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Metodi, modelli e risultati di un nuovo campo di ricerca, che riguarda la spiegazione e la predizione delle dinamiche di mobilità del tessuto urbano, dove vengono impiegate le tecniche e i protocolli della fisica, in particolare statistica e dei sistemi complessi.

di Bruno Giorgini

Nel presente articolo si traccia un panorama sintetico dei metodi, modelli e risultati in merito alla descrizione, spiegazione e eventuale predizione delle dinamiche di mobilità sul tessuto urbano, ottenuti nell’ambito di un nuovo campo di ricerca, che si è convenuto chiamare Fisica della Città, dove le tecniche e i protocolli della fisica, in particolare statistica e dei sistemi complessi, vengono usate per investigare la città, per ora innanzitutto sul versante della mobilità. Un fenomeno assai intricato sia per la moltitudine di decisioni individuali che implica, sia per la molteplicità dei mezzi di trasporto possibili, sia per le implicazioni politico sociali. Per quanto ci riguarda abbiamo lavorato sia alla sperimentazione e acquisizione di dati empirici, sia alla modellazione fisico matematica. Attraverso l’implementazione algoritmica poi abbiamo costruito dei sistemi di simulazione, nel cui ambito è possibile svolgere esperimenti virtuali dedicati a mettere in luce i punti (aree, strade, incroci eccetera) critici, le transizioni di fase (tra ordine e disordine per esempio) e le eventuali soluzioni che si possono prefigurare onde sciogliere la matassa. Sottolineiamo infine che i componenti elementari dei nostri sistemi sono i singoli individui dotati di libero arbitrio (free will), insomma i cittadini con le loro propensioni di mobilità, e quindi che partiamo dalla microdinamica fisica e decisionale per tentare di arrivare alla dinamica globale.

“Triste quella vita che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici” (G. Leopardi)

La complessa fisica della città

La città è per eccellenza il luogo dove nasce e si sviluppa la civiltà umana e la società, fin dagli albori dei tempi storici. Oggi, oltre il 50 per cento dell’umanità abita in città, con una crescita urbana concentrata essenzialmente negli ultimi due secoli. Sulla città e le civiltà urbane si sono esercitati sociologi, filosofi, preti, politici, ingegneri, mercanti, strateghi, urbanisti, architetti, scrittori, poeti e quasi ogni scienza traendone teorie, sperimentazioni, costruzioni, estetiche, concezioni del mondo, teologie. Più rara è la presenza dei fisici e del loro sapere.

Non fu sempre così. Per Aristotele la physis – la natura – del cosmo e della città erano la stessa physis e si potevano indagare con gli stessi strumenti concettuali e sperimentali. In particolare la geometria. Non a caso “periferia” significa in greco “circonferenza”.

Ma poi l’armonia – il cosmos – si rompe (G.Vico) e il sapere umano si divide. Da una parte le scienze del soggetto fondate sul libero arbitrio (free will, libera volontà), per definizione qualitative, non esatte e che studiano fenomeni imprevedibili. Dall’altra le scienze che alzano gli occhi al cielo, scoprendo l’eterno ripetersi delle orbite ben determinate, ma tematizzabili e prevedibili, fondate su leggi di simmetria e conservazione.

Da lì si diparte una biforcazione lungo un ramo della quale i fisici corrono dal molto piccolo al molto grande, indagando il mondo atomico e subatomico fino a distanze dell’ordine della lunghezza di Planck, circa 10-33 cm, e avventurandosi nello spaziotempo fino alle origini dell’universo, tra i 10 e i 20 miliardi di anni luce. Ma la misura umana si perde, le cose del quotidiano mondo appaiono sfuggenti e/o poco interessanti rispetto al destino delle particelle elementari e del big bang.

