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Malgrado i molti dubbi sulle reali potenzialità di questa tecnologia, non sembra una posizione lungimirante escluderla dalla cassetta degli attrezzi a disposizione per contrastare il cambiamento climatico

di Holly Jean Buck

Il mese scorso, ho partecipato all’incontro dell’American Geophysical Union a New Orleans, dove 26.000 geoscienziati si sono riuniti di persona e virtualmente per condividere le ultime novità nel settore delle scienze della Terra e del clima. Almeno un centinaio di quelle persone erano lì per parlare di ricerca sulla geoingegneria solare, vale a dire l’idea di riflettere una frazione della luce solare in entrata per raffreddare un pianeta in fase di riscaldamento.

Contrariamente alla credenza popolare, la ricerca su questo argomento è anemica, e sono diversi anni che è bloccata. Durante le sessioni, comunque, gli scienziati del National Center for Atmospheric Research sulla mesa a sud di Boulder, in Colorado, hanno condiviso i loro scenari di modellazione aggiornati; una donna che avevo visto a una riunione dell’AGU cinque anni fa, ha raccontato di nuovo la sua idea di preservare il ghiaccio artico con microsfere riflettenti di vetro cavo. Nel frattempo, le persone si affollavano nei corridoi, nonostante la pandemia, per accedere a un incontro sull’apocalisse dello scioglimento dei ghiacciai.

Questo è il contesto dell’International Solar Geoengineering Non-Use Agreement, l’accordo internazionale di non utilizzo della geoingegneria solare, proposto la scorsa settimana da un gruppo di oltre 60 studiosi, secondi i quali la tecnologia non può essere governata in modo equo e rappresenta “un rischio inaccettabile“.

A prima vista sembra una buona idea. In effetti, dovremmo avere una moratoria sull’uso della geoingegneria solare, poiché il concetto è ancora in uno stadio teorico. Inoltre, non è neanche un’idea nuova: ricercatori di spicco hanno proposto una moratoria simile quasi 10 anni fa su “Science”L’accordo di non utilizzo prevede anche di vietare la brevettazione delle tecnologie

Il problema della proposta è che non riesce a distinguere adeguatamente la ricerca dallo sviluppo o dalla diffusione. È un tentativo appena velato (o forse per niente velato) di soffocare la ricerca sull’argomento. L’anno scorso, gli autori hanno scritto una lettera a “Nature”, per contestare un editoriale dal titolo Give Research on solar engineering a chance. La loro posizione è molto chiara: “Chiediamo ai nostri governi e alle agenzie di finanziamento di fermare la normalizzazione della ricerca sulle tecnologie di geoingegneria solare planetaria”. 

L’accordo di non utilizzo non vieta rigorosamente la “legittima ricerca sul clima”. Piuttosto, chiede un impegno a vietare gli esperimenti all’aperto e impedire alle agenzie di finanziamento nazionali di “sostenere lo sviluppo” delle tecnologie di geoingegneria solare, sia a livello nazionale che attraverso istituzioni internazionali. La proposta di non utilizzo afferma inoltre che i paesi dovrebbero “opporsi alla futura istituzionalizzazione della geoingegneria solare planetaria come opzione politica nelle istituzioni internazionali pertinenti, comprese le valutazioni dell’ Intergovernmental Panel on Climate Change”. 

Qual è il vero obiettivo? Non si sta cercando di costruire conoscenza, ma di mettere in cattiva luce la ricerca. L’argomentata tesi di questi autori delinea una visione in cui le fondazioni filantropiche esprimono il loro sostegno al non utilizzo e dichiarano pubblicamente di non finanziare lo sviluppo delle tecnologie di geoingegneria solare. Anche università, associazioni scientifiche, organizzazioni della società civile, parlamenti e altro sostengono pubblicamente l’accordo internazionale di non utilizzo. Il risultato? Rendere tali tecnologie sempre meno attraenti per qualsiasi gruppo di ricerca serio in cui investire, anche in paesi che potrebbero non firmare immediatamente l’accordo internazionale di non utilizzo.  

