James Allison, pioniere dell’immunoterapia, ha un conto aperto con il cancro

All’inizio: Yervoy (questo articolo costituisce la prima parte di un testo più ampio che verrà successivamente pubblicato da TR Italia)

di Adam Piore

Secondo alcune voci, la ricerca di Allison sulla terapia immunoterapica contro il cancro potrebbe valergli il premio Nobel. Vent’anni fa, fu il primo dimostrare che è possibile caricare la reazione del corpo al cancro con un farmaco che scatena il sistema immunitario perché distrugga esso stesso il cancro.

Il farmaco che realizzò, chiamato Yervoy, venne messo in vendita nel 2011 contro le metastasi alla pelle, efficace nel caso di alcuni pazienti fortunati. La vendita del Yervoy e di due altri farmaci, ha toccato l’anno scorso i 6 miliardi di dollari annui, e più di 100,000 pazienti.

Questa nuova classe di agenti per l’immunoterapia, chiamati inibitori del checkpoint immunitario, è universalmente riconosciuta come il più importante progresso nella lotta contro il cancro dall’invenzione della chemioterapia, eppure, per ogni paziente salvato, ancora molti non possono essere aiutati, e non si sa perché.

Come disse Allison ricevendo il Lasker Award nel 2015: “Circa il 22 percento dei pazienti affetti da melanoma che abbiano ricevuto un giro di Yervoy sono ancora vivi dopo 10 anni. Dobbiamo fare meglio e per molte più tipologie di cancro.”

Al MD Anderson Cancer Center di Houston, mi è stata presentata quella che Allison chiama la “piattaforma.” Si tratta di un progetto su larga scala che vorrebbe determinare come mai il sistema immunitario sia capace a volte di comportarsi come l’arma perfetta, mentre in altre occasioni non si attiva nemmeno.
Sharma, originaria del Guyana ed oncologa, supervisiona la collezione di campioni di tumori ottenuti da 100 dei 165 test clinici della Anderson che relativi all’immunoterapia.
I tessuti vengono studiati per osservare come procede la battaglia.

“Quale tipo di risposta immunitaria conduce al rigetto del tumore e quale comporta invece la sua ripresa?” si domanda Sharma.

L’industria farmaceutica e gli istituti di ricerca sono in piena corsa con migliaia di test clinici basati su nuovi agenti immunoterapici. Più di 3,000, secondo Jeff Bluestone, immunologo della University of California, di San Francisco, nonché CEO del Parker Institute for Cancer Immunotherapy. Sempre più ricercatori però, considerano quest’abbondanza di test clinici scoordinata, ridondante e potenzialmente controproducente, proprio perché, in molti casi, non abbiamo una chiara comprensione di quanto avviene.

Secondo Ira Mellman, vice presidente del gigante biotech Genentech, Allison può non aver inventato l’immunoterapia, ma il suo farmaco è quello che ne ha reso chiaro il potenziale. Ora, il suo è uno dei “pochi progetti seri” dedicato alla comprensione dei meccanismi che permettono al sistema immunitario di uccidere il cancro e dei motivi per cui, invece, troppo spesso non è ancora capace di riconoscerlo. Allison ha perso la madre e due zii per tumori, prima di compiere 15 anni.

Nello scegliere il proprio campo di studi, Allison aveva evitato il cancro in quanto, a suo tempo, non sembravano esserci moti indizi su cui lavorare. Negli anni ’70, le cellule T, quei piccoli assassini che permettono al corpo di combattere le infezioni, erano appena state scoperte. Allison rimase affascinato da queste sentinelle molecolari si pattuglia nel corpo umano, pronte ad intervenire ad ogni segnale d’allarme.

La domanda ovvia divenne: come fa il cancro ad evitare le cellule T? Già allora alcuni indizi sembravano indicare che a volte i tumori in effetti non se la cavavano. Nel 1980, un articolo della rivista Time diede notizia di un grande entusiasmo scientifico per una molecola chiamata interferone, capace di eccitare il sistema immunitario. Il sistema poteva però danneggiare il paziente quanto guarirlo. Allison cominciò invece a studiare i recettori molecolari sulla superficie delle cellule T.

