carta” e poi, con l’arrivo delle stampanti personali, il consumo della carta è esploso. Anche la produzione (pubblica e individuale) delle informazioni è fuori controllo, tanto da incominciare a farci guardare con sospetto i big data e da spingere lo storico del design Ezio Manzini a parlare addirittura di rifiuti semiotici e di una nuova forma di inquinamento informativo.

Queste tecnologie – la produzione on demand, la sensoristica e la disponibilità di modelli digitali di moltissimi oggetti – aprono a quella che è stata chiamata la quarta rivoluzione industriale, che succede a quelle originate, rispettivamente, dal motore a vapore, dal nastro trasportatore e dalla prima fase dei sistemi di automazione della produzione.

La sfida è dunque: come il mondo artigiano e delle PMI, tradizionalmente poco “educati” alla cultura digitale, potranno cogliere queste grandi opportunità ? Come potranno queste straordinarie innovazione trasformare (in meglio) il nostro modo di produrre – e cioè il made in Italy – senza snaturarlo, anzi adattandolo allo spirito del tempo?

La Fondazione Giannino Bassetti – la cui missione è dare impulso alla responsabilità nell’innovazione – ha organizzato l’iniziativa Making in Italy – Making in USA: Artisanship, Technology and Design. Innovating with Beauty, tenutasi dall’11 al 24 giugno a San Francisco nell’ambito dell’Anno della Cultura Italiana negli Stati Uniti. Un progetto nato dalla collaborazione tra questa Fondazione, il Consolato Generale d’Italia e l’Istituto di Cultura Italiana a San Francisco: incontri, eventi e dibattiti tra artigiani, makers e intellettuali italiani e statunitensi, cultori del bello ed esperti di nuove tecnologie, uniti nella riflessione sull’economia della bellezza.

Le iniziative comprendevano un calendario di esposizioni, un symposium e alcuni workshop di approfondimento. Tra i vari eventi, ricordiamo il The New Italian Design, una panoramica sul design italiano contemporaneo proposto dal Triennale Design Museum, oppure l’esposizione The new Shape of Artisans’ Identities promossa da Confartigianato e dedicata interamente al nuovo profilo produttivo e valoriale dell’imprenditore artigiano.

Da questo confronto possiamo dire che il modello italiano sembra cogliere con pienezza questa sfida; la sua capacità di unire una grande qualità (scelta dei materiali, qualità produttiva e via dicendo) con l’essere “dalla parte del cliente”, interpretandone desideri e piaceri e quindi non solo prestazioni tecniche, ma anche componenti simboliche. Sembra cioè essere una ottima sintesi fra le due dimensioni – high-tech e high-touch – proposte molti anni or sono da Naisbitt, ma tutt’ora valide per descrivere i due estremi di un prodotto. Il fenomeno dei makers visto solo dal punto di vista tecnico rischia di produrre una polarizzazione produttiva che vede a un estremo le ragioni (e i narcisismi) di chi produce – il maker – e dall’altra l’utopia dell’autoproduzione come risposta ai problemi della contemporaneità. Ma, come sempre, in media stat virtus ed è proprio questa caratteristica del modello italiano – di comprendere in profondità le ragioni sia dei produttori, sia dei consumatori – che vede L’Italia come particolarmente attrezzata per interpretare correttamente questa nuova sfida produttiva.

Intervista con Piero Bassetti

Quale era la finalità di questa missione?

Favorire, in un luogo simbolico quale Silicon Valley, l’incontro tra due “avanguardie”: da un lato quella tecnologica californiana, che prima ha generato il Web e oggi usa la rete per rigenerare la manifattura; dall’altro lato, l’avanguardia del “saper fare con bellezza”, intenta a reinventare una tradizione secolare testimoniata dalla bottega leonardesca, dai maestri del design, dalle innovazioni politecniche.

Il terreno di confronto è definito dalla trasformazione produttiva (una nuova rivoluzione industriale, secondo “The Economist”) che, nei paesi a capitalismo maturo, si lascia alle spalle tanto il taylorismo dei Tempi moderni di Chaplin, quanto le più fresche illusioni di uno sviluppo prevalentemente immateriale. Stampanti 3D e laser cutter sono usciti dai garage e divenuti fatto produttivo: è la prima trasformazione strutturale – relativa ai modi di fare cose – nell’epoca del Web e del glocal.

Come è stato recepito l’approccio italiano all’innovazione artigiana? Quali i nostri punti di forza, e specificità, anche a valle del confronto del mondo dei makers americani?