Però negli ultimi due tre decenni risorge una fisica che studia sistemi aventi a che fare con le dimensioni della vita e dei viventi, la fisica dei sistemi complessi, che permette di buttare un occhio e forse ben più di un occhio a quel fenomeno straordinario che è la città. A vero dire la fisica della città fu ed è costituente una delle più belle città del mondo, Venezia, che non sarebbe esistita e tanto meno avrebbe potuto prosperare se non avessero i suoi ingegneri idraulici e studiosi della meccanica dei fluidi sviluppato teorie, esperimenti applicazioni in grado di salvaguardarla dalle acque, in una discussione pubblica che ha coinvolto cittadini e istituzioni lungo l’arco dei secoli fino all’attuale dibattito sul Mose.

Leggiamo la complessità della città nelle parole di Levi Strauss: “Agglomerato di esseri che racchiudono la loro storia biologica entro i suoi limiti e la modellano con tutte le loro intenzioni di creature pensanti (…) la città risulta contemporaneamente della procreazione biologica, dell’evoluzione organica e della creazione estetica. Essa è, nello stesso tempo, oggetto di natura e soggetto di cultura”.

In altro modo. Proviamo a pensare per un momento la città come un insieme molto intrecciato di flusso/i (di individui, di energia, di intelligenze, di conoscenze, di immaginario, di tecnologie, di violenze, di lingue, di memorie, di produzioni eccetera), di informazione/i (da quelle immagazzinate nei calcolatori a quelle dei nostri vicini di casa, da quelle delle pagine gialle a quelle di una mappa, da quelle di una guida turistica a quelle degli archivi storici, da quelle dell’anagrafe a quelle di un polo tecnologico.), e di forma/e (la forma dei giardini e quella della cattedrale, le strade e i musei, i graffiti metropolitani e il tracciato della metropolitana, quella di un quartiere di periferia e quella del centro storico…). La città si rivela polimorfa, polisemica e poliglotta, percorsa da attori e oggetti con dinamiche tra loro molto diverse, a volte conflittuali tanto da ingenerare una sensazione di caos.

Se vogliamo cercare di esprimere la qualità di questa complessità in termini quantitativi, usando gli strumenti delle scienze esatte, la matematica e la fisica, senza perderne la tessitura, dobbiamo ridurre il campo semantico, logico e sintattico nonché fenomenologico su cui articolare le possibilità di costruire dei modelli che siano descrittivi, esplicativi e, almeno in parte, predittivi.

Una semplice osservazione ci aiuta nel processo di riduzione: qualunque sia la varietà e complessità di flussi, forme e informazioni, un sistema urbano è, in quanto è abitato. La città non è neppure definibile senza i cittadini, componenti elementari comuni a qualunque sistema urbano. Quindi la nostra fisica della città sarà essenzialmente una fisica della città abitata. Il che significa, dato il gran numero di componenti elementari – i cittadini -, una fisica statistica del non equilibrio (la città è un sistema aperto). Inoltre, poiché i componenti elementari si muovono nello spazio-tempo urbano, sarà una fisica dei sistemi dinamici. Essendo gli individui del sistema dotati di libero arbitrio, dovrà essere una fisica probabilistica (fu Pascal il primo a modellare il libero arbitrio tramite il concetto e la funzione di probabilità, fino a scommettere sull’esistenza di Dio). Per finire, poiché i componenti elementari sono dotati di memoria, capaci di assumere dall’ambiente informazioni e di processarle in funzione di intenzioni, scelte e decisioni, la fisica della città dovrà essere cognitiva, intenzionale e decisionale.

Le città hanno topologie e morfologie molto diverse l’una dall’altra, ma anche qui chiediamoci se c’è una struttura comune a qualunque città, uno spazio-tempo che definisca la città generica.