Una delle sue più importanti scoperte fu il recettore chiamato CD28. Quando questo recettore viene messo in funzione, in associazione all’attivazione di un altro recettore che si lega alla cellula tumorale, la cellula T riceve il segnale d’attacco. Eppure questi attacchi non sono né garantiti, né necessariamente duraturi, motivo per cui, nel 1992, Allison era ormai convinto che ci dovesse essere un terzo interruttore.

Il candidato ideale era il misterioso recettore CTLA-4, non sempre presente sulle cellule T. Sia Allison che Bluestone, immunologo del UCSF, scoprirono che questo recettore si comportava in maniera strana. Quando le proteine vi si legavano, invece di attivare la cellula T, la disattivavano.

Questi freni molecolari vennero chiamati checkpoint.Si dimostrò che in topi creati senza CTLA-4, le cellule T finivano per attaccare i propri stessi corpi al termine di un’infezione, uccidendo i topi in poche settimane. Bluestone pensò inizialmente alla possibilità di realizzare un nuovo genere di farmaco immunosoppressore per pazienti di trapianti d’organo, ad esempio. Allison, invece, pensò che allentare questi freni potesse rafforzare la reazione del sistema immunitario contro il cancro. Uno dei suoi studenti aveva già sviluppato un anticorpo capace di legare con i recettori CTLA-4 delle cellule T e mandarli in tilt. Iniettato in topi pieni di tumori, l’anticorpo diede risultati eccezionali. “I tumori vennero curati, da 100 percento a 0 percento,” racconta Allison.

Ne risultò il farmaco Yervoy, venduto dalla Bristol-Myers Squibb, di Manhattan. I primi test clinici, condotti attorno al 2000 su 14 pazienti già ricoverati in hospice, portarono alla riduzione dei tumori nel caso di 3 di essi.

Quando Allison si trasferì al Memorial Sloan Kettering di New York nel 2004 per essere vicino ai test clinici, era già consapevole dei limiti del suo farmaco. Non aiutava tutti e non funzionava per tutti i tipi di cancro. Il fratello di Allison morì di cancro nel 2005 ed egli stesso preferì la rimozione chirurgica del proprio tumore alla prostata alle possibilità offerte dal farmaco.

Nel momento in cui fu chiaro che lo Yervoy funzionava su alcuni pazienti inguaribili, ma non su altri, la domanda divenne: possibile che esistano altri checkpoint nel corpo?

Un’altra molecola, chiamata PD-1, venne velocemente identificata e trattata con successo. Lo Yervoy di Allison fu approvato dalla U.S. Food and Drug Administration nel 2011 per pazienti affetti da melanoma. Tre anni dopo, la FDA approvò l’inibitore per il PD-1 della Merck (Keytruda) ed un farmaco simile, sempre della Bristol-Myers Squibb (Opdivo), contro cancri al polmone, alle reni, linfoma di Hodgkin. Si trattava della più importante nuova classe di farmaci contro il cancro in un secolo.

Nel 1992, Allison era ormai convinto che ci dovesse essere un terzo interruttore. Il candidato ideale era il misterioso recettore CTLA-4, non sempre presente sulle cellule T. Sia Allison che Bluestone, immunologo del UCSF, scoprirono che questo recettore si comportava in maniera strana. Quando le proteine vi si legavano, invece di attivare la cellula T, la disattivavano.

Questi freni molecolari vennero chiamati checkpoint. Si dimostrò che in topi creati senza CTLA-4, le cellule T finivano per attaccare i propri stessi corpi al termine di un’infezione, uccidendo i topi in poche settimane. Bluestone pensò inizialmente alla possibilità di realizzare un nuovo genere di farmaco immunosoppressore per pazienti di trapianti d’organo, ad esempio.

Allison, invece, pensò che allentare questi freni potesse rafforzare la reazione del sistema immunitario contro il cancro. Uno dei suoi studenti aveva già sviluppato un anticorpo capace di legare con i recettori CTLA-4 delle cellule T e mandarli in tilt. Iniettato in topi pieni di tumori, l’anticorpo diede risultati eccezionali.
“I tumori vennero curati, da 100 percento a 0 percento,” racconta Allison. Ne risultò il farmaco Yervoy, venduto dalla Bristol-Myers Squibb, di Manhattan.

I primi test clinici, condotti attorno al 2000 su 14 pazienti già ricoverati in hospice, portarono alla riduzione dei tumori nel caso di 3 di essi.

(LO)

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