La cibernetica della convivenza

Tra utopia, il sogno di un altro spazio, e ucronia, il sogno di un altro tempo, la fantascienza ha messo a fuoco una preziosa riflessione critica sulle insidie di una indebita alleanza tra ideologia e tecnologia, che sollecita una maggiore consapevolezza, ma anche nuovi strumenti di controllo.

di Alberto Abruzzese

Un eccesso sostenere che il mondo degli umani sia progredito verso dimensioni sempre più distopiche in virtù della sua incessante produzione di utopie? Si può sostenerlo, appena si decida di considerarle pericolosamente affini alle grandi ideologie della storia, ma anche ai regimi dispotici – un lieve frullo delle lettere di cui è composto questo aggettivo e per incanto salta fuori “distopico”! – che si celano nel capitalismo fondiario, in quello industriale, in quello finanziario e, da ultimo ma non ultimo, in quello mediatico: forme di potere che infieriscono irresponsabilmente sugli equilibri comunitari e su ogni risorsa dell’ambiente.

Tento di spiegarmi, cominciando dal significato originario delle parole “utopia” e “distopia”. Sono ambedue l’espressione di una immaginazione umana che si costruisce uno spazio a venire nel tempo, un futuro senza più passato alle spalle, creando una totale finzione della propria civiltà a venire. Prospettando nel caso dell’utopia un mondo radicalmente positivo, salvifico, anzi salvato, e nel caso esattamente opposto della distopia un mondo radicalmente negativo, dispotico e catastrofico.

Le utopie simulano nuove condizioni di vita, che sono frutto di un pensiero critico sulla società reale, ritenuta corrotta da un cattivo sapere, da una errata concezione della felicità e da un perverso esercizio del potere. Le utopie sono dunque determinate a rovesciare in positivo i valori e le condizioni di vita degli esseri umani, inventando nuovi regimi necessari a un loro diverso abitare.

Meno usata, ma altrettanto significativa è la parola “ucronia”, che viene dal greco – significa letteralmente “nessun tempo” – e indica un genere di narrativa fantastica volta a immaginare storie alternative basate sull’idea che la storia abbia seguito un corso in tutto diverso da quello che in realtà ha avuto, ibridandosi così con l’utopia o con la distopia quando narri di società felici o, all’opposto, nefaste. Va aggiunto, comunque, che a ben vedere l’immaginazione ucronica è in azione anche nella quotidiana necessità previsionale del filosofo così come dello scienziato o dell’imprenditore, nonché della prassi quotidiana dei politici e dei loro sistemi di potere.

A questo proposito, mi torna in testa l’idea – magari riadattata a mio modo – di Isaac Asimov che pensò a una seconda Fondazione, votata non a sorvegliare e punire, ma a curare e liberare dal suo destino l’altra Fondazione dalla quale si è separata o, per straordinaria, provvida intuizione, è stata separata.

Cosa sono i rituali di fondazione se non l’evento di un patto antropologico-culturale tra un diverso luogo da abitare e le tecniche utili, necessarie, alla sua effettiva realizzazione, alla riuscita del suo destino? Un destino, dunque, che non vuole essere difesa e sopravvivenza del tempo passato, ma “vita nova”. Anzi “vita altra”.

Così è nata la fantascienza: non per la prima volta – per simpatia ricordo almeno Ariosto e Cyrano De Bergerac, rivisto dallo scrittore e disegnatore Albert Robida – ma mai con una così massiccia portata di tiro sull’immaginario collettivo di ogni genere di pubblico e piattaforma espressiva.

Sono ancora calde le ceneri della Seconda Guerra Mondiale, quando – negli anni Cinquanta del Novecento – Ray Bradbury inizia a scrivere e pubblicare Cronache marziane. Certamente a immaginarsi di intraprendere viaggi al di là del pianeta Terra, delle sue dimensioni storiche e geopolitiche, concorrevano e sarebbero sopraggiunte le più opposte ideologie e speculazioni sullo sviluppo tecnologico. Ma altrettanto certamente si trattò anche di una sorta di riflesso condizionato rispetto a quanto era appena accaduto nel mondo: il tempo lungo della civilizzazione umana aveva prodotto, quasi in un lampo, una catastrofe immane, superiore a ogni altra (o quantomeno come tale percepita).

Bisognava quindi uscire dallo spazio-tempo degli umani per andare a cercare altri spazi vergini, altri corpi non-umani, altre più potenti ucronie senza i vizi delle utopie “terrestri”. Una intuizione tanto geniale quanto irrealizzabile se non in termini di manipolazione culturale. E Bradbury di fatto, nelle sue Cronache marziane, ha “ri-narrato” la storia crudele dei nativi americani invasi dai conquistatori europei.

In qualsiasi nuovo spazio, il tempo di chi lo invade, ne prende possesso, produce “mostri”. Tra fantascienza e horror non c’è poi tanta differenza nel denunciare o comunque palesare i cortocircuiti identitari, distruttivi e insieme autodistruttivi, della intelligenza umana. In questa prospettiva apocalittica, il pensiero religioso-politico più attento a coniugare, a stringere insieme, terra e cielo (saldando in una sola potenza il loro distinguersi tra tempo e non-tempo) si è inventato uno straordinario contraccettivo: il Catechon: la contrapposizione tra un tempo destinato alla fine e un “frattempo” che ne frena l’avvento.

A fronte del tempo – della immaginazione creatrice di un suo continuo divenire sulla stessa linea in cui si è generato – credo che vada tentato, di continuo ritentato, messo alla prova, un tempo del “frattempo”. Pensare a questa apertura senza passato e senza futuro, invece che al tempo, lineare o circolare, ciclico che sia, può forse conferire alla persona una seppure esile, ma concreta capacità di incidere sul quanto e il come del proprio e altrui dolore.

Un dolore che rappresenta il nodo più tragico della civilizzazione, diversamente dal dolore necessario e salvifico che si trova per esempio in un autore fortunato come Byung-Chul Han, il quale torna a interrogarsi sul perché noi moderni «abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite».

Dentro l’epoca immateriale delle odierne tecnologie e piattaforme di vita digitale (quale sia il destino salvifico o catastrofico a esse o da esse assegnato), in queste settimane è una guerra massimamente invasiva, locale e insieme mondiale, a ricordarci con particolare impeto che comunque si tratta ancora, sempre di nuovo, di abitare un mondo fatto di lacrime e sangue.

Chiusi nella dimensione simultanea di ogni nostro recinto di pace e guerra insieme, ci dovremmo augurare che la “cibernetica”, vale a dire il principio dell’autoregolazione dei sistemi sia naturali sia artificiali, dopo essere stata salutata come dispensatrice di pace – sul piano scientifico, Norbert Wiener si immaginò quello che si immaginò Bradbury sul piano della finzione: una “cibernetica della convivenza”, uno spazio di confronto e di transazione, in grado di esorcizzare la tragedia appena compiuta – non venga irresponsabilmente demonizzata da retoriche sulla libertà che l’umano si è inventato come alibi della propria coscienza e arma ideologica della propria incoscienza.

(gv)

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