Questa struttura esiste ed è temporale. In termini tecnici, si può enunciare che lo spazio-tempo urbano è caratterizzato da una metrica temporale definita dai cronotopi, agenti primigeni delle attività temporali urbane, intendendo per agente primigenio quello che introduce correlazioni che non ci si potrebbe aspettare senza di lui. La dinamica complessa nasce proprio dall’interazione tra il tempo individuale e quello cronotopico. Nel linguaggio dell’urbanistica, si intende cronotopo un’area dove si svolgono attività calendarizzate che attraggono i cittadini, per esempio l’università che attrae studenti otto ore al giorno, l’ospedale che attrae malati e medici a ciclo continuo, una via di shopping che attrae i consumatori nelle ore di apertura dei negozi eccetera. Le due definizioni nella città virtuale coincidono. Questa metrica cronotopica che sottende la città è il vettore che struttura flussi dinamici mesoscopici, per esempio gli studenti che si recano in università, i visitatori a un museo, gli uomini d’affari a una fiera, i melomani a un concerto. Avremo quindi una fisica cronotopica. E il tempo sociale urbano sarà in qualche modo una media pesata di questi vari tempi cronotopici in interazione con l’agenda temporale di ciascun componente elementare.

Da quanto detto appare abbastanza intuitivo che la fisica della città dovrà interagire con altre scienze che studiano i sistemi urbani, dall’economia alla sociologia, dalla filosofia alle scienze cognitive, dall’urbanistica all’ingegneria, dall’architettura alla psicologia del comportamento, senza dimenticare la geografia e quant’altro. Si tratta di una interazione forte, non limitata a un contesto culturale, ma volta a definire comuni programmi di ricerca che nascano dalla confluenza delle diverse tecniche e procedure, non perdendo l’efficacia puntuta della singola disciplina.

La scienza dei modelli

La chiave di volta è il concetto di modello. Per dirla con Wittgenstein: “Anche se il mondo è infinitamente complesso, così che ogni fatto consta di infiniti stati di cose e ogni stato di cose è composto d’infiniti oggetti, anche allora ci devono essere oggetti e stati di cose”. E il concetto di stato è il mattone primario con cui costruiamo modelli, a cominciare dai sistemi dinamici, quindi estendibile ai sistemi complessi. Il modello acquista poi forza quando viene implementato su calcolatore, perché permette di simulare configurazioni, evoluzioni, stati critici, insomma problemi e soluzioni possibili. Tra l’altro gli studi più recenti di neuroscienze mostrano come la simulazione sia un modo di apprendimento e conoscenza intrinseco al nostro sistema biologico cognitivo. Insomma la simulazione ha una base materiale nel nostro funzionamento neuronale.

Nella nostra filosofia il modello è un generatore di conoscenza ad almeno tre livelli:

1. è un oggetto di studio in sé e per sé. Costruire un modello non vuol dire conoscerlo. Anzi proprio dall’indagine sul modello, sui suoi parametri critici, sul suo comportamento quando sia sottoposto a diverse sollecitazioni, sulla sua evoluzione spazio-temporale a diverse scale eccetera possono emergere e diventare riconoscibili delle leggi, o almeno delle regolarità impreviste.

2. è uno strumento di investigazione e ricerca sul mondo a cui viene applicato, perché può mettere in luce aspetti della realtà che, per molteplici ragioni, non riesco a osservare direttamente, permettendo di scegliere le osservabili più ricche e le misure più significative, in un continuo andare e venire tra realtà e simulazione.

3. è un mezzo/strumento per affrontare problemi specifici di progettazione, programmazione e costruzione, prima della messa in opera materiale di un esperimento, di un sistema, di un processo.

La mobilità urbana e l’asino di Le Corbusier

Una delle libertà essenziali dell’uomo è la libertà di movimento, dicevano i classici. Più vicino a noi, il soggetto della modernità è per antonomasia un soggetto mobile e la UE propone il “diritto alla mobilità” come uno dei costituenti la cittadinanza. Infine è scontato dire che la mobilità condiziona lo sviluppo urbano e viceversa.

Intrigante appare la seguente affermazione di Le Corbusier: “L’uomo avanza diritto per la propria strada perché ha una meta; sa dove va, ha deciso di raggiungere un determinato luogo e vi si incammina per la via più diretta. L’asino procede a zigzag per evitare le pietre più grosse, per scansare i tratti più ripidi, per cercare l’ombra (..) è l’asino che ha tracciato le piante di tutte le città d’Europa”. Il paradosso di Le Corbusier si dispiega pienamente nelle metropoli di terza generazione dove la mobilità dei cittadini assume in misura sempre maggiore configurazioni zigzaganti e/o asistematiche. Quasi che fossimo tutti asini.

