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Greta Thunberg, la giovane attivista svedese in lotta contro il cambiamento climatico, ha lanciato la sua sfida alla platea di diplomatici e politici al vertice sul clima delle Nazioni Unite, ponendo la classica domanda: “Si può avere prosperità riducendo allo stesso tempo il nostro inquinamento da carbonio?”.

di David Rotman

Per la maggior parte degli esperti di economici, la risposta alla domanda della Thunberg non è solo che possiamo avere entrambi, ma che dobbiamo. Come l’editorialista del quotidiano britannico conservatore, il “Telegraph” ha spiegato, “la contraddizione presente nella sua argomentazione [di Thunberg] è così ovvia che non ha bisogno di essere sottolineata”. La realtà è che “non si possono costringere le persone a tornare a vivere come nell’età della pietra”.

Sembra una critica giusta. Eppure l’argomento della cosiddetta “decrescita”, che risale agli anni 1970 e in parte ancor prima, non si può mettere da parte facilmente. Nella sua ultima resurrezione credibile, Vaclav Smil, che ama definirsi uno degli autori preferiti di Bill Gates (con la complicità entusiasta di Gates), lo solleva nel suo recente libro “Growth”.

Le oltre 500 pagine forniscono molti esempi della crescita economica, ma in un’intervista concessa al “Guardian”, Smil arriva a una conclusione categorica: “La crescita deve finire”.

Il pericolo è che questa formulazione della decrescita, che accetta l’idea che saremo tutti molto più poveri, diventi parte attiva della discussione politica e renda il dibattito sui cambiamenti climatici ancora più divisivo, incentrandolo più sui sacrifici e sulla riduzione dei consumi che sul taglio delle emissioni. 

Sarebbe un modo per non affrontare il problema vero, quello che gli economisti amano chiamare disaccoppiamento delle emissioni dalla produzione. 

Questo ha iniziato ad accadere – come sostiene Andrew McAfee nel suo nuovo libro in uscita all’inizio del mese prossimo – nel senso che i paesi ricchi stanno diventando molto più bravi nell‘utilizzare meno risorse e allo stesso tempo far crescere il loro PIL. Tuttavia, non sta accadendo abbastanza velocemente.

Ma, a parte gli aspetti economici, Thunberg e i suoi giovani sostenitori sostengono una tesi giusta: il cambiamento climatico è una questione morale. Il modo in cui agiamo ora dipende da come consideriamo le nostre responsabilità verso le generazioni future. E ciò comporta scelte morali ed etiche.

Quindi quali sono le decisioni da prendere? Non è semplice rispondere. L’articolo di Eric Beinhocker sul “Guardian”, per esempio, sostiene che il cambiamento climatico è moralmente inaccettabile quanto lo era la schiavitù e auspica lo sviluppo di un movimento “abolizionista del carbonio”.

Mi sembra giusto. Ma l’articolo prende anche delle posizioni che non condivido, vale a dire che i cambiamenti climatici non sono stati visti come un problema morale fino a poco tempo fa e che parlare di lavoro, tasse, crescita e tecnologie è in qualche modo una distrazione dal pensare ai cambiamenti climatici come un problema morale.

Come ho scritto qualche anno fa, ci sono in realtà delle scelte morali da fare nel decidere quanto investiamo nel cambiamento climatico, come utilizziamo le tecnologie e il modo in cui interpretiamo la crescita economica.

Forse la più rilevante di queste scelte, per gli economisti, è quella sul “tasso di sconto” nell’analisi costi-benefici. Fondamentalmente, è quanti vantaggi si ritiene di ottenere in termini di benefici o prodotti a venire. Più alto è il tasso di sconto, minori sono il payoff futuro e gli investimenti immediati, per esempio, nella lotta al cambiamento climatico.

Come ha scritto, nel 2012, John Broome, un filosofo di Oxford, nel suo libro Climate Matters: “Più di ogni altra cosa, il tasso di sconto determina quali sacrifici la generazione attuale dovrebbe fare per il bene futuro. Si tratta di una questione morale”.

Ma se si prova a dire alla maggior parte degli economisti che il tasso di sconto è un giudizio morale, loro vanno fuori di testa. Assolutamente no, sostengono, stiamo parlando di un calcolo razionale basato sui mercati finanziari. 

E fare bene questo calcolo ha tormentato gli economisti ambientali per più di un decennio, almeno da quando Nicholas Stern, un importante economista del Regno Unito, ha usato un tasso di sconto molto basso per sostenere un’azione aggressiva sul clima in un importante rapporto del 2006 sponsorizzato dal governo.

Un’eccellente spiegazione del dibattito in corso è comparsa sulla rivista settimanale “The Week”. La tesi sostenuta in breve è la seguente: i cambiamenti climatici presentano tali possibilità catastrofiche che potremmo dover ripensare completamente i nostri calcoli economici.

Su questo, i giovani manifestanti hanno certamente ragione.

Immagine: Pixabay