In altre parole, l’idea è di creare una pressione sociale così intensa che nessun gruppo di ricerca serio dedichi tempo alla geoingegneria solare per paura delle critiche. Le organizzazioni filantropiche e le agenzie governative esiterebbero a finanziare tale ricerca per lo stesso motivo. Il problema sarebbe serio perché questo settore di ricerca potrebbe effettivamente portare a vantaggi significativi. 

La geoingegneria solare potrebbe compensare sostanzialmente l’aumento della temperatura globale e potenzialmente compensare gravi impatti secondari, come la riduzione dei raccolti e l’aumento della frequenza e dell’intensità di uragani e tifoni. Non sappiamo fino a che punto potrebbe aiutare, ma dietro questa ricerca c’è una forte spinta umanitaria, anche se imparare di più potrebbe rivelare che gli aspetti negativi superano i benefici. 

L’intensa pressione sociale per interrompere la ricerca sulla geoingegneria solare non significa che nessuno farà più studi, ma che i ricercatori che tengono all’apertura e alla trasparenza potrebbero interrompere le loro attività e quelli che continuano potrebbero essere meno sensibili alle preoccupazioni del pubblico. Probabilmente, saranno supportati da finanziatori che non si preoccupano di cosa pensano i cittadini, forse investitori privati o militari, e tutto potrebbe proseguire nell’ombra.

I regimi autocratici sarebbero in grado di prendere l’iniziativa e potenzialmente dovremo fare affidamento sulla loro esperienza in futuro se non riusciremo a eliminare gradualmente i combustibili fossili. E gli scienziati nei paesi in via di sviluppo, già svantaggiati in termini di partecipazione a questa ricerca, potrebbero essere ancora meno in grado di portarla avanti se le istituzioni internazionali e quelle filantropiche non forniranno fondi.

La ricerca sulla geoingegneria solare necessita di finanziamenti pubblici attraverso le agenzie scientifiche nazionali. In questo modo si possono garantire alcune cose importanti. Si può mantenere il controllo pubblico della ricerca e consentire la progettazione di programmi di ricerca in cui scienziati sociali e studiosi di governance siano integrati fin dall’inizio, per produrre un tipo di ricerca interdisciplinare consapevole delle criticità. 

Inoltre, i finanziamenti pubblici possono essere destinati a incoraggiare la cooperazione scientifica internazionale. Per esempio, un documento presentato all’AGU che ha esaminato l’impatto della geoingegneria sociale sui raccolti includeva ricercatori provenienti da Norvegia, Stati Uniti, Corea del Sud e Cina. E’ bene favorire questo tipo di cooperazione, non soffocarla. 

Infine, forse l’aspetto più importante, le agenzie di finanziamento nazionali possono strutturare programmi di ricerca per esaminare i potenziali rischi e benefici in modo completo, assicurandosi di prestare la massima attenzione a tutto ciò che potrebbe andare storto. Senza questo approccio sistematico, ciò che viene pubblicato potrebbe tradursi in un rivolo di studi che mostrano solo i risultati più straordinari, rendendo la geoingegneria solare migliore di quello che è. Trovare le risposte ai problemi richiede più studi, non meno, e sono necessari organismi come l’IPCC per valutarli tutti insieme. 

La buona scienza richiede anni per svilupparsi. Se si rimanda la ricerca fino al 2030, potremmo ritrovarci in un mondo che ha fatto progressi irregolari nella riduzione delle emissioni di gas serra, ma non abbastanza, con temperature ancora vicine ai 3 °C di riscaldamento. 

Non possiamo quindi sperare improvvisamente di produrre una scienza rigorosa che ci aiuti a capire se è il caso di ricorrere alla geoingegneria solare. Per cominciare, gli Stati Uniti dovrebbero seguire le raccomandazioni ben ponderate stabilite dal comitato delle National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine  che si è di recente confrontato con questo problema e finanziare ora un programma di ricerca modesto e attento. 

Holly Jean Buck è professore associato di ambiente e sostenibilità presso l’Università di Buffalo e autrice diEnding Fossil Fuels: Why Net Zero Is Not Enough

(rp)