Nella città occidentale otto-novecentesca, l’organizzazione tayloristica del lavoro industriale coi suoi orari rigidi di entrata e uscita (le famose otto ore e più di fabbrica) metteva a sistema controllabile, prevedibile e quasi deterministico la mobilità dei cittadini lavoratori. In termini tecnici si chiama mobilità origine-destinazione (O-D). In questo caso l’origine O è abbastanza ben definita nello spazio e nel tempo, e altrettanto la destinazione D, cui si giunge attraverso una o più strade possibili (archi). Allora si possono scrivere e risolvere con un certo agio delle matrici O-D, in cui i dati d’ingresso sono quelli dell’anagrafe e delle associazioni professionali. Il tutto funziona ragionevolmente fin quando la mobilità O-D fa la parte del leone e i flussi sono abbastanza stazionari senza brusche variazioni.

Quando la grande fabbrica capitalista si svuota e decade anche socialmente, l’organizzazione del lavoro si trasforma, diventando più complessa, spazialmente diffusa ben oltre i tradizionali quartieri industriali, si può dire in tutta la città, e a orario flessibile. Nasce così un tempo che invece di essere come prima unico, lineare e partito in segmenti di otto ore uguali per tutti (il tempo sociale forgiato dalle officine Ford), diventa l’impasto di mille e mille tempi individuali, una sorta di foliazione che si ripiega su se stessa infinite volte. Mentre il lavoro immateriale corre lungo le reti informatiche producendo universi di simboli, che pur virtuali assumono valore di scambio e incidono sulla mobilità fino al singolo individuo. Quindi questa nuova dislocazione spazio-temporale e virtuale del lavoro propria delle metropoli postindustriali, induce una mobilità poco prevedibile e asistematica che prende il largo investendo strati sempre più ampi di popolazione. Qui insorge l’asino di Le Corbusier, che non va diritto ma zigzaga secondo i suoi bisogni, desideri, volontà, obiettivi, e nasce il problema scientifico se e come questa mobilità zigzagante in linea di principio imprevedibile, possa essere modellata. Se si possa descriverla mediante equazioni e/o algoritmi, configurandola in una città virtuale che ci permetta di vederla dispiegarsi per provare a comprenderla, e magari prevederne alcune caratteristiche dinamiche.

I modelli della Fisica della Città

Mobilis in mobile sta scritto sul Nautilus del capitano Nemo. Una sorta di “e pur si muove” anche quando ci si trova bloccati, avviluppati dentro un ingorgo sull’autostrada. Questo è l’auspicio sotto cui nasce Mobilis/Manhattan, il primo dei modelli licenziati e brevettati dal laboratorio di Fisica della Città dell’Università di Bologna, dove agiscono pedoni e trasporto pubblico. Nascono poi Campus, soltanto pedonale, e AutoMobilis per la mobilità autoveicolare, mentre altri lavori sono in corso. Definiamo mobilità la propensione del singolo componente elementare a muoversi su una topologia spazio-temporale. Si tratta quindi di una proprietà individuale, del tutto diversa dal traffico che è tipicamente un flusso. Per cogliere la differenza, basti pensare che, quando il traffico aumenta, spesso la mobilità diminuisce, fino alla paralisi oltre una certa soglia critica. Il fatto che la mobilità sia una proprietà del singolo, ci detta il punto di vista, ovvero l’osservatore starà per così dire appollaiato sulle spalle del cittadino, sarà un osservatore locale. La mobilità inoltre non solo si svolge in un contesto complesso come la città, ma è complessa di per sé, solo l’atto del muoversi, attraversare una strada, fare una passeggiata, andare al cinema, richiede una serie quasi infinita di scelte. Per di più la mobilità si esercita con diversi mezzi, i piedi, la bicicletta o moto, l’automobile, il mezzo di trasporto pubblico e altri più fantasiosi. Ciascun cittadino mescolerà questi diversi mezzi nel corso dei suoi spostamenti, per cui dallo stato di pedone potrà transire a quello di automobilista e/o a quello di utente di mezzo pubblico eccetera. Un buon modello dovrà essere in grado di descrivere, spiegare e, se possibile, prevedere:

1. la dinamica del componente elementare del tutto libera (senza meta), e la dinamica vincolata dalla necessità/scelta di recarsi in un certo cronotopo (dinamica microscopica);

2. la dinamica degli aggregati di componenti elementari che si muovono verso lo stesso cronotopo, cioè la dinamica mesoscopica, per esempio degli studenti che vanno all’università;

3. la dinamica del componente elementare nello stato di pedone, mobilità pedonale, di automobilista, mobilità autoveicolare, di utente di mezzo pubblico, mobilità di trasporto pubblico, con le rispettive transizioni dall’uno all’altro, mobilità intermodale;

4. la dinamica del componente elementare quando sceglie/decide tra diversi mezzi e/o diversi percorsi e/o diversi cronotopi sulla base delle sue intenzioni (la sua agenda) e dell’ambiente circostante, con anche una capacità adattiva di fronte agli imprevisti, una strada sbarrata, un negozio chiuso, un incidente sulla linea;

5. da ultimo le interazioni tra i diversi sistemi di mobilità, pedonale, automobilistico, di trasporto pubblico e tra le diverse reti (viaria, ferroviaria, metropolitana eccetera).

Da questo elenco risulta evidente che noi dovremo strutturare una dinamica fisica in senso proprio e una dinamica intenzionale/decisionale, fondata sulla percezione, l’informazione, la cognizione e infine la decisione/scelta, con un sistema di retroazione e di memoria che permettano evoluzione e adattamento.

Il componente elementare o cittadino sarà modellato come un automa cioè un individuo con proprietà fisiche e cognitive (in grado di processare informazione). L’ automa viene implementato su un calcolatore diventando un individuo virtuale che abbiamo battezzato mobber.

Ogni automa/mobber è corredato da una stringa genetica che ne definisce:

a) l’identità statistica. Ovvero lo individua in una categoria sociale e/o in una classe di attori della mobilità. Per salvaguardare il libero arbitrio una parte del codice sarà aleatoria;

b) le proprietà geometriche, tipicamente le dimensioni;

c) le proprietà cognitive come l’agenda, la memoria, la percezione.

Inoltre il mobber avrà delle variabili dinamiche quali velocità e posizione, e degli stati di mobilità, che a seconda del mezzo saranno pedonale, automobilistica, di trasporto pubblico, eccetera. Stati tra cui potrà transire secondo regole probabilistiche o deterministiche o miste (dipende dal contesto).

Definiamo ora l’ambiente in cui il mobber agisce la mobilità.

Abbiamo una topologia spaziale discreta o continua. Introducendo i cronotopi costruiamo un vero e proprio spazio-tempo urbano con una metrica temporale. Infine introduciamo uno spazio cognitivo e/o delle decisioni, per esempio quando siamo in una stanza a due porte oppure a un bivio destra-sinistra, strutturando una collezione di casi possibili in cui si esige dal mobber una scelta per continuare il suo cammino fino alla meta che può essere finale o intermedia. In corso d’opera il mobber ha sempre disponibili alcuni gradi di libertà che possono fargli cambiare, invertire o interrompere la sua rotta.