Può apparire una risposta provocatoria, ma direi che la nostra “missione” è stata un successo anzitutto perché ha rimarcato enormi distanze di approccio. Per esempio, durante un workshop ospitato da Singularity University (che ha sede in una base NASA) si sono confrontati, tra gli altri, Jonathan Knowles, che si occupa di design in Autodesk e Apple, e Rodrigo Rodriquez, vicepresidente di Flos. Knowles ha espresso entusiasmo per l’opportunità di “espandere” il potenziale della storia attraverso la tecnologia; mentre Rodriquez ha provato a dimostrare che espandendo sensibilità, gusto e armonia, si potenzia la capacità umana di connettere testa, cuore e mani: un valore che noi associamo all’artigianato e incorporiamo nell’accezione europea di design.

Dobbiamo tenere presente che, pur nelle differenze, sono approcci comunicanti. Basti pensare a due fatti: il primo è il successo mondiale di Arduino, che è stato creato a Ivrea, ma spopola tra i makers americani; il secondo è l’avanzata, negli Stati Uniti, della parola artisanship, piuttosto della tradizionale craftsmanship, per definire l’artigianato. Tema non trascurabile per noi di Fondazione Bassetti, che definiamo poises intensive l’innovazione legata a design e artigianato, perché poietico è ciò che potenzia l’uomo. Il bello è una responsabilità collettiva.

Volendo tirare le somme?

Siamo a un turning point, del quale la produzione additiva e le stampanti 3D sono solo la punta dell’iceberg. Cambia la relazione tra lavoro tecnologico e persona, intesa nelle sue dimensioni etiche e imprenditoriali. Di fronte alla sollecitazione dei makers, mi sento di affermare che oggi anche la bellezza sta divenendo sostanza dell’innovazione. Non puoi prescinderne anche se sei capace di produrre qualunque oggetto nel tuo garage, finanziarlo col crowdfunding e immetterlo in una value chain sconfinata tramite Internet. Non puoi rinunciare perché è divenuta essa stessa valore, molto più di quanto non avvenisse nel 1960.

Intervento di Paolo Manfredi, Confartigianato

La prima, umanissima, reazione a una visita alla Silicon Valley è d’invidia verso una realtà economica in piena salute, ricca di entusiasmo e fanciullesca voglia di sperimentare.

La seconda è di curiosità verso un sistema che si evolve e cambia continuamente e sta passando dall’eccellenza tecnologica all’eccellenza imprenditoriale nella tecnologia: non si corteggiano bravi scienziati, ma imprenditori dinamici ed entusiasti, che daranno lavoro a bravi scienziati e tecnologi in tutto il mondo.

La terza è di cauta preoccupazione: la Silicon Valley ora è attivamente in cerca delle nostre risorse più dinamiche e vocate a creare valore, offrendo loro condizioni di contesto per bene operare, che sono semplicemente introvabili altrove. La Silicon Valley oggi è per gli startuppers quello che era Parigi a fine Ottocento per i pittori impressionisti: brain gain per loro, brain drain per noi.

Volendo derivare indicazioni pratiche da questi appunti di viaggio che superino le polarità del non fare (da “diventiamo anche noi la Silicon Valley” a “si tratta di un modello irraggiungibile”), quali sono le indicazioni più rilevanti che emergono?

Se mai ha avuto senso il modello frattale (cercare di riprodurre in piccola scala tanti modelli di Qualcosa Valley dove tutti fanno tutto), non ha definitivamente più senso: anche nel luogo della geometrica potenza della tecnologia e dell’innovazione si stanno selezionando quegli elementi della catena del valore che ha senso tenere internamente e fare crescere (l’istruzione superiore e la creazione d’impresa) e quelli che ha più senso esternalizzare (la formazione di base, lo sviluppo). Dove ci si dividono risorse limitate, ha vieppiù senso concentrarle dove queste possano rendere al meglio.

I tecnologi italiani sono molto apprezzati per la qualità della nostra istruzione di base, innanzitutto in termini di flessibilità e capacità di pensiero laterale. Al contempo, il costo del lavoro in Silicon Valley è ormai tale da non consentire più di tenere in loco la fase di sviluppo, perché i programmatori costano troppo. In un’ottica di divisione globale del lavoro, se la Silicon Valley sta diventando un enorme acceleratore d’impresa, logica vorrebbe che una media potenza tecnologica come la nostra si adoperasse per accrescere la pipeline di risorse qualificate da accelerare in California, offrendo poi le condizioni ideali per accogliere qui le funzioni di sviluppo. Una simile soluzione potrà non piacere agli estensori dell’Agenda digitale e delle cervellotiche e inefficaci misure sulle startup ivi contenute, ma creerebbe quei risultati di cui abbiamo terribilmente bisogno.

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