La dinamica decisionale

Si tratta chiaramente di una questione nevralgica: come si modella la decisione. Secondo Kierkegaard il momento della decisione è una follia. Meno drammaticamente possiamo dire che alla decisione concorrono elementi razionali e irrazionali. Decidere significa tagliare via (de-caedere). Nel momento della decisione alcuni eventi si realizzano, altri restano tagliati fuori. In questo senso assomiglia assai a una transizione di fase e/o all’emergere nel sistema di strutture critiche autorganizzate. Possiamo anche vederla come una biforcazione. Sebbene nel punto di biforcazione l’incertezza associata alla decisione sia irriducibile, il realizzarsi di una scelta del ramo della biforcazione su cui incamminarsi aumenta l’informazione del sistema, riducendo l’incertezza, il che significa in termini fisici una diminuzione dell’entropia. Se vogliamo, le decisioni libere sono sì impredicibili, ma anche dipendenti da un certo grado di determinismo, dovuto ai vincoli e alle condizioni al contorno. Per esempio per quanto io sia libero, non potrò in genere camminare sul soffitto, un esempio grossolano, non ce ne vogliate.

A partire da queste premesse nel nostro lavoro abbiamo esperimentato diversi meccanismi decisionali. Qui ne illustriamo uno, che abbiamo applicato al moto pedonale e di trasporto pubblico nel centro storico di Rimini basato sulla probabilità di Bayes-de Finetti, detta anche probabilità soggettiva. Possiamo spiegarla facendo l’esempio di una partita a poker tra due giocatori. Supponiamo che il giocatore A abbia ricevuto dal mazziere una doppia coppia, quindi dal punto di vista delle probabilità/frequenze gli converrebbe scartare una carta, per tentare il full. Ma A è convinto che l’altro giocatore B abbia in mano un colore, quindi se pur anche pescasse la carta giusta per un full, perderebbe. Allora egli sceglie di cercare la vittoria, decidendo di scartare tre carte e tenendo in mano una coppia, nella speranza che il mazziere gli dia le altre due carte simili onde fare poker e quindi battere il colore presunto dell’avversario, nonostante la bassa frequenza/probabilità oggettiva di questa combinazione. Con questa probabilità di de Finetti in tasca il nostro mobber si trova nel mezzo di un quadrivio, attirato da un chronotopo che si trova da qualche parte, e deve scegliere quale strada imboccare, che non è univocamente determinata dalla forza che il cronotopo esercita. Ebbene la probabilità che si avvii lungo la strada iesima sarà data da una combinazione tra le probabilità definite per ogni direzione in base alle sue soggettive esigenze di mobilità (il percorso minimo nel tempo per esempio è la più facile ma certamente non l’unica e spesso non prevale) e un coefficiente di qualità assegnato alle strade, nel caso specifico di Rimini l’accessibilità, la sicurezza, l’estetica (si veda la figura 1).

Un altro meccanismo decisionale è dovuto alla visione. In sintesi il mobber può vedere a corto, medio e lungo raggio secondo un certo angolo e misurare sia la densità di altri mobber, che eventualmente si dirigano verso di lui, sia la presenza di ostacoli e/o l’affollamento in certe zone, tanto quanto la presenza di code, assumendo le strategie adeguate per evitarle, quando e se possibile. Potremmo indicarne altri che stiamo studiando, ma importante è che la dinamica intenzionale/decisionale fa emergere forme di autorganizzazione più robuste di quelle prodotte dalla dinamica soltanto fisica, e che gli equilibri frutto dell’autorganizzazione sono più stabili di quelli imposti da forzature esterne. Ovviamente si tratta in ogni specifica situazione di analizzare i parametri di governo e di trovarne i valori critici in grado di innescare il ciclo virtuoso e cooperativo dell’autorganizzazione, il che non è sempre facile.

Dati osservazioni misure esperimenti: una legge empirica per la mobilità autoveicolare

Uno dei problemi più difficili è quello di reperire serie temporali di dati abbastanza lunghe e significative sul piano statistico, senza le quali il confronto tra esperimenti virtuali e realtà materiale corre il rischio di essere anchilosato, se non monco.

Nel corso del nostro lavoro abbiamo fatto diversi esperimenti e analisi dei dati in più situazioni, dalle stazioni RATP nella zona di Les Halles all’area di Milano Bicocca fino alla stazione di Rimini e sempre i risultati delle simulazioni erano in buon accordo con la realtà empirica.

Più recentemente ci siamo confrontati con fenomeni più ampi, quali, per la mobilità pedonale, la dinamica di folla al Carnevale di Venezia e per quella autoveicolare, la dinamica in città quali Senigallia, Bologna, Roma. Ovvero tre sistemi urbani molto diversi tra loro per topologia, numero di abitanti e densità di traffico. In questo caso la disponibilità di un insieme molto ampio di dati ottenuti tramite GPS montati sui veicoli per ragioni assicurative e fornitici dalla OctoTelematics, ci ha permesso di mettere in luce una sorta di “legge” secondo la quale l’intervallo spaziale medio percorso da ogni autoveicolo è dell’ordine di 3,5-4 chilometri. Detto in altri termini, il numero di auto in circolazione sul reticolo urbano si dimezza ogni 3, 4 chilometri. Inoltre abbiamo visto come una parte grande del traffico si concentri su distanze anche minori. Anche qui ci permettiamo di proporre al lettore il grafico (si veda la figura 2) che descrive matematicamente questa “legge” empirica, sottolineando come essa sia comune a città tra loro molto diverse: una metropoli, una medio grande, una piccola. Forse questo indica che si tratta di una regolarità intrinseca al soggetto, l’individuo che usa l’automobile, come se egli avesse una sorta di regolo in testa lungo circa 4 chilometri, una comune misura della distanza automobilistica in città propria della mente umana, quasi indipendente dallo specifico contesto urbano.Con questa interpretazione saremmo in presenza di una “legge” cognitiva. Ovviamente, se si prende per buono, un risultato di questo genere diventa discriminante per valutare i modelli che devono non solo verificarlo a posteriori, ma assumerlo come dato iniziale e costitutivo, e inoltre sollecita una vasta campagna di presa dati la più generale possibile in vista di una possibilità di descrizione e potenza predittiva per quanto attiene la mobilità autoveicolare fino a ieri impensabili.

La rotonda evolutiva

Come esempio di sistema creato all’interno del nostro laboratorio proponiamo la rotonda evolutiva.

Le rotonde, è noto, sono costruite per indurre autorganizzazione in funzione di un traffico più scorrevole. Ci siamo posti il problema di trovare la condotta di guida che renda la mobilità sulla rotonda la più fluida possibile. In quest’ottica implementiamo su calcolatore la rotonda percorsa da un certo numero di autoveicoli virtuali, ciascuno dei quali dotato di una piccola rete neurale che simula un cervello elementare. Ognuno di questi veicoli avrà un proprio comportamento dinamico (alcuni parametri sono scelti a caso). Dopo un certo numero di giri selezioniamo le auto più virtuose, cioè che si muovono con maggiore fluidità, efficacia eccetera, e scartiamo le altre ( per esempio ne scegliamo 10 su 100). Queste 10 vengono riprodotte fino a 100, e si ricomincia da capo. Iterando il processo per un numero N di volte (N cicli evolutivi), si arriva alla rotonda ottimale dove le nostre automobili virtuali girano che è un piacere (se il processo continuasse non avremmo alcun miglioramento). A questo punto possiamo estrarre le caratteristiche della dinamica di ciascun componente elementare (autoveicolo) del sistema, tabularle, e avremo la condotta di guida ottimale su una rotonda (si veda la figura 3).

Conclusione

In fine ci piace concludere con una citazione di Ettore Majorana che ci sembra una premessa alla fisica della città: “Il determinismo che non lascia alcun posto alla libertà umana e obbliga a considerare come illusioni (..) tutti i fenomeni della vita, racchiude una reale causa di debolezza: la contraddizione immediata e irrimediabile con i dati più certi della nostra coscienza (..). Sarà nostro scopo ultimo l’illustrare il rinnovamento che il concetto tradizionale delle leggi statistiche deve subire in congruenza del nuovo indirizzo della fisica contemporanea”.